El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

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un’immagine di bellezza e ingiustizia

gabeba baderoon

Cammino lungo l’Heerengracht,
dove i piccioni affondano i colli
come punti interrogativi nella fontana.
Poi a sinistra, alla Long, mentre il sole scivola
Verso il mare e la luna prende il suo posto
su Signal Hill.
Su di me, gli storni ticchettano
come macchine da scrivere.
Ancora più su, girando a destra nella Wale,
gabbiani giostrano come aquiloni bianchi
contro il vento.
Avanzo sui vecchi silenzi della città.
Ecco il posto sulla collina dove gli artisti venivano
per la pace e la vista sul porto.
Sotto, la città si rivela.
Ancora percorriamo le vie nitide dei loro dipinti.
Sotto la montagna squadrata, la sua luce azzurra,
gli storni sono freddi ma, a guardarli,
vedo l’incanto
della loro fame caotica e coordinata.
Cosa può spiegare
questa bellezza esatta e ingiusta?
Il gregge si raccoglie al tramonto, per il cibo e il calore.
La poesia non può temere questo.
Disegnando le vie, gli artisti si fermavano
sul cimitero degli schiavi della città.
Nei dipinti c’è qualcosa
del dolore segreto dei loro corpi.
In percorsi precisi gli storni si seguono
e doppiano le proprie traiettorie,
flusso di calore,
traccia insanguinata del sé.
Niente da cui iniziare
e niente ancora.
Intorno a me l’aria è spessa di storia.
Duecento anni fa,
non si potevano più vendere gli schiavi.
Niente, e niente ancora.
Ancora guardo la città dipinta, che affonda
nel silenzio al tramonto, perfino gli uccelli si sono posati.
Nell’ultimo bagliore del sole, la città riluce
bianca e dura come d’osso.

Traduzione di Ilaria Zucchini

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architettura contemporanea

gabeba baderoon

Pioveva. Avevo lasciato fuori le scarpe
perché non ci sono stoini
per pulirsi dal fango come si conviene.

Ci sono posti
dove togli le scarpe
sulla porta.

Guardo la gatta che misura la
distanza fra l’uomo che amo
e me, e si ferma a metà strada esatta
fra di noi. Scegliendo
dove stendersi, crea
una sorta di architettura.

Un quartiere crea architettura
col suono, il suono dei bambini,
per esempio,
o di una moschea.

Niente suoni di moschea, dove sto io.

Ma a 42 minuti di macchina,
nel posto dove stavo prima
si sentono tre moschee
il cui triangolo di richiami mi racchiude,
delimita i miei rapporti con Dio
e casa.

Non lo diresti dal
lutto senza dimora delle madri dei ragazzi,
eppure l’architettura delle moschee mira a creare
uno spazio d’amore.

Guardando la moschea di Gatseville-
un’immagine dal notiziario, ma
quelli che ci pregano
la conoscono come le loro tasche-
la maggioranza non la vede
particolarmente bella

Per l’occhio esterno,
la moschea dalla volta azzurra
lascia uno strano segno.

Per l’affamato occhio interno,
la sua bellezza le guadagna un posto al mondo.

Si legge nei mattoni e nella luce
una superna filosofia di proporzione
e ripetizione. Un modulo costruito
sulla misura di un solo punto
in relazione all’altezza della prima lettera
dell’alfabeto arabo può fiorire
fino all’infinità.

Una moschea a Konya, in Turchia
costruita nel 13° secolo,
è famosa per il tetto –
una collana di maioliche tenute in aria
dal vento. Al suo centro è un buco
che intesse i suoi motivi fin nel cielo intricato.

Dove è il centro,
e dove il punto estremo
del suo spazio?

Un giorno
mentre il profeta pregava
una gatta si accovacciò sul letto caldo
della sua veste, per partorire.
Lui non si mosse
finché lei non ebbe finito.

Traduzione di Ilaria Zucchini

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la mia lingua si addolcisce sull’altro nome

gabeba baderoon

Nell’orto di mia madre il bucato sventola
su peperoncini e rosmarino selvatico.
Kapkobo, pianta del cotone, la mia lingua si addolcisce
sull’altro nome del rosmarino.
Brinjal, peperoni rossi e papaia crescono
nello stretto fosso tra
la cucina e il muro che divide
la nostra casa da quella dei Severo. Al limitare
dell’erba fra le camere, una witolyf raggiunge
estatica i fili della corrente.
In un angolo sottovento della casa,
non cresce nulla.
Ci cade il suono.
Di mattina presto le ombre lavano
vecchie piastrelle ammassate
contro il muro di cemento.
Al freddo in silenzio
mio fratello sta facendo un giardino.
Ripulisce la breccia dal pacciame
e lo appoggia sul muro del retro.
Radioso il leucospermium punge il giardino di rocce.
Per ore gratta, in un’enorme pietra, un buco che raccolga
l’acqua di un rubinetto, stillicidio di tutta la mia vita.
Lì intorno, la gazania arrossa lenta la sabbia grigia.
Una staccionata di canne filtra
il vento fra il muro e la casa.
Lampranti intingono le loro teste infiocchettate
nella sua ombra.
Di notte, su una latta da vernice rovesciata, lui siede
alla presenza delle cose che crescono.
La luce sgorga oltre il bordo della vasca di pietra
e si raccoglie nella luna.
Ogni cosa sta trovando il suo posto.

Traduzione di Ilaria Zucchini

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Anno 9, Numero 36
June 2012

 

 

 

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