El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

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fotogrammi zagabresi

melita richter

Scrivere, in modo particolare quello che riflette
sulla memoria, è un’attività disordinata che non riesce sempre
a mantenere direzioni rette, una traiettoria prestabilita.
Bora Cosic , Consul u Beogradu

Nel piccolo fazzoletto di terra, lì dove l’arto della città toccava il fiume in due punti distinti, oltrepassandolo, e dove la via Savska giungeva al capo e il tram numero 14 faceva un ampio giro prima di invertire la rotta, in una appartata via laterale si trovava la mia scuola elementare. La vecchia scuola di periferia dipinta ancora in un giallo monarchico, riparata dal traffico della via maestra è rimasta il punto cardinale della mia memoria di bambina. Ad essa è annodata una parte della mia infanzia. Lì insegnava mia madre, lì avrei passato innumerevoli giornate di tiepide primavere ancor prima di frequentare la prima elementare. Mia madre mi portava con sé quando le giornate diventavano lunghe e fiacche e mi lasciava in mezzo al rosaio che ornava da ambo i lati l’entrata principale della scuola, quella degli insegnanti. Ai bordi del rosaio delimitato da un recinto in ferro battuto, si ergevano maestosi alberi di tiglio. L’entrata degli alunni, separata da quella degli insegnanti, si trovava al retro dell’edificio. Per arrivarci, bisognava passare al fianco del rosaio e volgere l’angolo che dava sullo spiazzo dove gli alunni erano supposti a disporsi in file distinte per classe ed aspettare il suono del campanello. Lì, sotto la sorveglianza del bidello Pavel, un omaccione alto dallo sguardo acuto che vestiva stivali e giacca in pelle assomigliando più a un carceriere della KGB (solo che noi allora non ne sapevamo ancora niente dei servizi segreti sovietici), le file si quietavano e solo al suo cenno, atteso da scolaretti con trepidazione, iniziava l’entrata nelle classi. Il tutto doveva svolgersi senza spintoni, urti, gridolini... Allora la scuola era decisa a personificare un mondo ordinato, chiaro, leggibile ed egalitario. Io ancora ne stavo fuori perché troppo piccola. Risparmiata da simili esercizi di disciplina, deposta come una pianta di vaso in uno spazio incantevole e recintato di fronte alla facciata dell’edificio e avvolta dalla voce sonora di mia madre che mi raggiungeva a onde intermittenti dalle finestre spalancate delle aule, mi sentivo parte di un mondo privilegiato, perché un mondo dei grandi, misterioso, promettente, i cui segreti avrei dovuto svelare incominciando da quello stesso istante. In quel stesso giorno avevo “da fare” e avrei continuato a seguitarlo fino “a sempre”. Il mondo della scuola, dell’istruzione, un mondo familiare ove scoprire, sperimentare, osservare.

Tra le piante delle rose che mi arrivavano al petto e il ronzio delle api di cui stranamente non nutrivo alcun timore (qualcuno tentò a spiegarlo invocando le ragioni etimologiche del mio nome che in greco approssimativamente significa miele, dolce, ape…), non le sfuggivo, mi fermavo per poi inseguire le farfalle con passo felpato cercando di perfezionare la presa tra il pollice e l’indice con cui catturarle per le ali fragili e incipriate, senza danneggiarle, così credevo. Il giardino divenne contemporaneamente la baby-sitter perfetta e il mio laboratorio di base; diventai attenta osservatrice del microcosmo che in stagione mite pullulava di vita. Osservavo con attenzione le fessure nel muro di pietra da dove ordinatamente fuoriuscivano le formiche per dirigersi in direzioni sconosciute. Gli altri insetti di cui scoprii la dimora mi sembravano molto meno innocui e imprevedibili, particolarmente quegli indaffarati esserini da sei zampine che sul dorso nero portavano i simmetrici disegni rosso vivo, per cui li battezzai “i pompieri”. Questi mi spaventavano perché si diramavano in tutte le direzioni immaginabili senza uno scopo preciso e sembrava che non ci fosse un ostacolo sufficientemente invalicabile – scatole vuote di fiammiferi, rametti secchi ammucchiati e muretti di ghiaia che costruivo affannata supportandoli con resti di matite e tutto quanto trovavo tra le zolle di terra per fermare il loro frenetico muoversi senza sosta. Scendevano e rientravano dal rasoterra e sostavano solo per un istante sul caldo muro della facciata, come per caricarsi di energia solare.

Sarò vero, che la prima esplorazione del mondo che fanno i bambini è questo penetrare nel microcosmo che ci circonda, che diventa una fonte inesorabile di conoscenza e fantasia e che solo da adulti, troppo affannati nel carpire l’universo intero dimentichiamo, ignoriamo, calpestiamo il suolo che ci circonda, senza prestargli alcuna attenzione, rispetto, curiosità.

