El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

Nota biografica | Versione lettura |

mabanckou al salone del libro di ginevra

paola corgatelli

« Je suis né au Congo Brazzaville, j’ai étudié en France, j’enseigne désormais en Californie. Je suis noir, muni d’un passeport français et d’une carte verte. Qui suis-je? J’aurais bien du mal à le dire. Mais je refuse de me définir par les larmes et le ressentiment. »
A.M.

Nell’ambito del recente salone internazionale del libro e della stampa di Ginevra (25-29 aprile), ho assistito ad un incontro tra due autori di diversa estrazione e provenienza geografica: il primo, francese, docente universitario, scrittore, giornalista e filosofo, teorico del ritorno ad una riunificazione del reale col magico nella società dei mass media e vicino al movimento dei “nuovi filosofi”, ha ripubblicato recentemente un libro da lui scritto nel lontano 1983, un saggio assai discusso dal titolo: Le sanglot de l’homme blanc1 … il secondo, congolese di Brazzaville, formatosi a Pointe-Noire ed in Francia, attualmente professore di letteratura africana a Los Angeles, presentava, nell’ambito del Salone ginevrino, il suo nuovo libro dal titolo speculare: Le sanglot de l’homme noir2. Si trattava rispettivamente di Pascal Bruckner e di Alain Mabanckou, quest’ultimo già famoso in Italia per le sue Memorie di un porcospino3 e per altri romanzi4.

Bruckner è colui che affermava, negli anni ’80, che: “il consumismo culmina nell’animismo degli oggetti”, ma anche colui che condannò il “terzomondismo”, secondo lui una mentalità che vedrebbe “l’Occidente colpevole di ogni crimine sin dalle origini e la decolonizzazione come liberazione di un’umanità nuova (…) Sicché l’europeo si ritiene responsabile di ogni inferno in terra: guerre civili, nazionalismi, integralismi. E i primi ad approfittarne sono gli integralisti musulmani.”5 Soprannominato il «fondamentalista dell'illuminismo», arrivò ad affermare che: «Il multiculturalismo è il razzismo degli antirazzisti», paventando un rischio di «nazioni dentro le nazioni» a causa del predominio di chi in altri Stati si sente minoranza, mentre “La missione dell'Europa deve essere proprio questa: incoraggiare un islam illuminista e riformatore».6

Sincero e spietato, nel dibattito ginevrino, Bruckner ha spiegato, ancora una volta, il suo punto di vista: il manicheismo dei “Terzomondisti” ( secondo i quali l’uomo bianco, colonialista e imperialista, sarebbe malvagio e il nero sarebbe una vittima innocente) ha prodotto la cultura dell’odio di sé, che ha portato l’uomo occidentale a guardare all’”Altro” con un misto di compassione e di solidarietà, in questo modo plasmandolo secondo un ideale stereotipato; di fatto, questo non gli permetterebbe di conoscere veramente l’“alterità”. Retaggio di un antico gesto biblico, il peccato originale della nostra civiltà ci induce, secondo il polemista, a una continua svalutazione dei nostri modelli, dei nostri comportamenti collettivi, nel passato così come nel presente. Ciò si tradurrebbe in un relativismo culturale che conduce necessariamente alla domanda: dove si arrestano quei valori che l'Occidente dà per scontati - i diritti primari dell'individuo, senza discriminazioni di sorta -, in nome del rispetto per le culture altre? Secondo lo scrittore francese, mistificare o addirittura rinnegare la nostra eredità storica non offre una prospettiva privilegiata per capire meglio il Terzo Mondo; al contrario, l'assurdo dilemma che impone di scegliere se amare una civiltà o un'altra rende ignoranti di entrambe. Bruckner propone un diverso approccio all’altro, lucido e rassegnato, ma costruttivo: accostarsi allo Straniero in modo schietto, senza ipocrisie o preconcetti, né pietismo o compassione, lasciandoci guidare dal senso dell'amicizia e dalla meraviglia, che dovrebbero essere propri di tutti gli esseri umani. Su questa conclusione, come dargli torto?

