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in controluce

julio monteiro martins

Una farfalla svolazza dentro
l'immenso delirio verbale della storia
(Bei Dao, Istante di controluce)

Avevano appena finito di fare l’amore sopra un cappotto steso sul prato, nascosti dall’erba alta che circondava le rovine dell’anfiteatro romano di Luni, quando lo studente, colpito dalla dolce e riflessiva malinconia post-coito, disse alla fidanzata:
– Guardati intorno. Non c’è una sola casa, una stalla, niente. Non ti sembra incredibile? I romani non costruivano i loro anfiteatri nel bel mezzo del niente, ma proprio al centro delle città più importanti. Ciò significa che proprio dove siamo ora c’è stata un tempo una città piena di gente indaffarata, di movimento, di trambusto. E ora non c’è più niente.
– Ah, sì? Dài, andiamo via. Ho paura che arrivi qualcuno.
– Una volta ho visto un documentario storico, fatto da una tv tedesca in una regione della Turchia. Nel mezzo di un deserto, di un’enorme distesa di sassi che sembrava un paesaggio marziano, si ergeva una colonna mozzata di non so quale antica civiltà. Non era alta più di mezzo metro, ma aveva quasi due metri di diametro! Allora, prova ad immaginare il tempio al quale apparteneva quella colonna! E immagina anche come fosse gigantesca e potente la città che esisteva lì intorno... La puoi immaginare?
– Ora non immagino niente. Andiamo via. Dài, muoviti che è tardi. Guarda, la mia maglia è piena di pagliuzze appiccicate, e la gonna, mamma mia, è tutta spiegazzata. Spero solo che nessuno mi veda in questo stato.

