El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

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isbn e passaporto

abdelmalek smari

“È ovvio che queste scelte degli italiani
sono basate su un’inconsapevole classifica
delle culture. Dove sono finiti gli ideali
dell’umanesimo, l’idea di uguaglianza
e parità di diritti, concetti che si presume
siano alla base della civiltà occidentale?”
Ramon Parenzan - Intrusi – Ed. Ombre corte 2009

Risposte inutili ad un falso problema?
Il vero artigiano è quello che fa il suo mestiere, e lo fa bene, mettendoci cioè tutti i crismi di coscienziosità e di onestà, aggiungendo così alla tecnica la riflessione critica sul mestiere stesso. Ciò vale anche, e a maggior ragione, per la scrittura.
Tutta la scrittura? Pare di no, perché esistono ancora al mondo persone, gente di mestiere, e istituzioni malate di classificazione che concepiscono due forme di scrittura e di scrittori quindi: quelli del primo mondo, di serie A e quelli del terzo mondo, di serie B…
Nella sua tesi di laurea “L’identità della e nella Letteratura Migrante” Giuliano Buzzao inizia col combattere la definizione clicheica (da cliché) ed imprecisa della letteratura italiana scritta dagli stranieri, poi la rifiuta categoricamente per tornare a concludere che non si possa farne a meno per il momento e che occorra quindi accettarla!
È ovvio che non si può mai negare la cosa che noi poniamo davanti agli occhi: il Buzzao non è stato capace di fare a meno dell’attributo “migrante” nel titolo della sua tesi!
Eppure basta solo mettere un dito sopra quella parola che essa sparisce e con essa tutto l’indotto retorico che l’autore aveva creato inutilmente (se non per umiliare, senza dubbio suo malgrado, ed etichettare, come è di uso in questa tradizione classificatrice…)
Personalmente ho provato a nascondere quella parola impudica e, meraviglia, non è successo nulla di grave, anzi il titolo è diventato più lieve e più elegante, rispettoso quindi.
E non è l’immaginazione che manca ad un popolo precursore della civiltà moderna, detta anche occidentale, un popolo che ha dato i natali ai più grandi geni dell’umanità, no.
È il dettato di un certo conformismo coniugato ad un sentimento ipertrofico d’amor proprio e di autocelebrazione.
“L’attribuzione di una piena cittadinanza linguistica agli scrittori di origine straniera – una sorta di ius soli per chi abbia avuto nascita alla scrittura nella nostra lingua – sembra l’ultimo tabù della nostra globalizzazione; la loro opera non ha ancora una nominazione condivisa, e le definizioni più usate (“letteratura migrante in lingua italiana”, “letteratura transnazionale”, “letteratura italofona”, “letteratura postcoloniale”) si tengono in un’ambiguità tra riconoscimento di valore letterario, giudizio politico e sguardo antropologico.” scrive Daniela Padoan ne Il Fatto Quotidiano del 13-01-12
Postcoloniale?!!! Già: è un eufemismo per non dire letteratura dei neo-colonizzati. In un racconto col titolo “I N.A.C. o il paese rose bonbon”, ho chiamato gli stranieri provenienti dal terzo mondo comunità NAC: comunità cui i membri hanno una Nominazione Amministrativa Comune.
Daniela Padoan parla anche di una certa Identità negata intendendo forse questa inglesità di cui parla alla fine del suo articolo, e questa americanità negate o che non si vogliono concedere se non a stento a uno scrittore come Kureishi e allo stesso presidente degli Stati Uniti…
Forse, per uscire dal dilemma, sarebbe convenuto alla giornalista d’ignorare il padre pachistano dello scrittore e, a chi gli nega la sua americanità, il padre africano di Barak Obama ed insistere invece sull’origine delle loro madri, l’una nobilmente inglese e l’altra altrettanto nobilmente americana…
Passando ad un altro organo d’informazione, del primo mondo anch’esso, il Magazine Littéraire (n. 489 – sett. 2009) dove si discute dello stesso falso problema, dalle chiacchiere del giornalista Tâm Van Thi con gli scrittori francesi d’origine cubana Eduardo Manet, afghana Atiq Rahimi e marocchina Tahar Benjelloun risulta ciò che segue:
- “L’immigrazione non è fatta solo di date, statistiche e quote, ma prima di tutto di destini individuali.”
L’immigrazione è fonte d’ispirazione nel senso che essa nutre il cinema, la letteratura e tutte le altre forme d’arte e di spettacolo.
È il sogno di un altrove migliore ma è anche e soprattutto la fabbrica della nostalgia, bella poesia, per un paese meraviglioso, un tempo magico: un paradiso perduto…
È l’altro passo di Voltaire: l’illustre filosofo sapeva bene che ogni società, indipendentemente dalle epoche storiche e dalle retoriche dei discorsi sulla tolleranza e la libertà dei suoi singoli componenti, ha i propri tabù, poiché se li inventa necessariamente, e le proprie linee rosse da non oltrepassare.
Tabù e limiti da non oltrepassare da parte degli individui perché la società è pronta a difenderli, se necessario, col sangue, il ferro e il fuoco.
L’immigrazione è anche la liberazione della sensibilità che, grazie alla lingua nuova, inganna la censura e raggira il vecchio linguaggio puritano e limitante.