Una delle frasi di Bruckner che più mi hanno colpito, nel corso del dibattito, è stata la seguente: “Perché ci saranno sempre gli altri: per quanto tollerante, liberale possa diventare la cultura occidentale, essa non farà mai dell'alterità una parte dell'identità.”7 In altre parole, non scimmiottiamoci a vicenda, l’alterità delle culture non è eliminabile: possiamo conoscerci e rispettarci, prendere quello che ci aggrada o ci appassiona, possiamo a vicenda insegnarci qualcosa, ma non possiamo diventare altro da noi stessi.

Nel dibattito, molto acceso, Alain Mabanckou ha affermato di condividere questa posizione, aggiungendo però che anche dall’altra parte della “barricata” serve un cambio di mentalità: l’uomo nero deve smettere di piangersi addosso … il suo slogan è: “Contre le dolorisme, rangez vos mouchoirs!”, con il quale Mabanckou vuole combattere la tendenza dei suoi “fratelli”ad erigere le sofferenze passate a segno d‘identità… Non si possono ignorare il razzismo e l’immigrazione, ma non si può indicare l’uomo bianco come il male assoluto: “Celui qui hait aveuglément l’Europe est aussi malade que celui qui se fonde sur un amour aveugle pour une Afrique d’autrefois, imaginaire”8… mi pare di sentire qui l’eco delle critiche alla Negritudine di Senghor di decenni fa, quando in prima linea era Frantz Fanon, peraltro citato spesso dall’autore congolese… Rivendicare la bandiera della “détresse”, la quale unirebbe in un comune destino di umiliazione, di dannazione e di infelicità tutti i neri del mondo, antillano, statunitense, africano o parigino che sia, purché di pelle nera, significa esonerarsi dalle proprie responsabilità: il tradimento delle indipendenze perpetrato dai governi locali, la collaborazione alla tratta degli schiavi dei monarchi africani, ecc. L’autocritica è necessaria: gli africani sono colpevoli in prima persona dei loro fallimenti e solo prendendo in mano il loro destino, solo guardando al futuro e non al passato mitico e glorioso, potranno uscirne. Parole forti…

In una recensione del nuovo libro di Mabanckou, Bruckner aveva esaltato la sua vena polemica: “Mabanckou froissera beaucoup de susceptibilités dans la diaspora africaine. On l’accusera de s’être ‘blanchi’, d’avoir épousé les valeurs des anciens maîtres. Preuve qu’il aura visé juste. On mesure la valeur d’un texte à l’irritation qu’il provoque, au nombre des conformismes qu’il bouscule.»9

Insomma, alla fine del dibattito, ho comprato il libro, scambiando alcune parole con Mabanckou stesso, e la dedica che mi ha scritto suona: “Pour Paola, ce livre pour s’interroger!”… in effetti, la questione mi coinvolge personalmente e già mi interrogavo spesso nei miei viaggi in Africa e nel confronto con gli immigrati subsahariani, sul mio/nostro senso di colpa e sul loro “vittimismo” e mi sono ritrovata ultimamente ad esclamare con qualcuno di loro: “Ma lo vogliamo seppellire questo colonialismo? Vogliamo seppellirle queste ormai antiche dispute?”

E poi ho letto il libro. Inizia con una citazione tratta da Pelle nera maschere bianche di Frantz Fanon10, l’allievo di Aimé Césaire, che si rivoltò contro i padri della Negritudine: “Cos’è questa storia di popolo nero, di nazionalità negra?[…] personalmente io sono interessato al destino francese, ai valori francesi, alla nazione francese. Che me ne faccio di un Impero nero?”, il che detto da un cittadino francese della Martinica (dipartimento d’oltremare) quale fu Fanon, non suona strano, ma riaffermato da un cittadino congolese, pur cosmopolita come Mabanckou, fa un certo effetto: risultato della globalizzazione?