La giornalista dovette scrivere il profilo di Zenobio Di Berto senza essere tuttavia riuscita a intervistarlo. Ogni volta che provava a fissare un appuntamento sua moglie si inventava una scusa per non permetterle di avvicinarsi, scuse sempre più sfacciate e ridicole. Era ormai chiaro che lei, o lui stesso, non volevano contatti con estranei di nessun tipo, però non era chiaro il perché. Comunque, basandosi esclusivamente sulle sue ricerche, sulle testimonianze e su quello che tutti sapevano di quel grande uomo, alla fine mise giù qualche riga, come questa:
“Di Berto era la luce, cercata da tutti ad ogni grande trasformazione attraversata dal paese negli ultimi decenni”, oppure “più che un protagonista, lui personificava lo spirito del suo tempo – di un’Italia che si modernizzava in fretta, quasi controvoglia, che s’integrava finalmente a una Europa alla quale aveva girato le spalle e che aveva finto per secoli di ignorare ciò di cui non conveniva prendere atto – e ogni sua mossa, ogni suo parere, assumeva le dimensioni di una svolta definitiva”.
Quello che la giornalista non poteva immaginare era che già da qualche tempo Di Berto si consacrava esclusivamente ad altre attività, che però non riteneva meritevoli figurassero nelle sue agiografie:
1) cercare di pulire con un pezzetto di carta igienica le macchie di sangue lasciate dalle zanzare schiacciate contro la parete della sua camera da letto
2) raschiare le incrostazioni di calcare dal fondo della teiera
3) raccattare le briciole di panettone e le uvette calpestate e appiccicate al pavimento
4) urinare ad ogni quarto d’ora in una ciottola bianca e ogni volta verificare se fossero rimasti granelli rossi di renella sul fondo.
5) soffiare via i resti di insetti secchi rimasti dentro le lampade ogni volta che c’era bisogno di cambiare una lampada bruciata
In un brano successivo del suo articolo, la giornalista si soffermò su alcuni eventi particolarmente brillanti della vita pubblica di Di Berto:
“(...) Quella volta il Governo stesso gli mise a disposizione un piccolo aereo perché arrivasse prima dell’inizio dei lavori. Così è stato, e le sue dichiarazioni ebbero l’effetto di un terremoto tra i ministri e tra i governi che rappresentavano. In quel modo, anche prima che venisse discussa, la questione fu risolta. Era chiaro che non ci potesse essere soluzione diversa da quella proposta da Di Berto: era l’unica che evitava in breve termine di sfociare in un conflitto di proporzioni gigantesche.”
La giornalista non sapeva invece che, oltre ai suoi attuali impegni descritti sopra, Di Berto, pacificato con il suo minimo io, si dedicava anche a:
6) pulire con un vecchio spazzolino da denti i peli di barba rimasti incastrati insieme alla schiuma secca tra le due lamette del rasoio
7) portare i sacchetti della spazzatura a un cassonetto due isolati lontano da casa ma che non era già stracolmo alle prime ore del mattino
8) tirare giù lo slip quando gli comprimeva i testicoli
9) cercare nei cassetti una biro che scrivesse ancora o una matita che avesse ancora la punta
10) raschiare con l’unghia una ad una le gocce indurite di dentifricio che si erano appiccicate al lavandino
Nell’editoriale della rivista che il direttore del settimanale scrisse apposta per giustificare ai lettori la scelta della copertina di quell’edizione, ispirato dal testo scritto dalla sua dipendente, egli affermava: “certi uomini hanno raggiunto nella Storia un significato, reale e al contempo simbolico, che li ha resi più grandi di se stessi: sono uomini rari e preziosi, le nostre ‘antenne’, le icone della nostra cultura, e sicuramente Di Berto è uno di loro, forse il più eminente. Più che costruire la storia e i valori, possiamo dire che lui è stato, ed è, la Storia stessa, le sue sistole e le sue diastole, i suoi capricci e le sue spaventose energie. Quando si dice che con le sue celebri intuizioni lui assecondasse la Storia, forse non si vuole ammettere come fosse invece la Storia ad assecondarlo, concretizzando le sue intuizioni, trasformandole in fatti.”
La moglie di Di Berto, Anna, una donna smilza e grigia, sempre discreta, taciturna, come se fosse un’ombra, era l’unica persona a conoscere da vicino il grande uomo nella sua versione odierna, i suoi gusti, le sue preferenze, le mansioni che lo assorbivano ad ogni momento:
11) buttare nei sacchetti le cicche di sigarette lasciate dai visitatori e poi lavare il portacenere
12) levare con la spumella i resti bruciati rimasti nell’olio sul fondo della padella per friggere
13) ricucire il bottone della patta del pigiama azzurro penzolante ad un filo
14) tagliare l’unghia degli alluci con le forbicine con particolare attenzione agli angoli perché poi non s’incarnisse
15) rimettere il plug rosso nel lettore dvd che la donna di servizio senza accorgersene aveva scollegato mentre passava l’aspirapolvere dietro la televisione
16) passare un panno umido sull’interruttore di plastica della luce, sporco delle impronte di qualcuno
17) sbriciolare lo zucchero indurito dentro la zuccheriera
18) lasciare un messaggio nella segreteria telefonica dell’amministratore del suo condominio informandolo che la lampada dell’ingresso si era bruciata
19) cercare tra i clip in fondo al cassetto uno che fosse rivestito in plastica così da non arrugginirsi e macchiare i fogli
20) togliere con una spilla o con un ago il calcare che bloccava i buchini della doccia
In una lettera inviata alla redazione e pubblicata nell’edizione successiva della rivista, un lettore scrisse: “(...) e perché non ci sono più uomini della statura e dello spessore di Di Berto ai nostri giorni? Perché sembriamo nani che per essere in grado di scorgere la linea dell’orizzonte dobbiamo necessariamente montare sulle spalle di luminari come lui? La risposta non è semplice, ma a mio parere c’entra con l’esperienza della guerra e del periodo di estrema povertà che ne è seguita: la prospettiva della morte incombente e probabile, la mancanza anche delle cose indispensabili, diede agli uomini e alle donne della sua generazione l’intuizione sulle giuste priorità, ossia una serena capacità di distinguere sempre il superfluo dall’essenziale (...)”.
21) passando dall’ottico, chiedere la cortesia di dargli un pezzettino di raso per pulire le lenti degli occhiali
22) verificare se la macchia di muffa sul soffitto del garage fosse cresciuta con la pioggia
23) cercare di ricordarsi di non piegare più in due il cuscino prima di addormentarsi a causa del dolore della cervicale
24) mangiare prugne secche prima di dormire per la stitichezza
25) chiedere alla moglie se avesse avuto qualche notizia dell’imminente abrogazione del limbo
26) guardare se uno dei calzini grigi fosse rimasto in fondo al cestino dei panni sporchi

