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mohamed malih

Kamal e l’italianità

L’italianità, si sa, è un’annosa questione e un concetto sfuggevole. Tant’è vero che non ho qui nessuna intenzione di aprire il dibattito, soprattutto considerando l’oziosità dello stesso. Che senso ha, infatti, arrovellarsi sull’italianità quando è l’italiano stesso, se mai è esistito, che è in via d’estinzione o se non proprio del tutto estinto? Cerco di spiegarmi. Tutti noi abbiamo un’idea abbastanza chiara su chi sia il calabro, il siculo, il veneto… Arriviamo persino a concepire, non senza qualche difficoltà, anche quel ramo deviato dell’italica evoluzione che è il padano (uno tipo Borghezio per intenderci) ma quanto alle caratteristiche antropologiche che circoscrivono l’italiano si brancola nel buio. Di solito, per tacita convenzione, si suole estrapolarlo dalla media aritmetica dei vari tipi regionali: una specie di mostro di laboratorio francamente improponibile.

Come non bastasse, a rendere ancora più perverso il dibattito sull’italianità, da un po’ di tempo a questa parte, per gli amanti del genere, qualcuno ha pensato bene di mettere sul piatto un ulteriore elemento di disputa: I Nuovi Italiani. Così, per via transitiva, ora siamo pari: anche noi stranieri non sappiamo più chi siamo. Praticamente, in mancanza d’italiani e senza più stranieri mi trovo solo qui in questa penisola. La cosa non è ovviamente così drastica. Il fatto è che è cambiato il vento ed io sarò pure meteoropatico, ma non del tutto sciroccato.

Le ultime folate di vento che hanno sferzato l’Italia, per quanto benefiche, hanno scompaginato il lessico in dotazione ai politici, facendo piazza pulita di locuzioni ormai datate rimpiazzandole con altre di nuovo conio. Dove prima c’erano gli extracomunitari, ora abbiamo i nuovi italiani. Là dove gli alisei sono stati particolarmente violenti troviamo al loro posto addirittura i Fratelli d’Italia.

Ma non è solo questione di condizioni climatiche avverse, anche in giornate normalmente ventose io ho sempre fatto, e continuo a fare, comunque fatica a incappare negli italiani. Ogni volta che mi sembra d’averne individuato uno spunta immancabilmente un aggettivo a smentirmi. Si va da italiano “vero” a italiano “per bene”, italiano del nord e così via.

La verità è che non sono solo io a non sapere chi sono io né chi siano gli italiani. Siamo in molti a interrogarci sempre più spesso su chi siamo noi e su chi abbiamo di fronte.

Sarà colpa del vento eppure, my friend, the answer is blowin’ in the wind.