Qui entrano in gioco molte domande: uno scrittore nato in Congo, che ha pubblicato in francese in Francia, tradotto poi in molte lingue, docente negli Stati Uniti, fa certo parte della francofonia, ma può definirsi “scrittore africano”? Esiste ancora la letteratura “africana” francofona o si è dispersa nella diaspora, che ha portato i suoi maggiori rappresentanti a vivere all’estero? In effetti, la polemica contro la fatalità della maledizione dell’uomo nero di Mabanckou fa parte della sua posizione rispetto alla cosiddetta “letteratura africana”, etichetta da lui rifiutata. In un’intervista Mabanckou afferma che “il pericolo per lo scrittore nero è di rinchiudersi nella sua ‘noirceur’”11 e altrove ha invitato gli scrittori africani “francofobi”, che hanno scelto di scrivere nelle lingue locali, rifiutando il francese in quanto lingua dei colonizzatori, che: “il solo criterio è il talento”. A questi temi prettamente letterari sono dedicati due capitoli del libro: La carte d’identité e La littérature à l’estomac.

Il saggio di Mabanckou è suddiviso in 12 capitoli, i cui titoli sono presi in prestito da altre opere famose (gli autori vengono citati tra parentesi) e inizia con quello che dà il titolo al libro stesso. Si tratta di una lettera al figlio Boris, nella quale, dopo esserci riallacciato al Sanglot de l’homme blanc di Bruckner, per giustificarne la deformazione, Mabanckou afferma perentoriamente che la “coscienza nera” in realtà “non è che una dimostrazione, quando ci si sarebbe dovuti aspettare una costruzione, per non consacrare le proprie energie a fare il ‘bilancio dei valori negri’, come scrive Frantz Fanon. Per certi aspetti, essa diventa una demolizione pura e semplice dell’uomo di colore, che, invece di occuparsi del suo presente, si perde nei meandri di un passato visto sotto l’angolo della leggenda, del mito e soprattutto della ‘nostalgia’.”12

Mabanckou se la prende con “i neri singhiozzanti”, quelli persuasi che “la sopravvivenza degli africani passi per l’annientamento della razza bianca o, perlomeno, per l’inversione dei ruoli nel corso della storia.”13

Nel secondo capitolo, Un nègre à Paris (da Bernard Dadié), l’incontro in una palestra con un centrafricano gli permette delle riflessioni sulla situazione degli immigrati. Bello il passaggio in cui questo personaggio, dopo il solito confronto tra i due differenti modi di vivere il tempo (che sarebbe come una corda di cuoio per il bianco, una corda elastica per l’africano), l’immigrato esclama: “C’est pourtant ça, notre malheur, on se dit toujours ça viendra, et ça ne vient jamais parce que, comme on dit dans mon village natal, c’est à force d’attendre que le crapaud n’a jamais eu de queue!(…) Mon frère , je ne te cache rien: la révolution doit passer par là. Nous devons prendre le temps des Blancs et leur donner notre temps à nous, sinon nous finirons comme des crapauds sans une queue.”14

Negli altri capitoli, che prendono in prestito i loro titoli dai più svariati autori (da Montesquieu a Malouf, da da Oyono a Kourouma, passando per Labro, Ouologuem, Adiaffi, Gracq e Leiris), altri incontri in giro per il mondo sollecitano l’autore a riflessioni sui temi correlati: la “France noire” e la sua Costituzione, i “francesi per interesse” e i “cittadini dell’alternativa”, l’identità nazionale e la percezione della cittadinanza (e l’abuso che ne fanno i politici a scopi elettorali), lo jus soli e lo jus sanguinis, l’intreccio tra lingua, cultura e civiltà, e via dicendo; riflessioni peraltro mischiate a reminiscenze storiche della Negritudine, di Nantes come centro della tratta negriera, di Brazzaville capitale della Francia durante l’occupazione tedesca, della nascita delle indipendenze (vi è dedicato tutto l’ultimo capitolo, che cita nel titolo il Kourouma de Les soleis des indépendances)…

