Versione Originale | Nota biografica | Versione lettura |
Che diavolo faceva lui a 11 anni? Era durante la guerra, forse nel ’41, anche se non ricordava di aver mai visto in giro dei soldati. A quel tempo, il Villaggio Nuovo non esisteva nemmeno. Loro abitavano ai margini di Grindeni, anzì fuori dal villaggio, e ovunque guardasse, a destra e a manca, c’erano solo erbacce e cespugli che avanzavano fino alla riva del Neajlov. Era stato solo dopo la guerra che la gente aveva cominciato a tirar su case tutt’attorno, e nel ’65 c’era già un nuovo villaggio. Quando pensa a quell’età si commuove all’istante. Aveva, all’epoca, verso i 10 o gli 11 anni, un paio di scarpette fatte su misura. Le aveva indossate un suo cugino di Bucarest e poi le aveva passate a lui. Le metteva, ogni tanto, alla domenica, specie se andavano a trovare dei parenti a Dudu. Ma il più delle volte indossava un paio di pianelle. Ogni anno gliene facevano delle altre, ma la sua memoria aveva conservato solo quelle rivestite di velluto nero. Se le ricorda ancora, nuove di zecca, con riflessi bluastri, poi se le vede passare davanti agli occhi conciate, impregnate di polvere, ma altrettanto amate, con la scollatura a doppio orlo, sfilacciata qua e là, che gli lasciava un riga rossa sul piede. Indossava proprio quelle, un giorno di primavera, forse verso inizio marzo, quando aveva trovato la testa di terracotta sotterrata dietro la stalla.
Era un appezzamento di terreno molto soffice, dove di solito piantavano le patate. In primavera lo mandavano lì e lui se ne prendeva cura, anche perchè le patate gli piacevano molto. Faceva dei nidi con una piccola zappa e buttava una o due patate già germogliate, tenute nella sabbia per tutto l’inverno. Aveva dato solo due o tre colpi di zappa, quando aveva già visto il naso spuntare dalla terra. Il sole picchiava dietro di lui, scaldandogli il corpetto di lana, e dalla pancia della terra si alzava un odore di radici e di vita nascosta, passionale, ostinata e dolce come solo quel terriccio nero dietro la stalla poteva accogliere. Aveva dissotterrato con cura la testolina grande come un’albicocca. Aveva delle labbra prominenti, verniciate di un rosso scarlatto e degli occhi neri che occupavano metà del viso. Era una testa di donna. I cappelli marroncini erano laccati pure loro, e il collo finiva in una base rotonda. Non era una statua rotta, ma una testa indipendente, che era stata appoggiata su un tavolino o sistemata sulla bocca di un vaso. O da chissà quale altra parte. Si era fermato ed era corso subito alla grondaia, dove c’era un secchio per raccogliere l’acqua piovana. L’aveva lavata e asciugata con il bordo della camicia. E solo dopo aveva cominciato a esaminarla. Sotto la bocca c’era una specie di tasto, come una capocchia di fiammifero, che sporgeva dal mento. Petrache aveva schiacciato, poi l’aveva spinto dentro con la punta di un bastoncino, finchè non aveva sentito un piccolo click, e le labbra della statua erano scattate in avanti. Non aveva mai visto qualcosa di più interessante. Era una specie di scatoletta, nascosta nella bocca florida della donna di terracotta. E dentro c’era adagiato un anello, che allora gli era sembrato un sigillo. Era un anello d’argento, con una parte arrotondata, come una monetina. La faccia liscia era divisa in quattro parti dalle braccia di una croce semplice, e dentro ogni quarto di cerchio c’era una lettera: STTL. Era come se avesse ricevuto un messaggio. Era convinto che le lettere significassero qualcosa, erano le iniziali di un nome o forse di due nomi, e aveva subito capito che doveva trattarsi di un anello miracoloso.
Quando fu stanco di guardarlo, salì nel solaio. Filtrava la luce dai buchi del tetto, e sulla cresta della casa c’erano due fessure con una specie di visiera, da dove passavano le vespi a costruire nidi grigiastri sulle travi impolverate. Il pavimento era ricoperto di terra battuta, che avevano portato tutti insieme con i secchi dal giardino. Era stato pestato bene, e sopra ci avevano messo uno strato di argilla, lucidato tanto da sembrare cemento. Petrache aveva disegnato un quadrato con la punta del coltellino, e poi l’aveva ritagliato con cura. Aveva fatto un piccolo buco in cui nascondere il suo anello, posando sopra il cubo di terra come fosse un importante lavoro di camuffaggio. E visto che non era ancora soddisfato, ci aveva messo sopra anche un cesto di vecchie cianfrusaglie.
Verso sera, quando la famiglia si era riunita per cena, aveva tirato fuori la testa di terracotta e aveva raccontato loro come ci si era imbattuto. Suo padre diceva che durante la sua infanzia si potevano trovare pezzi di statue, di cui si credeva che fossero dai tempi dei romani e chissà quali altri tempi, e mentre raccontava, aveva preso la testa e aveva premuto il tasto magico, con grande meraviglia di tutta la famiglia. Da quella sera non l’aveva più vista. Aveva continuato a chiedere prima all’uno, poi all’altro dei genitori, ma non aveva mai saputo cosa ne era stato di lei. I primi tempi sua madre gli diceva lascia stare, l’ho messa via, a cosa ti serve? E che voglio vederla ancora, rispondeva lui, ma lei rimandava sempre, domani, la vedrai domani, che poi diventava domenica, e sempre così, finché un giorno gli avevano detto seccamente:
- Non so che fine abbia fatto, forse l’ho buttata via quando ho fatto le
pulizie di Pasqua.
Non aveva idea se gli avesse portato fortuna o sfiga. L’aveva conservato sul dito come un messaggio importante, come un oggetto magico, immaginando, nei momenti di tranquillità, come fossero fatti gli uomini le cui iniziali vi erano incise. Lo stesso anello che ancora oggi era il suo talismano più prezioso e che voleva indossare al dito fino alla sua ultima ora.