Lo scrittore e la lingua di seconde nozze
Qui però bisogna stare attenti: quando Rahimi dice “Vivendo in Francia, sono protetto dalla legge di questo paese di accoglienza.” … “Inoltre la lingua francese mi permette di parlare con più libertà.”, riferisce in realtà un’impressione, perché le parole nuove, se non ti censurano, ciò significa paradossalmente che le conosci solo a metà, se non superficialmente.
Quindi più la lingua diventa viscerale, più le parole diventano cruente e crude, e più questo eccesso ci impone dei paletti, degli altolà …
“La lingua materna m’impone limiti e tabù”!!! Si lamenta Rahimi, ma non solo lui; anche in Algeria e nei paesi culturalmente alienati la pensano come lui.
Certo ogni lingua ha i propri tabù, solo che a volte gli stranieri non li conoscono, non li sanno identificare e pensano quindi d’essere liberi e di farla franca con i loro sfrenati deliri e non-detti. Pensano cioè che la lingua di seconde nozze sia più permissiva e più compiacente.
Più la parola sa appropriarsi della cultura, più ha fiato e forza. E solo Iddio sa, e anche i lingua-madre un po’, quanto la lingua sia vasta e la cultura a cui essa attinge inespugnabile per chi la sposa in seconde nozze.
Le parole saranno tanto dure da non poter cedere ai molli denti del neofita linguistico. Bisogna avere la capacità di torcere queste parole, non per umiliarle o calpestarle, ma per farne zampillare getti di senso e di sensazioni. Ed il nostro neofita tendenzialmente non sa - o l’euforia dell’ignoranza autosufficiente lo rende cieco – che non può controllare le sensazioni liberate perché non le conosce e ne ignora l’esistenza.
Il nostro neofita in questo auto-inganno assomiglia un po’ alla scimmia di Rimbaud travestita da tigre: diventa più atroce della cattiva tigre.
Che razza di scrittore sarà Rahimi - e colui che si trova nella sua stessa privilegiata e protetta condizione - se non è capace di sfidare la propria lingua e liberarla/si dalle barriere che porta con sé ed impone ai propri figli?
Che merito pretende di acquisire questo tipo di scrittore assistito, se non sono in grado di commettere l’incesto con la propria lingua madre, di torcerle il corpo, di liberarla, di fecondarla ? Oppure Rahimi è simile in questo alla gente del terzo mondo colonizzabile e volta all’assistenzialismo e al paternalismo del primo mondo ed è allora per questo che aspetta che le sfide alla lingua e ai costumi vengano fatte da altri per suo conto?
E poi, se si tratta veramente di violentare la lingua francese, non penso che essa abbia aspettato che venisse un Rahimi per farlo, per la semplice ragione che è arrivato in ritardo. Non potrà mai avere il genio né l’audacia di farlo: ya dakhil mis’r minnek uluf. “O tu che vieni in Egitto, di te ce ne sono migliaia.”
Forse Rahimi pensa di ghettizzare la sua lingua madre, mentre in realtà è il francese che malmena senza saperlo, sfondando così delle porte già largamente aperte…
Quanto alla apparente licenza o permissività della lingua, essa non è che un’illusione: Atiq Rahimi è di recente immigrazione in Francia e la lingua che conosce non è che una piccola spiaggia sperduta nell’oceano immenso che è la lingua francese.
Così qualsiasi scrittore straniero potrebbe usare delle parole senza mai sapere che effetto farebbero sulla sensibilità di una persona che ha bevuto quella lingua col latte materno fin dalla prima infanzia.
Personalmente mi succede spesso di usare - pronunciandole o scrivendole - espressioni e parole italiane o anche francesi che suonano raccapriccianti, come arcaismi, schifezze da bassi-fondi, parolacce, stonature… senza accorgermi della grande costernazione o dell’orrore che esse provocano nei miei interlocutori italiani o francesi.