La ragazza, per la verità, non era incline a immaginare arcane colonne mozzate o l’urbanistica dei romani perché non era più interessata a chi gli portava queste inutili evocazioni.
Lei non voleva più lo studente perchè si era innamorata di un ragazzo del Nord, un giovane consulente finanziario, venuto a passare le vacanze estive nella sua città. Ma finché anche lui non avesse dimostrato di volerla, avrebbe continuato a fare l’amore con l’attuale fidanzato (non si sa mai come vanno a finire queste cose). Tuttavia non era disposta a fantasticare sui reperti archeologici insieme a lui, questo proprio no.
Lei era così: in primo luogo, l’amore, in secondo pure, in terzo pure, e tutto il resto non aveva la benché minima importanza.
Sì! L’avrebbe conquistato! Aveva deciso di dare una festa e avrebbe invitato anche il suo adorato forestiero. Sarebbe stata una festa straordinaria, sbalorditiva, come lui non ne aveva mai viste, nella grande terrazza del bellissimo attico dei suoi genitori. E proprio lì, su quella terrazza, si era messa a scrivere uno ad uno gli inviti, con la delicata calligrafia barocca con cui si era allenata ai tempi del liceo artistico. Lo faceva con indosso il costume da bagno, messo per abbronzarsi meglio mentre riempiva ciascuno di quei sottili fogli di carta di riso fatti a mano.
Scrisse ad ognuna delle sue amiche – un po’ controvoglia a quelle molto belle – e il penultimo invito sarebbe stato per l’attuale fidanzato. Cosa dirgli? Uffa! E l’ultimo invito, il più importante di tutti, per il suo futuro amore.
E lei era lì, concentrata su cosa scrivere al consulente finanziario – doveva essere qualcosa di molto bello, di originale, di inusuale – e le vennero in mente persino la colonna mozzata e l’anfiteatro romano, quando un colpo di vento più forte, arrivato dal mare, portò via tutti gli inviti già scritti e anche i fogli in bianco. Era quello un segno? Un presagio?
Li raccolse rincorrendoli per la terrazza. Per fortuna c’erano quasi tutti. Poi scese al piano di sotto, nello studio del padre, e prese un sasso che era su uno scaffale della libreria. Riprese il suo posto davanti al tavolino e le belle parole che voleva far volare col vento fino alle orecchie del suo promesso consorte.
E mentre era indecisa tra “miele”, “vortice” e “farfalla”, osservava il sasso sui fogli di carta. Così le era riaffiorato il ricordo di qualcosa che suo padre le aveva raccontato una volta, quando era piccola, sulla provenienza di quel frammento: quel sasso tutto bucato, di un color grigio sporco, gli era stato regalato molti anni fa da zio Michele, “zio Mike” come lo chiamavano scherzosamente in famiglia. Lo zio che lavorava all’agenzia spaziale americana, la Nasa, e aveva conosciuto da vicino tutti gli astronauti. Sembrava che il sasso fosse stato portato lì da un altro pianeta, oppure dalla luna. Sì, forse dalla luna. Ora si ricordava bene. Era un pezzo della luna...
“Dovrei scrivere questa storia nell’invito? Gli piacerà?” – si domandava la ragazza impensierita. “No, è troppo scontato per uno come lui... ma forse gli piacciono queste cose... oh, Dio, sarebbe piaciuta all’altro indubbiamente, ma a lui... lui è diverso, non sta lì a vagheggiare sulla luna né a guardare documentari su colonne mozze... mamma mia, com’è difficile indovinare ciò che passa per la testa di un uomo...”.

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Anno 9, Numero 36
June 2012

 

 

 

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