Kamal cha saluta

Pur non avendo alle spalle riconosciuti titoli accademici nel campo delle scienze sociali né un curriculum che vanti spedizioni sul brigantino beagle, ciò non di meno intendo imbarcarmi in un discorso molto in voga in questi ultimi giorni ed è il tema della convivenza multietnica. Memore però delle tante cialtronerie che a tale proposito mi capita di sentire o leggere, e per ridurre a mia volta le castronerie che senz’altro mi potranno sfuggire limiterò le mie osservazioni ad un aspetto ben circoscritto: il non detto nel mentre uno stracomunitario e un homo urbanus si salutano. Per chi non lo sapesse l’homo urbanus è il risultato odierno del lavorio che l’evoluzione nel corso dei millenni, selezionando e scartando a più non posso, in modo del tutto genuino e naturale è andata man mano forgiando per impercettibili e graduali modifiche, fino a farci trovare in cima a quel delicato ecosistema che sono le nostre metropoli tipi come Borghezio o Gentilini.
Il posto ideale per osservare questo fenomeno sono i quartieri cosiddetti multietnici con le loro vie emblema:. Via Anelli a Padova, quartiere S, Lazzaro a Torino, Via Carducci a Senigallia ecc. Attenzione però: la parola Metropoli in questo caso può essere fuorviante. State certi che in qualunque paesino, anche fra i più sperduti, oltre al Duomo, alla Piazza ( con l’immancabile cane randagio), al Palazzo del Municipio, insieme all’unico barbiere e alla sala proiezione dell’ oratorio, chiunque vi potrà indicare anche il quartiere multietnico.
Cosa dovrebbe dunque frullare nella testa di un “homo urbanus” e di uno stracomunitario , secondo le regole del bon ton suggerite dai fautori della multiculturalità, quando incontrandosi dovessero salutarsi? Essi debbono scambiarsi oltre ai consueti salamelecchi anche un surplus di smancerie che hanno una duplica funzione: per l’oriundo sono la prova palesata della sua apertura mentale, un certificato di assoluta impermeabilità, garanzia assoluta contro infiltrazioni inopportune di sentimenti anche vagamente xenofobi, abilitato quindi ad accogliere ed integrare chiunque abbia messo in atto il biribizzo di fare dell’Italia la sua patria elettiva. Per lo stracomunitario invece è la prova ostentata che è, in ordine sparso: un buon immigrato, che ce la mette tutta per essere integrato; che pensa solo a lavorare; che è un musulmano però moderato; che non è un molestatore; che non li passa neanche per l’anticamera del cervello di farsi saltare in aria per una delle tante cause panislamiche; che manco ci pensa di farsi quattro mogli, che anzi una già è troppo e che, per dirla tutta, forse è pure cornuto, la pasta manco a dirlo la mangia solo se è al dente e che, ma questo li duole moltissimo, purtroppo ancora non ce la fa a mandare a mente per intero l’inno di Mameli, questo unicamente, a sua parziale discolpa, in quanto il relativo cd è di difficile reperibilità nel mercato parallelo della discografia senegalese e le poche occasione che ha di fare un po di pratica, sono le partite della nazionale in euro o mondovisione ( sotto questo aspetto l’impegno dei calciatori a favore dell’integrazione è davvero deludente), che però cerca di compensare questa carenza cantando a squarciagola sotto la doccia O sole mio. I più sofisticati, arrivano persino a “non dire” che tengono sul comodino Io amo l’Italia di Magdi Allam ( il Moccia degli stracomunitari integrati) e ogni notte per conciliare il sonno ne leggono qualche riga .

Davvero troppo per chi, come me, non ha nella giovialità il suo punto di forza ed è pure refrattario al fascino dei best seller.
Donde, per quanto mi riguarda continuerò, correndo il rischio di essere scambiato per kamikaze, o quello non meno infamante di passare per zoticone, con i soliti cenni di saluto sempre che non abbia la lune di traverso. Se poi mentre attraverso una siffatta congiunzione astrale per disgrazia mi capita d ‘incrociare in un homo urbanus che ha saturno contro, eccoci allora nel bel mezzo di uno scontro di culture.

Kamal e la crisi economica

Pur essendo povero ho un idea decisamente romantico-francescana dei poveri. L’ardito (quanto inappropriato) aggettivare era per dire che da sempre associo alla parola poveri senso di misura, dignità, intelligenza ,sobrietà e financo eleganza. Credo che questo modo di vedere mi derivi dalle troppe estati trascorse in campagna, in Marocco, con compagni di gioco figli di contadini. Non c’era né la televisione né l’acqua corrente e se capitava mi fermavo a mangiare a casa di qualcuno dei miei amichetti spesso e volentieri il pasto era a base di tè alla menta e pane di granoturco. Per quanto la location e il menù possano sembrare spartani vi assicuro che i sorrisi di chi ci ospitava, il raro senso di ospitalità e l ‘evidente gioia nel condivedere erano un companatico che ho poi inutilmente cercato anche in mense e dispense di gran lunga meglio rifornite.