Individualismo e arte
Le opere degli immigrati non possono ridursi al tema che esse trattano.
Ma in realtà che cos’è l’individualismo se non una forma d’esilio o d’immigrazione, un distaccamento dalla propria comunità, in un mondo nuovo, inedito, unico, appunto l’universo di esclusiva proprietà dell’individuo.
Forse è questo che Edouardo Manet intende quando dice: “Ci sono tanti esiliati o immigrati quanti sono i grani della sabbia in una spiaggia.”
Cosa che ribadisce a modo suo Tahar Benjelloun: “Per me, la categoria letteratura dell’immigrazione non esiste. La letteratura è la letteratura. Essa tratta giusto dei temi diversi. Nonostante le nostre storie personali, abbiamo il diritto e anche il dovere di occuparci di altre questioni che non siano solo esilio o immigrazione.”
In quanto scrittore, personalmente sono per la chiarezza, anche se l’arte richiede l’ambiguità o come dice la poetessa serba Ljubisa Selic: “Ciò che è bello sa d’ombra e di sospetto”.
Chiarezza necessaria per il funzionamento della mente, la mia mente.
Ma attenzione, la realtà che rappresento è paradossalmente ambigua, come tutti gli altri fenomeni che di senso ne hanno in quanto esistono le menti che li trattano o li contengono e gli sguardi che li scrutano.
Il ritratto di Gramsci, con gli occhialini da vista, l’abito austero come il suo sguardo, può dire tutto di Gramsci? Può dire altrettanto del suo autore o di tutti coloro che lo guardano?
Comunque siano le cose e le teorie, nessuno potrà saperne veramente nulla più di ciò che il proprio sguardo ci ha messo… a parte forse gli occhi dei maniaci della classificazione.
Ma la verità rimane, come dice il poeta americano Kenneth White, sempre parziale:
Walking along the shore of that Island
He wrote:
Even if you stumble
On some rocks of the truth
You’ll never know it all
He spoke of sea, wind, earth
Clouds and rivers
And said that god was round.
Percorrendo le coste dell’ isola // scrisse: // anche se inciamperete // in qualche pietra di verità // non la conoscerete mai del tutto // parlò di mare, vento, terra // nuvole e fiumi // e disse che dio era tondo.

Ma la cosa strana è che né Giuliano Buzzao, né Il Fatto Quotidiano, né il Magazine Littéraire hanno posto il problema del perché ad esempio la romanziera americana Donna Leon, che vive e scrive a Venezia (e per giunta vieta la traduzione dei suoi libri in italiano!), o Ezra Pound, che finì i suoi giorni in Liguria, non vengono mai considerati come scrittori immigrati, né Kafka che scriveva in tedesco o Paul Bowles che visse più di sessanta anni a Tangeri o Beckett, il “parigino”, e tanti altri scrittori europei che vivono in America ad esempio o altrove nel mondo e che scrivono in lingue “straniere”.
La fisica di Einstein è fisica di immigrazione forse? È una fisica migrante?
Mi si dirà che è assurdo!!
Ma è proprio questa assurdità che il mio scritto cerca di denunciare riguardo all’impropria appendice “migrante” appiccicata al termine letteratura.
Ma se fosse il fatto di emigrare e di stabilirsi in un altro paese o in un’altra area linguistica, adottandone la lingua, che costituisce il criterio di definizione dello scrittore migrante/immigrato, sarebbe allora lecito parlare di una letteratura di immigrazione, a patto però di includere tutti gli scrittori per i quali si verifica una tale condizione.
Sappiamo benissimo però che una tale denominazione concerne solo gli scrittori del terzo mondo… E solamente nel loro caso la letteratura sembra essere sinonimo d’immigrazione. Ed è questa mutilazione concettuale che ci fa sospettare, e aborrire anzi, l’appellativo di letteratura della migrazione/immigrazione. Perché vi vediamo un vero e proprio disegno, spesso non confessato, ma non per questo meno palese, da parte dei detentori del potere di denominare le cose e le anime, di classificarle, di etichettarle… vi leggiamo il disegno di escludere la massa degli scrittori terzo-mondani dagli scrittori primo-mondani.
Ai primi dunque andrebbe la letteratura di testimonianza e delle geremiadi sui loro disagi e la loro alienazione.
Ai secondi invece andrebbe la letteratura divina, nel senso di pura sublimazione e di pura creatività, piena di senso e di sensibilità…
“Pensa a tutto quello che vuoi, ma rifletti attentamente su quello che dici” avrebbe consigliato Rimbaud, invitando chi scrive al rigore logico e alla precisione non solo linguistica ma anche concettuale, mettendo in guardia dal cadere nella imprecisione e nella faciloneria. Immaginiamo cosa avrebbe detto agli apprendisti-specialisti esperti in classificazione!