Singolare e interessante il capitolo Le devoir de violence, nel quale, dopo aver ricordato il periodo dei suoi studi a Nantes, una delle capitali del commercio triangolare, Mabanckou racconta il caso dello scrittore maliano Yambo Ouologuem, che nel suo romanzo omonimo descrisse la tratta negriera araba svolta con la connivenza dei capi tribù locali, ben prima dell’arrivo degli europei; l’opera fu attaccata dai critici africani ed, in seguito, ritirato dal commercio per supposto plagio … Mabanckou colloca questo romanzo nella lista delle opere miliari della letteratura africana di lingua francese, insieme a Les soleils des indépendances di Ahmadou Kourouma, La vie et demie di Sony Labou Transi e Le Pleureur –rire di Henri Lopes.15 Abbiamo così la lista degli autori preferiti dal professore di letteratura francofona alla Ucla di los Angeles.

Tra tutti ho molto apprezzato il capitolo intitolato Chemin d’Europe (da Ferdinand Oyono) dove il tema della percezione dell’Europa nell’immaginario degli africani, il sogno europeo, offre l’occasione a Mabanckou di donarci alcuni ricordi della sua infanzia a Pointe-Noire. E’ un racconto che ricorda il suo precedente romanzo: Domani avrò vent’anni.

Il libro, che consta di 182 pagine e si conclude con la toccante lettera dei due ragazzini guineani trovati morti nel carrello d’atterraggio di un aereo all’aeroporto di Bruxelles il 2 agosto 1999, è ricco di spunti e appunti su tematiche che possono o dovrebbero interessare anche i lettori italiani, perché anche in Italia, e anche se in ritardo rispetto alla Francia, il dibattito sulla cittadinanza, l’alterità e l’identità si muove, purtroppo più nell’arena politica che in quella culturale “ufficiale”, in mancanza una seria riflessione filosofica su cosa sia l’”italianità”.

1 P. Bruckner, Le sanglot de l’homme blanc, Ed. Points, 2002, tradotto da Longanesi nel 1983 e da Guanda nel 2008: Il singhiozzo dell’uomo bianco.
2 A. Mabanckou, Le sanglot de l’homme noir, Ed. Fayard, 2012.
3 A. Mabanckou, Memorie di un porcospino, Morellino ed., 2009, collana Griot.
4 Poeta e romanziere, A. Mabanckou, nato a Brazzaville nel 1966, ha pubblicato in italiano presso Morellini: African Psycho (2007), Verre cassé, (2008), Memorie di un porcospino (2009); presso 66THAND2ND, nella collana Bazar: Black Bazar (2010) e Domani avrò vent’anni (2011).
5 Intervista P. Bruckner, Le sanglot de l’homme blanc, Ed. Points, 2002, tradotto da Longanesi nel 1983 e da Guanda nel 2008: Il singhiozzo dell’uomo bianco. a Bruckner di Stefania Vitulli , 02 marzo 2007, Il Giornale
6 Ididem
7 Elena Loewenthal, L'odio di sé non abbandona l'Occidente,"TuttoLibri", "La Stampa", 29/03/'08
8 A. Mabanckou, 2011, pag. 11.
9 P. Bruckner, La colère noire de Mabanckou, « Le Nouvel Observateur », 02.02.2012.
10F. Fanon, Peau noire masques blancs, Ed. Seuil, 1995 (nuova edizione)
11 Alain Mabanckou contre la malédiction de l’homme noir, intervista su Ebene.fr, riportata nel sito ufficiale dello scrittore: www.alainmabanckou.net
12 A. Mabanckou, 2011, pag. 13 (il corsivo è dell’autore)
13 Ibidem, pag. 14
14 Ibidem, pag. 31
15 Ibidem, pag.129.

Inizio pagina

Home | Archivio | Cerca

Archivio

Anno 9, Numero 36
June 2012

 

 

 

©2003-2014 El-Ghibli.org
Chi siamo | Contatti | Archivio | Notizie | Links