Mi sono trovato in questi giorni a fare queste considerazioni seguendo, come tutti, l’andamento altalenante della Borsa e della crisi finanziaria con il consueto contorno di anglicismi fatti di spread e quant’altro. La finanza per me è argomento ostico, non ci capisco una mazza. Sembra però assodato che tutto ciò aggraverà ulteriormente la situazione della povera gente oltre che accrescerne le fila. Gli effetti insomma si faranno sentire anche su cosa metterà nel carrello della spesa la casalinga al discount. Fra la gente serpeggia la paura. I ricchi hanno paura di diventare un po’ meno ricchi e i poveri hanno paura di cadere in miseria. Fra le altre considerazioni è che povertà e miseria sono due cose ben diverse. La miseria mi evoca scenari grigi fatti di capannoni dismessi, metropoli al freddo e distretti industriali in abbandonato. La miseria più che la povertà mi fa pensare anche allo sfruttamento, allo strozzinaggio, alla cupidigia e all’ingiustizia, alla prevaricazione del più forte sul più debole. Fanno uno strano effetto i continui richiami allarmati sulla povertà che cresce sempre di più, accanto al gran parlare che si fa attorno alla Decrescita. Mentre c’è gente che non sa come mettere insieme il pranzo con la cena altri discettano su come non consumare troppo, su come conciliare il consumo con la salvaguardia dell’ambiente. Da una parte c’è gente che crepa di fame e dall’altra dietetisti, personal trainer, aurispici e cabalisti della caloria sfornano quotidiane e contraddittorie formule su come raggiungere il mito del peso forma ideale, conducendo una tenace e singolare crociata contro la ciccia in eccesso, anticamera della cellulite, a sua volta causa del male per antonomasia, ovvero: l’effetto buccia di arancia.
Non è mia intenzione qui fare discorsi lacrimevoli sui poveri. Tutt’altro. È mia convinzione infatti che i poveri siano indispensabili per la sopravvivenza del nostro pianeta. Spesso ci si lamenta dell’ eccessiva esclusività del club dei ricchi e dell’esiguo numero dei suoi iscritti, della forbice che inesorabilmente da una parte si allarga e dall’altra si restringe. I ricchi a mio parere fanno bene a non voler distribuire equamente le loro ricchezze: lo fanno per la salvaguardia dell’ambiente. I ricchi sono degli ambientalisti nati. Più gente sta al verde e più sono contenti. Sanno che solo una cerchia di unti dal Signore può permettersi il lusso di inquinare, scialacquare e gozzovigliare. Se aumentano i poveri vorrà dire che si consumerà meno, si inquinerà meno e alla fine si respirerà tutti un aria più pulita, dove i rampolli dei riccastri cresceranno robusti e abbronzati, e i poveri continueranno a figliare manodopera a buon mercato, immigrati, qualche terrorista e tanti peacekeeper; vorrà dire anche che i poveri continueranno a crepare presto e peseranno meno sulle casse semi vuote dei sistemi previdenziali. Nel frattempo, in altri lidi, la vita si allungherà a dismisura e prospererà florido il giro delle badanti.
Bisogna accettare questo stato di cose senza falsi moralismi. Ne va della salute del nostro pianeta. Dobbiamo convincerci che la maniera più naturale per effettuare la Decrescita stia appunto in un sostanzioso incremento del numero dei poveri, purché si abbia l’accortezza di abbassarne ulteriormente il reddito procapite.
Quel che scoccia è che sempre a noi poveri, ultimi, tocca scontare per primi le malefatte altrui. E quel poco o tanto, non ci è dato saperlo, di beatitudine che fonti autorevoli garantiscono ci spetti di diritto in un non meglio precisato futuro, ci tocca pagarlo a caro prezzo hic et nunc.

So bene che in simili faccende non sono ammesse trattative ma a proposito, giustappunto, degli ultimi che arriveranno primi, con rispetto parlando, io umilmente ventilerei, in cambio di una vita con meno ristrettezze, l’ipotesi di un più defilato piazzamento.

I 150 dell’unità d’Italia visti da Kamal

Finalmente pensavo, con le celebrazioni per festeggiare l’anniversario del 150° anniversario dell’ Unità d’Italia, avrò l’occasione di sapere qualcosa di più su Garibaldi, Mazzini e Cavour. Non che io non sappia niente di questi signori. Non faccio per vantarmi, ma con Cavour , Mazzini e Garibaldi ho quasi quotidiana frequentazione. Infatti tutti i giorni passo per Piazza Cavour, giro per Viale Mazzini, e, per accorciare la strada, taglio per i giardini dove c’è la statua di Garibaldi. Questo in tutte le città dove ho abitato e in qualunque parte fossi diretto. Tuttavia, fossi in un quiz televiso, non saprei cosa rispondere ad eventuali domande sulla vita di questi personaggi. Anche ricorrendo, da uomo della strada, a tutta la mia cultura toponomastica oltre al fatto che sono tre eroi nazionali non saprei che dire. Fossi invece in un talk show potrei polemizzare sul fatto che non mi sembra che la loro memoria sia degnamente onorata per via dei mille scostumati piccioni che scacazzano tutto il giorno sulle barbe dei Garibaldi e sugli occhialini dei Cavour rendendoli irriconoscibili. Ma eviterei. Di polemiche sull’ unità d’Italia e i suoi eroi ce ne sono anche troppe.