Scrittori di serie A, scrittori di serie B
Se andiamo a vedere su quali argomenti si focalizzano i critici quando prendono in esame un’opera letteraria di serie A (letteratura divina) e quali interessano loro nel caso degli scrittori di serie B (letteratura delle geremiadi), notiamo che dei primi curano la questione della lingua, la critica letteraria, il gusto, la scelta della cravatta o del profumo, l’uso del verbo e del sostantivo piuttosto che dell’aggettivo, la musica o il cantante o la sinfonia che preferisce, le tendenze sessuali, i rapporti tra scienza ed arti, la filosofia… insomma tutto ciò che sta davvero (e avanza) alla statura dello scrittore sublime, individualista per eccellenza.
Ai secondi invece si chiede se adesso si sentono meglio lontano dalle guerre, dall’oppressione, dalla povertà…! ma come dice il sociologo algerino, Abdelmalek Sayyed, gli immigrati del terzo mondo sono doppiamente assenti oppure “comunque altrove, anche quando sono qui, in questo paese” come dice lo scrittore irlandese Colum McCann.
Questi maniaci classificatori dimenticano(?) che l’immigrazione costituisce una fra le tante soste ed episodi dell’esistenza del migrante e dell’itinerario quindi della sua scrittura che tende sempre verso destinazioni sconosciute. Ed è per questo che costituisce anche un contenuto, uno come tanti altri pretesti o materiali da fiction.
Il terzo mondo invece, per dirla con lo storico Yves Lacoste, lo si evoca con le proprie disgrazie. Si “compatisce” con lui organizzando raccolte di danaro e campagne di solidarietà, con concerti rock e pop.
Gli intellettuali dettisi occidentali ed altri immigrati dettisi ben integrati sono in lizza per celebrare il terzo mondo e denunciare i responsabili della sua sorte (i dittatori locali soprattutto, chiudendo entrambi gli occhi sui dittatori multinazionali).
Le sue condizioni di vita sono generalmente pessime se non addirittura drammatiche. E l’immagine che se ne dà è sempre questa: povertà, malattie, fame, un mondo di solidarietà con i contadini senza mezzi tecnici, l’assenza quasi completa dell’industria, l’esportazione di prodotti agricoli a prezzi irrisori, la desertificazione, la divisione neocoloniale, il richiamo di quello classico e il ruolo dei negrieri occidentali, i confini artificiali, l’indipendenza fasulla, le guerre tribali, i bambini soldati, il fatalismo, le superstizioni…
Più o meno è a questo quadro sinistro che l’immaginario degli esperti classificatori rinvia quando si evoca il terzo mondo o un suo vocabolo sostituto (Africa, paesi poveri, medio-oriente, sud del mondo, immigrati…).
Ed è a questo quadro che la gente del primo mondo vuole affiggere – richiamandole all’ordine reale storico o fittizio da cliché?- gli scrittori del terzo mondo.
Ed è questo quadro che coloro che si ribellano contro questo ordine di cose indignati cercano di smontare, rifiutando le classificazioni ingiuste e ridicole, perché prive di criticità e di rigore scientifico e inadeguate persino allo studio entomologico.
Sono le certezze di questi pseudo-critici che le persone indignate intendono combattere, perché, come dice Nietzsche, “Non è il dubbio, è la certezza che uccide”.
Jerome Charyn scrive un libro su Tarantino e gli da il titolo “Quentin Tarantino nel testo”. Si badi, sembra che parli di uno spirito puro, di un’anima che abita il verbo!
“Egli ha creato un chiasso, un rumore di fondo costante che si rifiuta di tacere.”
… “Le parole di Tarantino acquisiscono un potere totemico ... l’aspetto più rivoluzionario della sua arte. Wordsmith, artigiano delle parole.”
L’autore evoca i feltri rosso e nero di Tarantino, la sua grafia da gallina, la sua ortografia pessima e il taccuino acquistato alla vigilia dell’inizio di uno script ... il perché sua madre ha scelto quel nome, Quentin…
Tutti questi particolari non per denigrare l’illustre cineasta: affatto! Semmai per dimostrarne il genio che non sa e non deve accomodarsi a nessun compromesso, che non deve fermarsi su delle piccolezze perché egli affronta l’immenso compito di creare.
Quindi, niente sulla sua origine, figlio di immigrati di provenienza napoletana e irlandese, pure con una goccia di sangue del popolo cherokee!!!

