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maaza mengiste & nadifa mohamed

warscapes

Comincia da questo numero la collaborazione con il periodico online “Warscapes” che ci ha concesso di tradurre per la nostra rivista l’intervista alle due scrittrici del Corno d’Africa Maaza Mengiste e Nadifa Mohamed. L’originale della conversazione si può leggere qui:
http://www.warscapes.com/conversations/maaza-mengiste-nadifa-mohamed

La traduzione italiana è a cura di Laura Maggi

Maaza Mengiste & Nadifa Mohamed

Per un’insolita combinazione, due giovani autrici originarie del Corno d’Africa hanno debuttato nello stesso anno con romanzi acclamati dalla critica. “Lo sguardo del leone” di Maaza Mengiste ricostruisce la rivoluzione del 1970 in Etiopia che pose fine alla monarchia dell’Haile Selassie e vide insediarsi il regime particolarmente brutale di Derg. Con l’intreccio delle voci di un importante dottore Hailu ad Addis Abeba, di suo figlio Dawit, nel pieno della maturazione politica, di un deluso e sbiadito Imperatore Selassie, e soprattutto dell’innocente fattorino di giornali Behrane, il romanzo offre un resoconto commovente e crudele di un capitolo violento della storia etiope. L’opera della Mengiste è encomiabile in particolar modo per aver rotto il silenzio su quest’epoca, permettendo a questo popolo di cicatrizzare e risanare quei ricordi tanto vividi.

“Mamba Boy” di Nadifa Mohamed va ancora più a ritroso nel tempo, all’Africa orientale degli anni ’30 quando gli esatti confini nazionali di paesi come la Somalia, l’Eritrea, il Sudan e il Gibuti dovevano ancora essere stabiliti. Ispirato alla vera vita di suo padre, il romanzo della Mohamed segue l’epico viaggio di un dolcissimo ragazzo, Jama, che desidera ardentemente ricongiungersi alle sue radici nonostante la lotta quotidiana per la sopravvivenza. Il romanzo si apre al di là del Golfo di Aden, nella cittadina costiera di Aden nello Yemen. Jama si imbarca in un viaggio attraverso i paesaggi mozzafiato della Somalia, Eritrea, Sudan, Gibuti e altri. Il viaggio diventa presto macabro quando conosce in prima persona la barbarie del colonialismo italiano e viene spedito per sbaglio nei remoti campi di battaglia africani della Seconda Guerra Mondiale, circostanza in cui gli abitanti indigeni del luogo pagarono il prezzo più alto. L’opera della Mohamed è un straordinario sguardo su un epoca che è stata assai rappresentata dalla prospettiva europea, ma quasi mai da quella africana.

Entrambi i lavori della Mohamed e della Mengiste hanno vinto molti dei più importanti premi del 2010 e fanno parte di un gruppo straordinario e fuori dal comune (sebbene in aumento): le scrittrici africane. A parte gli evidenti ostacoli della discriminazione sessuale, questo gruppo è doppiamente penalizzato per il compito impossibile di scrivere sull’Africa, un luogo dove ideologie imperialiste, afro-pessimismo e razzismo si scontrano troppo spesso. Come accade di sovente, le scrittrici africane finiscono per sprecare troppo tempo a difendere il loro continente e la loro cultura da queste malevole tendenze. L’editor di Warscape, Bhakti Shringarpure, è entrato in una chat di gmail con la Mengiste a New York e con la Mohamed a Londra per analizzare la questione e per parlare del loro lavoro e di come i loro romanzi sono stati accolti. Quello che emerge è una sorprendente e pungente conversazione che spazia dalla comprensione di quell’evento particolare che è stato il colonialismo italiano, delle speranze frustrate riposte sugli scrittori africani, delle difficoltà di scrivere sulla violenza e infine degli uomini di potere che si trasformano in iene…

Bhakti Shringarpure: Nadifa, quando ho incontrato Maaza a New York mi ha detto che voi due siete state abbinate in molti eventi e festival editoriali in Italia. Secondo te qual è il motivo?

Nadifa Mohamed: penso che in Italia specialmente ci sia una grande consapevolezza dell’Africa orientale e il fatto che entrambe siamo giovani donne che vivono lontano dal proprio paese ha dato il via al collegamento nella testa delle persone.

Maaza Mengiste: sì, è vero. In Italia ci sono molte persone provenienti dalla Somalia, Eritrea, Etiopia. Questo ci dice quanto siano complessi i rapporti storici tra i paesi: colonialismo, guerra, ecc. Ma di questi rapporti non se ne parla con facilità in Italia. E credo che questo sia parte dell’interesse nei nostri due libri – una finestra su questo frammento di storia.