Ora che finalmente le celebrazioni sono finite, e i media hanno altro a cui pensare, su questi eroi fautori dell’Italia unita, ne so quanto prima. Tranne forse che tanto unita non è. C’è un certo Bossi che vuole prendersi il Nord Italia e costituirvi uno stato a sé: La Padania.( Questa questione dei separatisti, se non ho capito male, deve essere la famosa “grana padana”. Ma non ci giurerei.) La questione è complessa e la confusione regna sovrana.

Come si sarà evinto, io della storia D’Italia mi interesso. Amo l’Italia e vorrei che rimanesse sempre unita così com’ è adesso. Se non altro per comodità. Perché, per questione di lavoro, spesso noi stranieri siamo obbligati a spostarci per tutt’Italia inseguendo le stagioni e le relative raccolte: arance in Sicilia, mele In Alto Adige, pomodori in Puglia… ; e non mi sembra proprio il caso di complicare ulteriormente le cose con altre frontiere, altri visti ed altri permessi di soggiorno…altrimenti non reggerei. C’è poi una questione che stranamente non mi sembra venuta a galla in mezzo a tutte le polemiche che hanno caratterizzato le celebrazioni di questo 150° anniversario dell’Unità D’Italia: dico il “Made in Italy”. A me sembra che il Made in Italy conti più della lingua di Dante, più degli eroi nazionali, addirittura più degli spaghetti, più della mafia, più della musica lirica, della pizza, del mandolino e del calcio. Più insomma di tutti quegli elementi che, presi insieme e ognuno a modo suo, contribuiscono a fare di questa penisola una nazione. Senz’altro l’unico di questi elementi a cui nessun italiano, del Nord o del Sud, sarebbe disposto a rinunciare. Anche per questo io amo l’Italia. Per la sua modernità. Forse è la prima nazione al mondo a potersi dirsi tale non per via di eroi o bandiere, ma unicamente per via di del brand. Il solo stato protetto dal copyright. Viva l’Italia, Viva la Repubblica, Viva il Marketing.

Kamal che sogna Shahrazad

Un arcobaleno fa capolino dall’orizzonte e, indiscreto, sguinzaglia i suoi tentacoli sgargianti a fendere la nebbia dei miei pensieri. E così mi sovvengo che siamo parcheggiati al lungomare dove, oltre al nostro, ci sono altri gusci di metallo e plastica dove langue eros. Qualcuno corre, altri marciano a passo salutista e c’è chi porta a spasso il cane. Nel cielo le nuvole gonfie di marzo.
Un pomeriggio d’agosto sono entrato in un bar e dietro al bancone c’era lei e suo marito: un uomo piccolo dallo sguardo buono e triste. Gli occhi Di Shahrazad erano ombra scure animate di notturni intrighi. Ho ordinato un cappuccino e ho compatito l’uomo che le stava a fianco.
Fra drappi, tappeti e ninnoli arabescati, nel bar si stava come in una tenda beduina. Era un alcova che Shahrazad di continuo rassettava per un eroe che verrà. Il marito che sa di quest’attesa, aveva negli occhi la desolazione dei nidi abbandonati.
Ora Shahrazad m’invita a parlare di me. Di malavoglia acconsento ma le dico scherzando di non mettersi troppo comoda che per quel che ho da dire me la sbrigo in un minuto, non certo in mille e una notte.
Ascolta Shahrazad. Il fatto è che sin dall’infanzia mi son nutrito di sole e di vento. Sono nato in un paese dove il sole batte forte, e l’amicizia è un carrubo che mentre ti dona la sua ombra gioisce con un lieve tremito delle foglie. La mia prima scuola (coranica) era una casetta bianca in mezzo a un terreno brullo e sassoso, e davanti stava un albero di fico. Sotto i sassi avevano dimora i serpenti e le vipere. Al posto dei quaderni avevamo tavolette di legno ben levigate. Per scriverci dovevamo ricoprirle di uno strato d’argilla e metterlo al sole perché s’asciughino. Una volta asciutte intingevamo i calami di bambù in un inchiostro nero e ci scrivevamo alcune sure del corano da mandare poi a memoria.
Un giorno, ritornando a casa, m’imbatto in un cantastorie che raccontava la tua storia e da allora tu abiti le mie notti. Bene, si è fatto tardi… il Bar mi aspetta; domani sognami e parlami ancora di te, disse Shahrazad.