Scrivere è potere: o dell’origine dell’esclusione e della censura
Ma perché questa mia critica alla denominazione letteratura migrante? Perché è una denominazione che porta all’esclusione degli scrittori stessi e all’amputazione della letteratura, una manovra stupida quanto ingiusta.
Ma si capisce, scrivere è una vera e propria arma, perciò deve essere regolata. È troppo seria per lasciarla tra le mani degli arrivisti, per giunta forestieri.
Già i figli della stessa lingua stentano ad essere liberi di girovagare e maneggiare la lingua a loro piacimento, figuriamoci i forestieri…
Scrivere è infatti un potere vero e proprio. Chi detiene la parola, cioè il nome del concetto o dell’oggetto, detiene quel concetto o quell’oggetto.
E poiché scrivere è un potere, pullula una moltitudine di pseudo case editrici che non esita a specularci sopra per estorcere danaro ai poveri scrittori che sarebbero pronti a tutto pur di farsi pubblicare. Pubblicazioni che rovinano il povero autore, poiché deve provvedere a che la casa rientri nelle spese, abbia cioè un guadagno, il più presto possibile, lasciando l’autore senza un soldo, senza pubblicità, senza promozione del prodotto, con un paio di centinaia di copie da svendere, facendo il vu’cumprà e infastidendo gli amici e quelli della caritas urget.
Ma anche le autentiche case editrici hanno delle regole ferree, che ovviamente saranno d’acciaio con gli autori stranieri.
La lingua innanzitutto deve rimanere intatta, pura ed immune da ogni contaminazione. Certamente lo straniero deve conoscere bene la lingua ma a volte, in nome dell’editing, gli vengono stravolte le parole, anche quelle adeguate.
In secondo luogo opera l’ideologia, o meglio la censura in nome dell’ideologia, chiamata con un eufemismo linea editoriale. E lo scrivente deve adeguarsi, magari ringraziando e scusandosi pure per il disturbo…
In terzo luogo, l’economia. L’opera dell’arte è diventata un serio gioco d’interesse strategico, una merce preziosa, di largo consumo, sottomessa a una continua e spietata concorrenza e ricerca irrazionale che non lascia più il minimo spazio a chi la svolge per sbagliare, vale a dire a chi non sa trarne il massimo profitto.
Eppure spesso lo scrittore non ha tempo da perdere in queste elucubrazioni, la condizione dello scrivere gli prende tutto il tempo e tutta l’attenzione.
Un aspetto peculiare dello scrivere si rivela con piena chiarezza ancor più allo scrittore straniero, poiché spesso egli concepisce la sua arte come un regalo prezioso, preparato e custodito per tutti i lunghi anni della sua gestazione nel cuore, per la società o il paese dove trova affetto e rifugio. Ma nel caso dell’immigrazione in Italia, lo scrittore - l’artista in genere e non solo, penso ai medici ad esempio - si rende subito conto che il paese ospitante, paese di un’abbondanza che sfiora l’arroganza, non sa che farsene di un regalo che viene dal terzo mondo, per quanto prezioso esso possa essere.
Allora ritorna magari verso il proprio paese per parlargli dell’Italia, come lo avrebbe fatto Prometeo per la specie umana.
Ma visto che le preoccupazioni dei paesi del terzo mondo sono altre e visto che non si curano dei propri figli e dei servizi che gli possono rendere, questi scrittori si riciclano per forza di cose a svolgere il ruolo di una sorta di ambasciatori in Italia.
Personalmente, sono venuto qui in Italia, ma sarei potuto andare, e ci ho provato pure, al Cairo, in Marocco, in Francia, in Svizzera, perché in realtà ciò che cercavo era un angolo tranquillo, lontano dai rumori della mischia di cui non potevo non prendere parte e distrarmi perdendo inutilmente il mio tempo, per dare tutto me stesso in serenità a ciò che desideravo di più nella vita: scrivere e riflettere.
Non sono, come Rahimi, scappato dei tabù della mia lingua e del suo controllo inquisitore. Non ritengo - come lui - che la lingua che mi ospita sia più libertina o indulgente della mia; ma ho cercato la tranquillità o meglio quella distanza ragionevole che permette di percepire gli oggetti e le cose nella loro integrità, non deformata o atomizzata.
A prescindere dalla buona o mala fede dei malati classificatori, aborrisco la loro scienza anzitutto perché è un registro di umiliazioni e di esclusioni. E mi sento amareggiato e nauseato quando ne sento parlare.
Ma non per questo non mi ritengo uno scrittore, neppure se qualcuno tenta di negarmelo o di dissuadermene detenendo il potere di etichettare senza dover rendere conto alla correttezza epistemologica.
Il colmo è che raggiunge il suo scopo lo stesso perché è potente.
Qualcuno mi può obiettare: ma perché? non è forse vero che tu vieni da un paese del terzo mondo?
Ed io risponderò: è falsa questa obiezione, perché si tenta di spostare il problema dal suo piano reale verso uno fittizio. Perché io parlo della mia arte e lui di altro.
Detto questo, non nego il fatto che ci siano delle persone che scrivono senza sapere cosa stanno scrivendo, ma non ritengo credibile che questo fenomeno possa coinvolgere una popolazione che si conta in milioni di persone nel mondo, cioè i cosiddetti scrittori migranti.
Stando a Raffaele Taddeo, solo in Italia si contano 500 scrittori “detti migranti o della migrazione”, senza contare Donna Leon ovviamente, scrittori provenienti dal solo terzo mondo.
Allora in quel caso, il caso in cui si debba considerarmi scrittore della migrazione, io chiedo di lasciare perdere la mia opera e venire a parlarmi invece di altro, ma di grazia, che non si associ più il mio nome a quello della scrittura o a quello della letteratura.
Poiché scrivere fu per me, fin dall’inizio, un atto di ribellione… non so perché proprio adesso devo rassegnarmi al destino che un classificatore mi assegna!