Ogni tanto il cielo sopra la mia oasi di esplorazione veniva tracciato a mo’ di razzo da qualche foglio strappato dal quaderno di qualche alunno distratto a cui l’esercizio veniva male. Quei fogli sgualciti di carta, per me erano doni preziosi. Catturavo con lo sguardo la loro traiettoria, li sollevavo da terra, li aprivo e lisciavo la superficie con le dita contemplando il contenuto fantastico indecifrabile; altro che Däniken1! I numeri messi in fila come perle di una collana, le lettere raggruppate in parole che sembravano dei grossi bruchi in processione inspiegabile, fiori neri di macchie d’inchiostro dagli orli slabbrati, le linee geometriche che s’intrecciavano come spade incrociate… Piegavo i fogli in quattro, in otto, in sedici, finché non diventavano minuscoli pacchettini e li mettevo in fondo della tasca del cappottino per poi a casa aprirli e deporli nel mio nascondiglio segreto, sotto la coda del pianoforte, in fondo al salotto. All’altezza della coda ogni pianoforte contiene un grembo vuoto e buio e riparato dove nessuno dei grandi va a ficcare il naso. Quello divenne il mio nascondiglio segreto. Lì il mio tesoro cresceva ed io pian piano, appena mi sentivo non osservata, copiavo quei segni strani uno dopo l’altro in un quaderno bianco che mi era stato regalato per esercitarmi nel disegno. Solo il nonno conosceva il mio nascosto trafficare con le carte, mio nonno immensamente amato e complice che passava le giornate con me quando rimanevo a casa mentre mamma, papà e fratello erano impegnati a scuola. Ogni tanto mi passava la carta con linee calcate in nero per porle sotto il foglio bianco sul quale copiavo le lettere, affinché i piselli a cui somigliavano i geroglifici che riproducevo potessero reggere un ordine allineato prima ancora di un qualche senso.
Vista la mia decisa insistenza di penetrare il mistero della scrittura, il nonno non resistette ad insegnarmi a leggere e a scrivere prima dell’inizio della scuola nonostante l’espressa contrarietà di mia madre. Credo che la sua posizione, quella della madre, sull’argomento veniva sostenuta dal fatto che sarei comunque stata iscritta alla prima elementare un anno prima degli altri. In Jugoslavia si accedeva alla scuola elementare a sette anni compiuti, mentre io sarei stata iscritta, trasgredendo le regole, a sei. Questioni di famiglia. Quindi, avrei dovuto seguire l’insegnamento assieme agli alunni più grandi di me e il fatto avrebbe ad ogni modo significato una scolarizzazione precoce. Questi erano i ragionamenti dei miei genitori. Il nonno però se ne guardava bene di porre le briglie alla curiosità della piccola e una volta riempito il quaderno, ne uscimmo allo scoperto felici come i papi. La madre rimase sorpresa doppiamente; per il fatto in sé e per l’alleanza segreta tra me e suo padre notoriamente severo, mentre io, fiera della mia creazione e con un sostenitore raggiante alle spalle, leggevo emozionata le parole scritte. Le frasi brevi furono tutte farina del suo sacco, mozziconi delle lezioni copiate di mia madre che a me arrivarono a modi aeroplano dalle finestre spalancate della scuola. Ricordo che infine, lei disse meravigliata: “…allora, la piccola sa!”. Non so se era una domanda rivolta al nonno, o un rimprovero; sicuramente non poteva essere altro che una constatazione che prendeva atto del mio impegno, ma priva di lode. Si trattava comunque di una trasgressione. Non ricordo come mi sono sentita in quell’istante, ricordo vagamente che intuii che si trattava della mia prima lezione di scuola e di vita. Che io interpretai nel modo seguente.
Se avessi saputo di più e prima che gli altri se lo aspettassero, avrei dovuto tacere, fingere di non sapere. Iniziai a praticare il teorema introiettato da subito nella prima elementare; ogni nuova lettera, parola, che si studiava e sillabava in coro in classe, lo facevo assieme agli altri come se fossi alla scoperta di una terra nuova. Imbrigliavo l’infantile voglia di esternare che “quello, io lo so già”. Di fronte agli altri celavo la conoscenza già deposta, assorbita. Per rispettare il loro ritmo facevo finta di non sapere.

A casa lessi il mio primo libro per bambini col nonno, imparai brevi poesie a memoria, Leptiricu, šarencicu, dodji meni amo…2, in classe continuavo a non alzare la mano quando la maestra chiedeva chi volesse leggere dalla lavagna le parole composte da poche sillabe e neppure mi muovevo quando iniziava con la domanda “Chi saprebbe dire…?”. Oggi mi sembra che non ne soffrissi granché, forse allora la mia piccola testolina escogitò il trucco della sublimazione nel fatto che il lento cammino che percorrevo assieme agli altri, donava la quotidiana conferma al mio sapere segreto, carpito. Quindi, era tutto vero. Io sapevo e loro non sapevano che io sapessi. E di questo ero contenta. Riuscivo a prevedere le domane della maestra e le risposte degli alunni. Quando toccava a me, andava sempre per il meglio, ricevevo i voti migliori. Eppure a volte mi scordavo di domare l’esuberanza della voglia di dimostrare, una voglia di conferma esterna, e ne uscivo allo scoperto, spontaneamente. Come quella volta del flauto.