Kamal e “gli schiavi gratis”

La stagione degli sbarchi è alle porte e ad annunciarla, quale primizia, sono le carrette del mare che da qualche giorno vengono messe in salvo dalle Guardia costiera nei porti di Lampedusa e di altri porti della Sicilia, mentre si susseguono avvistamenti e segnalazioni di altre imbarcazioni ancora al largo.
Ma la Sicilia sta perdendo l’esclusiva. La battaglia contro l’immigrazione clandestina si combatte ora su più fronti, tanti quanti sono le nuove rotte e le diverse modalità che gli scafisti percorrono ed escogitano per continuare nei loro lucrosi traffici.
Infatti non è poi così raro che i bagnanti delle spiagge della Sardegna debbano interrompere il relax della tintarella per prestare soccorso a clandestini all’estremo delle forze perché scaricati dagli scafisti troppo lontano dalla riva per non correre inutili rischi, fare dietrofront e subito dileguarsi coi loro agili gommoni.

Passata la stagione degli sbarchi, i suoi clamori mediatici, seguirà inevitabilmente il silenzio e ci si dimenticherà dei morti annegati. Un triste destino però attende anche i clandestini che giungono vivi alla meta: una vita da schiavi. Schiavi della criminalità organizzata, schiavi dei vari capolarati per i quali dovranno sputare sangue in cambio di pochi euro per la raccolta di pomodori, nell’edilizia e in mille lavori e lavoretti dove servono braccia che lavorino duramente senza campare pretese di diritti sindacali o di altra sorta. Un clandestino affamato, c’è da stare tranquilli, sicuramente penserà solo a lavorare e stare zitto. Non ci sono carte da firmare o contratti da sottoscrivere. Vige un’unica regola non scritta, tacitamente siglata , come usa fra gentiluomini, con una maschia stretta di mano: soddisfatti o rimpatriati.
Il mercato degli schiavi è alquanto florido e redditizio. Non c’è più neanche più bisogno di battere le coste africane con navi negriere, per procacciarseli gli schiavi. Ora gli schiavi sono, di propria iniziativa, disposti a correre rischi vitali e pagare cifre consistenti per poi consegnarsi nelle mani dei loro padroni, rassegnati docili e riconoscenti. Stanislaw J. Lec diceva: Ci sono stati tempi in cui gli schiavi bisognava comprarli legalmente. Altri tempi.
Rimane da chiedersi il perché di tutto ciò. Io credo sia per un idea che si ha dell’Europa. Che poi coincide con la stessa idea che i media, gli europei all’estero e gli stessi immigrati di ritorno veicolano e di continuo alimentano e che dice: noi viviamo nel paese del bengodi dove tutti i diritti sono garantiti a tutti e a ciascuno indistintamente, dove abbiamo tutte le comodità, dove uomini e donne pari sono, dove la democrazia la fa da padrona, dove c’è il massimo della libertà, dove da mangiare ce n’è per tutti e anzi ne avanza, giriamo in macchine lussuose, abitiamo in case identiche a quelle di Ridge, la nostra morale è più o meno quella di Beautiful, siamo talmente buoni e caritatevoli che non c’è che citofonare e vi sarà aperto, chiedere e vi sarà dato. L’effetto di questa pubblicità ingannevole è deleterio; è come strofinare del lardo sul muso di un cane affamato e legato. Prima o poi spezzerà la catena, si trangugerà il lardo e la ferocia accumulata per la lunga cattività farà il resto.
Il “resto” è imponderabile. Auguriamoci allora che il futuro non ci riservi nulla di apocalittico da dover rimpiangere, un giorno, le sommosse delle banlieu o le rivolte meneghine di Chinatown.