La letteratura dell’impatto
I nomi non mancano. Io in questo scritto l’ho chiamata letteratura dei N.A.C. In un’altra sede l’ho chiamata la letteratura dell’impatto. Ma adesso ne estendo il concetto a tutta la letteratura universale perché le opere nascono sempre dall’impatto che il mondo esterno e le sue creature - venendo in contatto con la sensibilità visceralmente solitaria dell’individuo – creano e le reazioni che suscitano in questa stessa sensibilità. Ed è questa la buona e vera letteratura, l’autentica letteratura.
Qualcuno potrà dire: “Allora neanche questa definizione vale poiché non vi è distinzione e perciò paradossalmente tutto vale…”
Risponderei: “Almeno questa definizione ha il merito d’essere un concetto adeguato a tutta la letteratura, non la mutila come l’altro, non ne esclude nessun autore e nessuna opera, non li affoga nella mediocrità; e soprattutto essa è valida perché è imparziale e pone sullo stesso piano tutte le scritture e tutti gli scrittori.”
“Ma i nomi - potrà aggiungere il mio detrattore - sono fatti proprio per distinguere tra realtà diverse, mentre questa tua accezione - dell’impatto - non rende la differenza tra le varie realtà letterarie. E poi la parola letteratura da sola già rende conto di questo fenomeno umano.”
Allora ci siamo: non è forse il caso di eliminare, a maggior ragione, l’orrenda appendice inutile, la parola “migrante” appiccicata come un’escrescenza maligna alla bella e sana parola Letteratura e che non fa che imbruttirla prim’ancora di ucciderla?
Ma non c’è limite al ridicolo: c’è chi è capace di considerare la parola migrante come un genere nuovo: come esiste la letteratura noir, l’horror, il giallo, la saggistica, la galassia poesia, il romanzo, il breve racconto o l’aforisma… esiste anche la letteratura migrante. E perché no? Può essere un genere nuovo. Che c’è di male a considerarla un genere a sé ?!
Questa obiezione tende a nascondere una realtà chiara come la luce del sole a mezzogiorno di ferragosto.
Tende a farci dimenticare che la cosiddetta letteratura migrante è essa stessa trans-generica: non contiene forse nel suo seno tutti i generi che abbiamo poc’anzi citato?
Essa tende a ridurre la categoria di letteratura prodotta dagli originari del terzo-mondo - per parafrasare l’autrice di “Intrusi”, Ramona Parenzan - in lamentele e geremiadi di razze inferiori. Razze che in realtà non hanno o non dovrebbero addirittura avere niente a che vedere con la letteratura vera, solo appannaggio dei popoli di serie A, gente eletta, del tutto diversa da quella che fa parte della spazzatura della storia e dell’umanità.
Oddio, queste lamentele e geremiadi in realtà esistono davvero, ma sono dovute alla disuguaglianza mondialmente istituzionalizzata. Non per questo bisogna negare agli scrittori stranieri il diritto, umanissimo, di aspirare ad una vita libera, in quanto individui diversi ed originali alle prese con la loro esistenza effettiva determinata e limitata dai tabù e delle regole che impone loro il gruppo o la società.
Il discorso può anche risolversi nella maniera seguente: possiamo considerare il libro di autore straniero materialmente inteso come un prodotto (isbn) italiano, mentre l’autore rimane figlio del paese a cui appartiene e ne sarà prova il suo passaporto.