Bhakti Shringarpure: Nadifa, come hanno reagito gli italiani al tuo libro? Sono curiosa.

Nadifa Mohamed: ci sono stati due tipi di reazioni comuni: la prima è arrivata dagli italiani più di sinistra, in genere più giovani o con un interesse specifico per l’Africa che volevano essere critici verso l’occupazione italiana dell’Africa orientale e che conoscevano già da soli la natura del colonialismo. La seconda era una specie di sguardo vuoto, confuso e davvero incapace di associare ciò che stavo dicendo e scrivendo con ciò che avevano sentito a scuola e a casa. Un ritornello frequente era che “eravamo brava gente; non eravamo razzisti come “quelli del nord Europa””.

Maaza Mengiste: questo è interessante e ha senso. Ho avuto simili esperienze con gli italiano più liberali. Nessuno vuole parlare del sostegno che gli italiani hanno dato a Mussolini e ai fascisti quando sono saliti al potere, specialmente dopo la seconda guerra mondiale terminata in modo così disastroso per i fascisti. L’epoca delle colonie è un brutto promemoria di quell’accondiscendenza. Ma quello che ho sentito ripetere da molti italiani è anche l’idea che loro siano stati “bravi” colonialisti. Non ti dico le volte in cui la prima cosa che mi sono sentita dire dalla gente riguardo quel periodo è: “hanno fatto molte cose buone laggiù. Hanno costruito strade e modernizzato il paese.” Sì, questo l’hai sentito anche tu!

Nadifa Mohamed: sì!

Maaza Mengiste: sono talmente stufa di sentirlo dire…penso che se la situazione fosse capovolta, metterebbero in evidenza gli omicidi, gli stupri, i massacri, gli imprigionamenti e poi vediamo se le strade rimedierebbero a tutto questo.

Nadifa Mohamed: o i treni! Ma nella realtà la segregazione razziale di quel periodo nell’Africa orientale italiana va al di là di quello che i francesi e inglesi hanno messo in pratica.

Bhakti Shringarpure: ha avuto breve durata ma è stata davvero di forte impatto. Nadifa, perché ritieni che il colonialismo italiano sia andato al di là di quello francese e inglese?

Nadifa Mohamed: mio padre descriveva il modo in cui gli italiani erano obbligati a lasciare cinquanta lire sui corpi degli africani che capitava loro di uccidere. Mi pare che in Kenia o nella Costa d’Oro e in altre parti occupate dagli inglesi questo non sarebbe mai accaduto.

Bhakti Shringarpure: è orribile.

Maaza Mengiste: gli italiani hanno sviluppato un sistema di segregazione razziale in Etiopia e nelle loro altre colonie prima che esistesse in Sud Africa.

Nadifa Mohamed: gli italiani, belgi e tedeschi sono arrivati tardi alla festa, e penso che cercarono di ottenere il più possibile nel minor tempo possibile senza nemmeno fingere di rispettare le popolazioni locali. Il colonialismo inglese e francese è stato più incrementale e qualche volta fortuito. Mio padre doveva scendere dal marciapiede se sopraggiungeva un italiano, mettersi in fondo all’autobus, chiamarli “Signore” e “Signora”.

Maaza Mengiste: a differenza degli inglesi e francesi che hanno insegnato le loro lingue nelle scuole delle colonie (nel bene e nel male) e fatto uso delle popolazioni indigene come parte del loro sistema di dominio nelle colonie, gli italiani hanno concesso solo tre anni di sistema scolastico e l’italiano insegnato nelle scuole fu deliberatamente imbastardito; una sorta di pidgin italiano con lo scopo di far apparire la gente dell’Africa orientale analfabeta quando parlava. Volevano che la cultura e la lingua italiana restasse “pura” per i soli italiani.

Bhakti Shringarpure: Maaza, esiste una trasmissione orale della storia come quella di Nadifa nella tua famiglia riguardo questo periodo?