Kamal discetta di amazzoni e di massaie

La mattina, le mamme (non tutte) che portano i loro piccini a scuola mi danno l’idea di amazzoni metropolitane.
Sono vestite da cavallerizze, con cinghia borchiate e i pantaloni ben infilati negli stivali. Coprono il breve tragitto che le separa dal piccolo tank in bilico sul marciapiedi, a passo spedito e piglio marziano.
La loro è una femminilità sacrificata all’altare dell’efficienza, e soffocata nei mille impegni che, immagino, ne scandiscono la giornata. Quanto ai papà mi sembrano molto meno professionali, e non indossano neppure più la cravatta. Vestono un casual poco ricercato, ed anzi molto pigiamesco. Hanno il classico aspetto dimesso e bonario delle massaie. E pensare che un tempo, prima della metamorfosi in massaie e amazzoni, erano semplici ragazze piene di fantasie con mille lustrini,con ambizioni da veline e, i maschietti, bamboccioni immersi nel tepore pantofolaio e poltronesco di una serena casalinghitudine perpetuata con abbondanti dosi di pastasciutta sfornate dalle solerti mani di mamma chioccia. Poi sono subentrate- e non sempre subentrano- la maternità e la paternità a farne amazzoni e massaie.
L’interscambiabilità dei ruoli è un bene. La confusione dei ruoli, non credo.
Nè voglio rassegnarmi all’idea che il risultato ultimo del lungo e tortuoso percorso dell’ emancipazione della donna debba per forza sfociare nei trans.
Tuttavia è comprensibile che, mentre le donne sono tutte intente ad emanciparsi, si ricorra alle escort.
Ma c’è anche chi, refrattario al fascino delle amazzoni, se ne sta alla larga dai trans, e non può permettersi le escort.
A costoro non rimane che accasarsi con donne dell’ est, dell’ovest, del sud e di tutti gli altri punti cardinali di chiara matrice extracomunitaria, ben disposte a far da surrogato alle mamme chioccia e, all’occorrenza, a farle da badanti. Sempre che si voglia sfuggire a un destino da massaie e nel contempo darsi arie da patriarca.
Siamo in tempi di crisi economica e di genere, e ognuno si arrangia come può. Che sia lei o lui a portare i pantaloni poco importa, quel che conta è stringere la cinghia.

Per Kamal la badante è uno status symbol

L’altra mattina, mentre sorseggiavo il caffè in un bar del centro sono entrate due giovani e graziose signore dall’aspetto molto curato, vestite alla moda, truccate e profumate quanto basta; una incinta e l’altra che spingeva un passeggino supertecnologico con dentro il suo bel figlioletto. Le due signore (se fate fatica a immaginarvele, pensate a qualche spot dove appaiono moderne neo mamme) cinguettavano piacevolmente fra loro.
Quella col passeggino dava consigli alla ragazza incinta. Erano consigli tipo: la rivista più adatta per il puerperio, pro e contro il parto in acqua, fare assistere o no il marito al parto ecc.
Ma ad attirare la mia attenzione era sopratutto il discorso che verteva sulla nazionalità della colf o badante che sia, da eventualmente assumere, per far fronte al surplus di lavoro che l’essere mamma avrebbe senz’altro comportato. Dopo aver passato in rassegna qualità e difetti di moldave, rumene e filippine, la signora col passeggino ha spiegato alla sua amica che la scelta non poteva che essere una collaboratrice filippina; anzi, meglio ancora sarebbe stata una coppia di coniugi filippini. Ho voluto riportare questo trascurabile episodio per dire che tutto sommato puntare da parte delle immigrate solo all’integrazione può essere riduttivo, mentre con un po’ di ambizione e senza peccare di superbia potrebbero aspirare a diventare uno status symbol.
Si direbbe che l’oggetto più bramato oggi sia appunto la badante. Visto che si parla tanto d’integrazione e che, per favorirla, sono state fatte delle campagne di “pubblicità-progresso”, un ipotetico slogan potrebbe essere:
“C’è una badante nel tuo futuro“.

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Anno 9, Numero 36
June 2012

 

 

 

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