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Quando la notte rorida di morte viene meno,
invasata da perturbante luna
invasata da lunghi flussi d’ombra,
portico e monolite
torcono braccia fantastiche nell’aria;
lastricato e scalee cave riecheggiano
quadrettati da nette strisce nere;
lungi da grazia di stelle e venti,
irretito d’immortalità,
salgo le scale, oltre me nessuno.
Tetre si schiudono le fauci del portale,
compatto, ben zigrinato, eterno,
dove grifi di pietra eleggono
dimora, immersi in un sonno senza veli;
sedi terrene, dove nessun fiore sboccia;
chiostri, persi nei dedali dell’ombra,
sorvegliati sigilli del mistero,
sola chiave, l’oblio.
Percepii, reconditi, nei sogni,
muschio denso, fumidi vapori d’incensieri,
e udii lontano un organo inondare
di ritmi selvaggi tutti i corridoi,
scoprii il profilo scabro d’un muro,
vergato d’un geroglifico segreto,
che dura su leggendari rotoli,
e in me è cognizione ineffabile.
Solo, nella vastità d’una notte lunga anni,
assediato da folle di speranze e timori,
ho bramato e creduto di vedere,
negli istanti di luna, a intermittenza,
un altro vagabondo lento salire
i consunti gradini di Rovina e Tempo –
Non musica di voce, carezza di mano,
cadenza la mia solitudine silente:
irretito d’immortalità,
salgo le scale, oltre me nessuno.
Io so una solitudine in cui alberi aguzzi
deflettono la luce piena del sole, screziando
il sottobosco di luci soffuse, fluttuanti; mentre api
seguono nel ronzio monocorde.
Pausa pulsante fra sogno e sogno, quei trilli,
un argenteo lasso d’acqua; là, canto d’uccelli,
l’inno della gazza ammalia l’aria afosa,
là, il rufo solitario replica il richiamo .
Un vento sperduto sussurra, quale spettro tra foglie,
e increspa gentile le fronde fluenti della felce,
gioca con stille d’acqua alcionia, posando
muschio mirrato fra canne d’acacia oscillanti,
grevi di torpore oppiato. Non un brillio di colore
abbaglia l’occhio; un sericeo flusso di foschia
mitiga e doma; poi, la serrata luce del cielo
irrompe in oscuri lustri d’ametista
Questo è vero Silenzio, setoso e spanto di suono,
arso da spasmi d’innumeri liuti;
questa la sola requie del mio cuore,
straziato da cimbali terreni, che titillano vani.
Oh, per una tale quiete l’occhio s’affioca,
e l’orecchio, stordito da crescenti spirali di frastuono,
per la pacata frenesia d’un soave pianto d’anima,
una vaga visione – e quell’unica Voce che risponde.
Incespicando per gore di silenzio, esaliamo
la nota brutale del nostro principio, zigzaganti
per sentieri di luce ferita, poi, vicini ai monti,
con sordi brontolii di gong, viriamo.
E smunti, bigi angeli avidi di brume
frullano oltre noi, d’un tratto, in cupo volo;
affondiamo a ritroso in un altro eone di caos,
incatenati dagli abissi ferrigni ai loro piedi.
Qui è dove, secoli fa, si spense il Tempo,
l’enorme, bianco, rigido corpo, smembrato sulla
ruota immane del cielo, volto a un flusso di neve,
e la bruma che ancora gli vaga appresso, come un’amante.