Maaza Mengiste: ciò che è interessante, riguardo la trasmissione orale della storia in Etiopia, è il senso diffuso che mentre Mussolini era cattivo e il Fascismo il male, gli italiani in sé non erano così male. Non ho sentito molti racconti dalla mia famiglia su quel periodo, ma da altri si evince un misto d’orrore per l’occupazione e di gentilezza da parte di quegli italiani che hanno deciso di rimanere dopo la guerra. Credo ci siano alcuni motivi per il silenzio riguardo ciò che è realmente accaduto durante la guerra. Il primo è che l’Etiopia ha ottenuto la libertà. Le storie più importanti parlano di eroismo e di lotte contro gli italiani. L’attenzione era focalizzata sui patrioti e sui combattenti per la libertà. Il secondo è che quando Haile Selassie tornò al potere nel 1941, promulgò una dichiarazione secondo la quale la gente doveva perdonare gli italiani e, se ricordo bene, c’era il sottinteso di separare una leadership cattiva dalla sua gente, di giudicare i fascisti e Mussolini ma non gli italiani in genere. Quindi non abbiamo mai avuto la possibilità di parlare delle brutalità che la gente aveva dovuto sopportare sotto l’occupazione, i processi condotti dagli italiani per incriminare gli etiopi per crimini che non conoscevano o capivano, la segregazione razziale ecc.

Bhakti Shringarpure: capisco. Fu espressa un’ideologia ufficiale.

Nadifa Mohamed: i 750,000 morti.

Maaza Mengiste: esattamente. Gli orrori dei bombardamenti all’iprite, le migliaia di tonnellate lanciate sui villaggi e nei fiumi.

Bhakti Shringarpure: e’ difficile descrivere tali brutalità? Mi riferisco alla tortura e uccisione di Shidane nel caso di Mamba Boy e del piccolo Behrane in Sotto lo sguardo del leone…

Nadifa Mohamed: e’ incredibilmente difficile. Ci ho girato intorno per molto tempo, e poi mi sono assicurata che Jama avesse una tregua da tutta quella violenza per il mio e il suo bene. Lessi dell’omicidio di Shidane Arone da parte delle forze di pace delle Nazioni Unite quando ero un’adolescente e la cosa mi è rimasta dentro-soprattutto le immagini-così che quando ho scritto le atrocità italiane ho sentito il bisogno di collegarle con la violenza crescente contro i poveri e vulnerabili. Nonostante ciò è stato molto difficile metterlo sulla carta.

Maaza Mengiste: sì, mi è stato davvero difficile scrivere quelle scene. Ho dovuto poi considerare seriamente se quelle parti erano necessarie alla storia e anche chiedermi se le avessi esagerate. La cosa più importante per me era l’idea che stavo scrivendo ciò che sentivo come organico alla storia, non qualcosa che “provasse” alcuni avvenimenti storici. Mi ci è voluto molto tempo per tornare indietro e rileggere quelle sezioni e rivederle. Un paio di anni fa mi trovavo al museo per le vittime della rivoluzione ad Addis Abeba, e sulle pareti c’erano alcune foto di coloro che erano morti o scomparsi. Ne ho viste davvero tante che mi hanno ricordato Behrane - che avevano l’aspetto che avevo immaginato per lui. E se c’è stato un imperativo a scrivere la brutalità è venuto in seguito, quando ho visto che era troppo strettamente correlato con l’esistenza. E quindi sono stata contenta che il mio libro abbia avuto quest’esito, che abbia incluso ciò che avrebbe potuto essere la storia di uno qualsiasi di quei ragazzini di cui ho visto le foto sulle pareti del museo.

Nadifa Mohamed: sì, quei ragazzi sono impressionanti. Esigono un risarcimento.

Maaza Mengiste: sì, è così.

Bhakti Shringarpure: senza dubbio. Entrambe scrivete con le voci di ragazzi (e tu, Maaza, anche con la voce di anziani, ma per lo più uomini). Come funziona? E’ difficile scrivere con una voce maschile? E’ una precisa scelta politica o stilistica?

Maaza Mengiste: credo sia una scelta riguardante il tipo di personaggio da descrivere. Volevo vedere la rivoluzione dal punto di vista del dottore, questa figura stoica stroncata da quello che vede, e ho sentito il personaggio più come una figura maschile e più grande d’età. Ma per quanto riguarda il ragazzo, si è davvero trattato di farsi guidare dallo scritto. Avrebbe potuto essere una ragazzina, ma volevo un ragazzo che si contrapponesse alla ragazza che avevo già nella storia. Inoltre, volevo affrontare la storia dal punto di vista di un venditore di strada, e uno strillone sembrava più plausibile. Pertanto forse la risposta più breve è che è stata una scelta stilistica.