Quell’appendice ha ragione d’esserci solo e solo quando si pone lo scopo di studiare la produzione letteraria italofona e distinguere tra autori italiani – siano essi di origine italiana o di madre-lingua per nascita, figli cioè di padre e/o madre stranieri – e autori stranieri.
Ma due errori non devono tentarci:
- uno è considerare queste due settori letterari come se fossero due generi;
- e due che per stranieri non si devono indicare i soli autori provenienti dal terzo mondo.
In ambedue i casi assegnare alla letteratura questa o quell’altra appendice diventa esecrabile.
Ma negli occhi orbi dei classificatori rimane uno strumento sottile, un modo gentile per escludere la spazzatura dell’umanità dal banchetto dell’autentica letteratura; o, che è la stessa cosa, per preservare il candore della vera letteratura nobile ed autentica dall’attacco corrosivo delle orde degli intrusi provenienti dal mondo dell’ignoranza e della cafoneria.
Come la chiamiamo allora? Appunto, essa ha già un nome che le basta e avanza per chi è in grado di intendere la vera Letteratura.
Poi se per qualche studio accademico qualcuno vuole entrare nel merito, può completare o affinare l’informazione nella nota biografica dell’autore, nella recensione, nell’argomento (ad esempio, italofono d’altrove o che so io).
Qualcun altro dirà: ma non sarà dispersivo? E io rispondo: ma anche il termine migrazione lo è, anzi può essere anche inutile.
E anche se finora nessuno degli autori stranieri si è potuto distinguere con un bestseller universale o qualche capolavoro di genio, ciò non significa che le possibilità si siano già esaurite né che le tematiche siano congelate una volta per tutte e l’immaginazione degli autori sterilizzata.
D’altronde come possiamo essere sicuri che non ci sia stato da qualche parte un capolavoro di genio in tutto ciò che si è prodotto in Italia e nel mondo (di serie A) opera di qualche straniero proveniente dal mondo di serie B, se non ci sono stati sinora studi critici e letterari veramente seri?
E anche se questi letterati non si riveleranno geni, dopo uno studio serio, bisogna dare loro la chance di crescere e di esprimersi fino in fondo, dato che sono novizi o giovani in quest’arte. E sì, è un esperimento letterario nuovo, appena nato, anche se data solo qualche decennio anche nei paesi europei e che ha ancora bisogno di tempo e di lungo cammino per crescere ed evolversi.
Se vogliamo essere giusti verso tutti gli autori, senza offenderne nessuno, bisogna includere tutte le opere scritte da non italiani in lingua italiana fuori o in terra italiana… altrimenti questa è solo una letteratura di esclusione.
Ma temo che il problema persisterà perché la letteratura sublime sembra essere proprietà privata ed esclusiva di coloro che detengono il potere dell’informazione e della manipolazione delle idee e delle opinioni.
Ed essi hanno già diviso il mondo in due serie e hanno deciso che A sia la letteratura per eccellenza, la letteratura incarnata, e B la letteratura parassita, l’anti-letteratura.

