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il volo

diana facile

Quella mattina la sveglia non aveva suonato. Quando aprì gli occhi il sole era già alto e filtrava dalle persiane socchiuse irradiando la stanza del caldo tepore primaverile. Si catapultò giù dal letto e si fiondò in cucina divorando gli scalini a tre alla volta. La tavola imbandita lo attendeva per la colazione, con l’aroma del caffè che saturava la stanza e il profumo invitante del pane appena tostato. Ma solo la sua tazza era ancora a testa in giù. Tese l’orecchio, attento a cogliere il minimo rumore provenire dalla camera dei genitori. Invano. Erano già usciti. “Meglio così” pensò rassegnato.
Si avvicinò al tavolo e allungò la mano verso la busta contenente il suo regalo di compleanno. Diciotto anni. La aprì e tirò fuori duecento euro. Quattro pezzi da cinquanta accuratamente ripiegati l’uno sull’altro, senza una sola parola di accompagnamento. “È già tanto che se ne sono ricordati” ruggì con gli occhi infuocati. Aveva lo stomaco serrato. Ingurgitò la spremuta d’arancia e andò a farsi la doccia. Quel giorno niente scuola. Avrebbe firmato da solo la sua prima giustificazione. Era finalmente maggiorenne, e quello era il suo giorno.
Il suono del campanello lo strappò ai suoi pensieri. Erano le nove. Luisa non l’aveva tradito. Era lì, puntuale come un treno svizzero.
- Auguroni Marco – disse la ragazza. – Sei pronto?
- Si – rispose lui tirandosi dietro la porta. – Andiamo.
Salirono in macchina e Luisa impostò il navigatore. Casal Monferrato. Un’ora e mezza di strada. Dopo dieci minuti, l’amica ruppe il silenzio.
- Gliel’hai detto? – chiese a Marco.
- Sei matta? Non capirebbero.
- Questo non significa che non ti appoggerebbero – replicò lei. – In fin dei conti io sono qui…
- È diverso, lo sai…
- Non dimenticare che anch’io ho perso molto – ribatte lei rabbuiata.
- Lo so Luisa, ma tu sei giovane e la vita va avanti. Per loro è diverso. Hanno perso un figlio…
- E non si rendono conto che ne hanno un altro che ha bisogno di loro – concluse lei amareggiata.
Erano trascorsi ormai sei mesi dal tragico incidente in cui Luca aveva perso la vita. Era un paracadutista esperto, ma una tragica fatalità se l’era portato via. Sei mesi in cui Marco aveva assistito inerme all’autodistruzione della madre e all’impotenza del padre. Sei mesi trascorsi a chiedersi ossessivamente perché. Fino al giorno in cui aveva deciso. E aveva ricominciato a sentirsi vivo. Si era messo in contatto con Luisa, l’ex ragazza di Luca, per chiederle di accompagnarlo. Era l’unica che poteva capirlo. L’unica che avrebbe voluto avere accanto. Lei si era limitata a chiedergli quando. Poi non si erano più sentiti, fino a quella mattina.
Marco accese una sigaretta e aspirò profondamente. Si guardò attorno. Il cielo era terso e il sole regnava imperioso sulle campagne sottostanti. Chiuse gli occhi e intonò le note iniziali di Knockin' On Heaven's Door. Luca la suonava sempre alla chitarra. Era il suo fratellone. Il suo idolo. E quel giorno, quel maledetto giorno di sei mesi addietro, gli aveva promesso il primo lancio in paracadute per il suo diciottesimo compleanno. Poi era uscito di casa. E non era più tornato.
- Siamo arrivati – disse Luisa arrestando la marcia.
Marco si asciugò le lacrime e riaprì gli occhi. La ragazza aveva parcheggiato. Scesero dalla macchina e si diressero all’ingresso dell’accademia.
Mezz’ora dopo era imbragato e pronto per il lancio. Luisa lo strinse a sé con vigore. - Ti aspetto qui. Spacca tutto, mi raccomando – lo esortò ridendo. Ma il suo sguardo perso tradiva l’allegria.
- Tranquilla – rispose lui salendo sull’aeroplano.
Durante i dieci minuti di ascensione, Marco non riuscì a staccare gli occhi da terra. L’aeroplano acquistava quota e velocità, e in quella maledetta equazione non riuscita cercava la risposta a quel perché che si ripeteva ormai da troppo tempo. Quando l’istruttore iniziò ad armeggiare per prepararsi al volo, Marco sentì il sudore colargli lungo la schiena. Il suo cuore pulsava al ritmo di un djembé e gli occludeva la gola, impedendogli di respirare. Uno strano calore gli partiva dallo stomaco e s’irradiava verso l’alto, come la lava di un vulcano in eruzione. “È questa l’adrenalina? È questa la forza irresistibile di cui parlava sempre Luca” si chiese un istante prima che si aprisse lo sportello.
Sentì la spinta dell’istruttore dietro di lui e si lasciò scivolare all’esterno dolcemente, senza alcun timore. L’aria frizzante lo investì come un’onda impetuosa che si infrange a riva. Lui era quell’onda, che da quattromilacinquecento metri di altezza stava precipitando in caduta libera alla velocità di duecento chilometri all’ora. Con le braccia spalancate e le gambe inclinate dietro le spalle, non sentiva più il peso del suo corpo. Era un uccello, una foglia, una folata di vento. Era aria, acqua, terra e fuoco al tempo stesso. Era l’ebbrezza di sentirsi parte del tutto e il puro piacere di essere libero, leggero, invincibile. Ed era la luce che vedeva negli occhi di Luca ogni volta che rientrava da un lancio. Finalmente l’aveva toccata con mano.
Fu solo un minuto. Poi l’istruttore aprì il paracadute. In quei cinque minuti di volteggi che precedettero l’atterraggio, Marco sentì Luca più vicino che mai.
Quando toccò terra era ancora stralunato. Luisa era lì, davanti a lui, che rideva e piangeva al tempo stesso. Lui le si avvicinò e le tese la mano. Lei lo attirò a sé e lo abbracciò con slancio.
- Grazie – le sussurrò Marco. - È stata un’esperienza incredibile, e dovevo farla.
- Lo so – replicò lei seria. – Anche se ho perso dieci anni di vita in pochi minuti, sono felice di essere qui. È il momento di brindare – concluse prendendolo sottobraccio e avviandosi saltellando verso il bar.

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Anno 9, Numero 36
June 2012

 

 

 

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