Nadifa Mohamed: non è stata una scelta intenzionale per me, volevo raccontare la storia di mio padre dalla sua prospettiva, quindi sono stata obbligata a vedere il mondo dal punto di vista di un ragazzo. E’ stato difficile svilupparlo, ma sono giunta a capire che non c’è una voce nettamente maschile/femminile. Il personaggio di mio padre è stato pesantemente influenzato da sua madre, io da lui, quindi c’erano schemi che io ho dovuto solo riportare alla luce.

Bhakti Shringarpure: quando vi trovate agli eventi editoriali in Italia, o anche negli Stati Uniti o in Inghilterra, sentite entrambe la pressione di dover ridurre questa critica? So che Nadifa è stata criticata in alcune recensioni per la sua descrizione degli italiani, ad esempio.

Nadifa Mohamed: no. Potrebbe essere l’unica occasione per il pubblico di sentire la verità. Mi ci è voluta tanta ricerca in biblioteche vecchie e polverose per venirne a conoscenza, quindi continuerò a diffondere le informazioni.

Maaza Mengiste: il mio libro non si svolge durante quel periodo ma sono stata sorpresa quando le conversazioni durante le letture in Italia vi si indirizzavano. La cosa interessante è che la persona che solitamente sollevava l’argomento, un italiano, cominciava per prima cosa scusandosi, poi continuava con domande circa le mie sensazioni al riguardo. In più di un’occasione, ci sono stati figli di soldati italiani talmente travolti dall’emozione o dal senso di colpa che non hanno potuto continuare a parlare.

Credo, Nadifa, che tu sia ben preparata e stia facendo proprio bene a non nasconderlo. I ricordi ci sono e mi rendo conto che quel momento della storia ha colpito l’Italia tanto quanto l’Africa orientale. C’è ancora molto da riportare alla luce.

Nadifa Mohamed: sembra che ci sia anche un ritorno, in Inghilterra almeno, di una corrente di pensiero che vede l’impero britannico come fonte di gloria e forza benevola nel mondo, così sento di dover essere ancora più decisa nelle mie critiche per far recepire il punto di vista di quella gente come mio padre che ha sofferto sotto la dominazione europea.

Bhakti Shringarpure: stavo pensando al risveglio di quell’interesse. L’argomento riguardante l’impero in genere sembra essere nell’aria. Non accade spesso che due romanzi storici (sebbene molto diversi) escano su un argomento del genere, anche se sono l’opposto della glorificazione in quanto descrizione dell’impero.

Maaza Mengiste: è come se si ipotizzasse che il tempo filtri l’orrore. Mi riferisco a questo risveglio d’interesse. Il più recente dibattito su letteratura africana e scrittori è stato poco tempo fa nel Guardian. Forse sto solo metaforizzando, ma credo ci sia una correlazione. Lo scrittore keniota Binyavanga Wainaina ha detto in un’intervista che la letteratura britannica è costituita da un sistema di codici che molte nuove generazioni di kenioti non comprendono più, a differenza della generazione dei loro genitori che sono stati educati in quel sistema. Accennava al fatto che gli scrittori africani non vogliono sedersi a discutere dell’AIDS o di organizzazioni benefiche o dell’ultima carestia. Sto parafrasando ma voleva cercare d’imporre l’idea che la letteratura britannica è insulare e non parla agli africani. E che gli africani hanno altro su cui scrivere e discutere rispetto a quello che di solito viene attribuito al continente: malattie, guerre, carestie, ecc.

Bhakti Shringarpure: sì, ci sono state alcune reazioni sventate al suo commento, credo. Sulla stessa falsariga gli inglesi non sentono la necessità di capire la letteratura francese o italiana, perché i kenioti dovrebbero essere interessati alla scrittura britannica? Ciò dimostra un’indifferenza totale per le dinamiche storiche tra i due posti.

Maaza Mengiste: sì, la reazione è stata pungente.

Bhakti Shringarpure: esattamente. Sembra ci sia un dovere perenne imposto agli scrittori africani riguardo questa ben precisa aspettativa.

Nadifa Mohamed: non ho visto il pezzo, ma mi viene in mente quando Chimamanda Ngozi Adiche disse che all’inizio della sua carriera gli editori americani non riuscivano a capire perché lei scrivesse sulla middle-class nigeriana e definivano il suo lavoro come non autentico.

Maaza Mengiste: per le persone occidentali è difficile prendere in considerazione una middle-class africana che non sia composta da impiegati governativi corrotti o da qualche tipo di aberrazione della società. Mi è stato chiesto cosa significhi essere una “scrittrice africana”, che avevo sperato fino ad oggi sarebbe stato un luogo comune, ma continua a sussistere.