Iniziai a frequentare le lezioni di pianoforte alla prima elementare. La maestra Vally Dinagl, una francese cui antenati si fermarono a Zagabria ai tempi di Napoleone, mi spiegava il valore delle note con l’aiuto delle mele. La mela piena: ta, te, ta, tà, quattro tempi completi; la mezza mela: ta te, un quarto di mela: tà. Alla fine della lezione mi dava da mangiare il frutto tagliuzzato. Faceva un po’ schifo. Ma mi incuriosiva il mistero della musica il cui piacere mi arrivava tramite l’offerta del fruttosio. Mi dispiacevo per le mele sprecate, progredivo con lentezza e solo nella terza elementare, dopo i soliti Bayer, Czerny e Duvernoy, Practical Exercises for Beginners, gavetta obbligatoria di tutti i pianisti falliti del mondo, cominciavo davvero interessarmi alla musica. A scuola, appena seppi dell’esistenza del coro, entrai a farne parte anche se questo significava rimanere alle prove dopo le lezioni per almeno un’altra ora. Più spesso per due. In quarta, vennero assegnati alla nostra scuola otto flauti. Otto flauti per tutte le classi! Il regime si sforzava di ampliare l’educazione empirica, a completare i laboratori e le aule scolastiche, ma non ne aveva i mezzi sufficienti. Quello che veniva tagliato è stata l’area dell’arte e della musica. La maestra di musica, Božena Ivanov, amica di mia madre, chiese alla classe chi avrebbe desiderato imparare a suonare il flauto. Alzai la mano prontamente e lei ancora più svelta esclamò: ”Tu no! Tu hai già tutto; tu studi il pianoforte.” La sua frase non esplicitò “tutto”: a casa c’erano anche due violini e la fisarmonica. Arrossii, mi sentii profondamente colpevole per aver osato desiderare di “impossessarmi” di qualcosa in più; non immaginavo che il mio desiderio avrebbe potuto privare qualcun altro di un’opportunità che la sua famiglia non avrebbe potuto offrirli… Non ero ancora pronta a percepire quella soglia sottile dove il mio bene poteva ledere, anche se solo in teoria, un bene dell’altro; ero troppo piccola per questo pensiero di giustizia sociale, molto ideologico e sicuramente riduttivo. Ero agli inizi dell’interiorizzazione dell’alfabeto dell’etica socialista, egalitaria, quella degli anni cinquanta: non spiccare al di fuori della massa, non eccedere, non cercare di primeggiare, specialmente se sei di estrazione borghese, non pavoneggiarti da “quella che può”; adeguati a colui che “non può”, proteggilo e aiuta affinché la soglia della separatezza diventi più sottile, meno percepibile. Rispetta il suo non-potere e acconsenti che esso possa mutare in potere.
(Il ché non coincide sempre con la conoscenza, lo imparai più tardi).
Suona bene. Ma duole mentre si impara.

In seguito imparai a riflettere rapidamente prima di alzare la mano; il mio pensiero non si socializzò in senso di esaminare che cosa avrebbero fatto gli altri in quello stesso istante, in date precise circostanze, ma era rivolto a me, era un esame lampo con cui verificavo se davvero ci tenevo a dire, a fare, a volere delle cose che mi si prospettavano dinanzi. Potevano questi essere i segni premonitori dell’accettazione di un’uniformità richiesta, voluta fortemente in un periodo storico preciso? Si trattava di un’autocensura del desiderio? Forse. A me servì nelle scelte di vita, nell’affilare le capacità relazionali con gli altri e diversi ai quali lasciavo il tempo di reazione e dell’espressione della loro soggettività, ma non per questo il primato della conoscenza, neppure il vantaggio nel misurarsi.
Era questa modalità interiorizzata di una convinzione non esposta che rafforzava il mio piccolo Io. Mi misuravo in relazione con gli altri priva di brama di potere. Ma con piccole invidie e dolori infantili che di solito si fermavano nell’ambito dei giocatoli e dei vestitini.

1 Erich von Däniken, lo scrittore svizzero, noto per i suoi libri di archeologia misteriosa. Uno dei principali sostenitori della cosiddetta “teoria degli antichi astronauti” .
2 Poesia cantata per bambini: Farfallina, colorata, vieni da me...

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Anno 9, Numero 39
March 2013

 

 

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