Due parole sull’identità nella scrittura
E poi perché la letteratura tout court deve essere proprietà privata di un particolare paese o di in gruppo di paesi? Tutt’al più essa potrebbe essere una scarpa stretta al piede della grandiosa modernità che ha i piedi larghi e lunghi, o una palla di piombo pesante come il globo terrestre al piede della stessa modernità…
La modernità consiste per i paesi ancora scarsamente moderni in nuove tappe che le società inaugureranno mano a mano.
Migrante purtroppo nel campo letterario indica inesorabilmente solo la persona e la sua opera provenienti dal terzo mondo mentre cittadini del primo hanno ognuno un’identità specifica e personale, inconfondibile.
Parlare sia dell’identità dell’opera che di quella dell’autore a me sembra il modo migliore per uscire dal dilemma che ci hanno imposto i classificatori.
Secondo alcuni sia l’autore sia l’opera sono entità abissalmente diverse l’una dall’altra, ognuna di loro gode di un’identità sui generis. Ma, a mio giudizio, questa individualità non esclude un certo rapporto di tangenze fitte in tutti i sensi e direzioni tra l’una e l’altra.
Penso che sia chiaro a tutti che l’opera ha una sua identità che è il suo isbn.
Se prendo i miei due romanzi “Fiamme in paradiso” o “L’occidentalista” vedo che i loro isbn - 88 - indicano che sono beni italiani, piaccia o meno ai malati classificatori. Sono libri italiani a tutti gli effetti. Hanno già scelto il loro campo, indipendentemente da chi li ha scritti o dalla lingua che ha dato loro forma e sostanza. L’isbn ha deciso e reciso ogni dubbio o sospetto.
Invece per l’autore, che non può appartenere a nessun gruppo se non di sua propria volontà, le cose sono un po’ diverse e più complicate: io sono cittadino della città in cui vivo, lavoro, pago le tasse, faccio le mie cose, mi diverto, mi curo, sogno, contribuisco al consumo e alla produzione della cultura, mi rapporto con il paesaggio e con gli altri cittadini… ma ho in più tutta una vita che non appartiene a quella città o che essa ignora o di cui non vuole sapere nulla, altre lingue, altre storie, altri affetti, altri scritti, altri documenti, altri usi e costumi, e soprattutto diversamente da un prodotto inerte e senza libertà o volontà come i miei libri, io ho la libertà e la volontà di aderire ad uno o ad un altro luogo.
Davanti al tribunale della mia coscienza è proprio questa adesione scelta e voluta liberamente che vale e che conta. Essa smentisce ed annulla ogni carta o numero. Nel mio caso questa adesione ha un nome solo, il mio, che è la mia unica ed autentica identità. Nome custodito nel mio passaporto.
Non c’è dubbio che si tratta, in questa gelosia ad escludendum della letteratura per eccellenza, di una velleità ben studiata e determinata ad escludere gli stranieri e a recidere ogni loro ambizione e adesione ai valori umani.
Ma questo significa che le persone a cui questa gelosia rode le viscere non può neppure fare la differenza tra cittadinanza e nazionalità, l’idea cioè per la quale si batte la parlamentare francese Ester Benbassa, di cui è prova il fatto che “Lo straniero che risiede a lungo in un cantone o un comune ne è cittadino.”
“La questione, da quel momento, dice ancora Ester Benbassa, non è più identitaria: ‘Chi sono io?’, ma è di politica locale: ‘Cosa fare insieme?” (Federico Joignot, quotidiano Le Monde 28/01/12)

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Anno 9, Numero 36
June 2012

 

 

 

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