Nadifa Mohamed: si tratta di un’immagine rafforzata ogni giorno dalle pubblicità degli enti benefici in televisione e sui giornali. Può essere difficile convincere la gente che un uomo d’affari somalo riesce a guadagnare $ 20,000 al mese senza essere un dittatore militare o rubare dal governo.

Maaza Mengiste: sì, e che in Etiopia ci sono persone che sono tanto lontane dalla carestia quanto le persone in Occidente. Conducono vite più simili alle famiglie di Chicago o Denver o New York, e vedono gli stessi nuovi filmati sulla carestia che vediamo sulla CNN o sulla BBC. Questa è un’arma a doppio taglio, perché credo che abbiamo una responsabilità verso le persone all’interno dei nostri confini e o dei nostri paesi. Ma il fatto è che è semplice per molti in Etiopia ignorare ciò che sta accadendo in altre parti del paese. È questa diversità ad essere ignorata dalla stampa e dalle pubblicità degli enti benefici.

Nadifa Mohamed: ci sono suddivisioni geografiche, etniche, di classe e d’età tanto profonde quanto quelle in Occidente.

Maaza Mengiste: proprio così.

Bhakti Shringarpure: credo ci sia un problema reale nell’Occidente riguardo ciò che viene chiamata la “gestione” del multiculturalismo, e le classificazioni di “scrittore africano” o “scrittore asiatico” sono indicatori di questo malanno.

Maaza Mengiste: nel medesimo libro di storia ho visto alcuni libri di scrittori “africani” andare dalle sezioni “africana” all’“afroamericana” e alla “nordamericana”. Le suddivisioni stanno diventando dure da mantenersi perché gli scrittori scrivono da così tanti posti della diaspora.

Bhakti Shringarpure: mi domando se scrivere un romanzo “storico” offra una specie di tregua dal dover sempre avere a che fare con una sorta di snaturamento dell’Africa?

Maaza Mengiste: ottima domanda…

Bhakti Shringarpure: Nadifa, il tuo libro, ad esempio, è unico perché rende una realtà molto diversa e quasi romantica quando si sofferma sull’Africa.

Nadifa Mohamed: non proprio. Vi ho messo dentro tutto o quasi: guerra, fame, bambini soldato!

Bhakti Shringarpure: sì, senza dubbio. Il ragazzino protagonista lotta a diversi livelli. Ma viene anche messo in moto il libro di viaggio, la rivelazione di questi paesaggi favolosi che interrompe il dramma delle guerre civili africane, le dittature e le storie di violenza che sono spesso parte della letteratura di quelle regioni.

Maaza Mengiste: credo che un romanzo “storico” debba lottare tra ciò che è stato scritto su quell’epoca e ciò che lo scrittore sente sia la vera e definitiva “verità”.

Nadifa Mohamed: ma è un’arma a doppio taglio. Cercavo di trasmettere in modo veritiero l’esperienza dell’infanzia di mio padre, ma questo non faceva che rafforzare quei preconcetti. Eppure volevo solo aggiungere il senso di stupore, della sospensione del tempo e dell’empatia che mancava in molte altre opere su persone come mio padre. È stata una vita vissuta sul serio e lo è tuttora.

Maaza Mengiste: sì, concordo totalmente. Esiste un processo per rendere le persone reali, umane e complesse che manca nelle rappresentazioni stereotipate della Somalia, Etiopia e di altri paese. Si può inserire i personaggi in un clima di guerra ma anche creare un nuovo tipo di storia umanizzandoli, rendendoli a tutto tondo. Non semplicemente vittime o assassini ma esseri umani complessi.

Nadifa Mohamed: vero. Immagina di attraversare il deserto essendo un diciassettenne, o di incontrare uomini che sono stati accusati di essersi trasformati in iene, o di abbandonare la terra che conosci per un orizzonte sconosciuto. Ho una certa invidia per la sua vita.

Maaza Mengiste: anche in Somalia ci sono uomini che si sono potuti trasformare in iene? Li abbiamo anche in Etiopia! Ma seriamente, quel viaggio crea un tipo di persona che tu hai trasmesso benissimo nel libro.

Nadifa Mohamed: oh, sì! Un ragazzino al quale insegnavo è tornato dalla Somalia e ha descritto uomini con occhi rossi e scintillanti, ma gli uomini-iena di mio padre erano in Eritrea.

Maaza Mengiste: mi sono sempre chiesta da piccola se quegli uomini fossero veri…

Nadifa Mohamed: io avevo più paura delle streghe che mangiavano le ragazze.

Maaza Mengiste: per non dire se calpestavi un ragno e lo uccidevi: quelle donne ti rendevano la vita un inferno.

Bhakti Shringarpure: che brutto!

Nadifa Mohamed: eh sì!

Maaza Mengiste: Nadifa, cosa provava la tua famiglia per gli etiopi? Le nostre storie sono così collegate e così terribili per molti versi.

Nadifa Mohamed: mmmm. Beh, mio padre è cresciuto in Eritrea, quindi aveva una certa familiarità col linguaggio e la cultura Tigre così come coi Kunama e non credeva davvero negli etiopi in quanto tali. Per lui ci sono diverse etnie che hanno poco a che fare l’una con l’altra. Mia madre, d’altro canto, è cresciuta in Somalia e ha avuto l’esperienza del bombardamento di Hargeisa in Etiopia e conosceva gente che è stata uccisa inclusa la migliore amica di mia sorella. C’è sempre molta diffidenza, e il fatto che ci siano tanto etiopi che migrano verso la Somalia, così come le continue persecuzioni verso i somali ogadeni, significa che malgrado abbiano tanto in comune, c’è poca interazione culturale. C’è un pregiudizio e un razzismo palpabile verso gli etiopi che migrano verso la Somalia.

Maaza Mengiste: me ne rendo conto. Ero ad Addis Abeba l’estate scorsa e sono rimasta sorpresa dal numero di rifugiati somali in città, e mi sembra che il fatto che etiopi vivano in Somalia e somali vivano in Etiopia mentre i due paese continuano a combattersi porti a una sorta di complicato accordo. Mentre i miei genitori hanno amici somali e tutti discutono su quanto non vogliano interventi militari, i governi e i capi mandano i loro giovani ad affrontarsi l’un l’altro. L’acredine si fonda su se stessa. E sì, il razzismo e il pregiudizio esiste anche in Etiopia. E le vittime, coloro che si trovano in mezzo, sono quelli che fuggono dalla carestia e dalla violenza.

Nadifa Mohamed: sì. Aggiungerei anche l’Eritrea al gruppo. In Eritrea ho sentito un grande modo di dire: i conflitti tra questi paesi confinanti sono come degli uomini pelati che litigano per un pettine.

Maaza Mengiste: questa è buona. E sì, l’Eritrea deve essere inserita senza dubbio.

Nadifa Mohamed: E anche il Kenia…

Maaza Mengiste: la lista aumenta, vero?

Nadifa Mohamed: sì. C’è un grande e brutto Sudan proprio nel nord.

Maaza Mengiste: abbiamo azioni politiche e militari da un lato, malattie e fame dall’altro, e la gente normale che vuole solo trovare una maniera per vivere in tutto questo. E nel bel mezzo, le persone si innamorano, hanno storie, si sposano, fanno bambini, fanno battute sugli uomini pelati. E allora interviene la scrittrice!

Nadifa Mohamed : proprio così. Si devono collocare le vite degli individui in questo vortice!

Nadifa Mohamed è nata nel 1981 ad Hargeisa, Somalia, e si è trasferita in Inghilerra nel 1986. Il suo romanzo d’esordio, Mamba Boy, è stato pubblicato nel 2010 e ha vinto il Betty Trask Prize, e’ anche entrato nella rosa per il Guardian First Book Prize, il John Llewellyn Rhys Prize, il Dylan Thomas Prize e il PEN Open Book Award, ed è stato menzionato per l’Orange Prize for Fiction.

Maaza Mengiste è nata ad Addis Abeba, Etiopia e ha vissuto in Nigeria e in Kenia prima di stabilirsi negli Stati Uniti. Il suo romano d’esordio, Lo sguardo del leone, acclamato dalla critica, è stato tradotto in diverse lingue ed è comparso in molte liste del “Meglio del 2010”, incluso nel Publisher Weekly, Christian Science Monitor e Barnes and Noble. È vincitrice di una borsa di studio e seconda classificata al Dayton Literary Peace Prize per il 2011 e finalista per il Flaherty-Dunnan First Novel Prize, NAACP Image Award e Indies Choice Book of the Year Award come adulto all’esordio. La sua opera è apparsa sul New York Times, Granta, Callaloo Journal, Granta Anthology of the African Short Story, Lettre Internationale, e si potrà ascoltare a breve su Radio 4 della BBC. Attualmente risiede a New York.

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Anno 9, Numero 36
June 2012

 

 

 

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