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(questa è la seconda parte del diario di viaggio in Myanmar che una nostra collaboratrice, la scrittrice nepalese Sushma Joshi, ci ha inviato. La prima parte è uscita nel numero precedente – dicembre 2011)
La prima sosta durante l’itinerario del primo giorno a Mytkyina fu la casa di Bijayji. Sua moglie era seduta davanti all’altare di Hare Krishna all’interno della loro casa, con le mani giunte, l’immagine della devozione e del raccoglimento. I loro tre figli lavoravano in Tailandia: il figlio come sarto a Phuket e le due figlie a Bangkok in due punti vendita al dettaglio. “Si sente la mancanza dei figli in Myanmar?” Chiesi, e subito mi accorsi dello sbaglio. La moglie di Bijayji aveva lo sguardo triste. Abbassò le palpebre guardando verso il basso. Quasi tutta la generazione più giovane in età lavorativa è emigrata verso la Tailandia. “I nostri villaggi sono senza giovani,” disse Bijayji.
“Suo figlio deve guadagnare molto a Phuket, quindi,” dissi. “Ho incontrato molti sarti nepalesi ai quali va molto bene in Tailandia. Sono proprietari delle loro abitazioni e dei loro negozi.”
Bijayji scosse la testa e replicò: “L’attività di sarto è andata bene a chi è partito una decina di anni fa. Nell’attuale clima economico è difficile per nuova gente impiantare una nuova attività o comprarsi casa a Phuket.” Disse che le figlie e il figlio avevano intenzione di mandare i loro nipoti dai nonni affinché badassero loro mentre questi lavoravano nelle grandi città.
Poi Bijayji mi portò a trovare sua madre ottantenne. Chiacchierammo un po’ e provai un’immediata affinità verso quest’anziana donna. E’ strano, pensai, come possa subito scaturire un punto di contatto tra questa donna anziana in Birmania e me sulla base della nostra storia e sulle tradizioni comuni. Le persone in Birmania hanno questa candida apertura verso il mondo, un’apertura che la maggior parte della gente del mondo modernizzato ha scordato. La sfiducia avvolge le persone moderne come una pellicola di plastica. Quaggiù, sotto il fresco odore degli alberi verdi la gente emana ancora una familiarità spontanea. Questa apertura mi preoccupava; temevo che avrei potuto inavvertitamente fare o dire qualcosa che poteva mettere in pericolo la gente. Ma non c’era niente di cui preoccuparsi. La comunità di Gorkha non aveva niente da nascondere in Birmania. “Abbiamo ottimi rapporti sia col governo che coi ribelli di Kachin,” dissero con convinzione. E a ogni modo, ho creduto loro.
Nella capanna di bambù dell’anziana, ci siamo spostati verso questioni religiose, punto sempre controverso all’interno della comunità di Gorkha in Myanmar. La donna era buddista, a differenza del figlio e della nuora che seguivano il movimento Bhakti secondo la via di Hare Krishna. Aveva un altare buddista a mezza altezza sul muro, alla maniera birmana. “Non si hanno discussioni qui,” disse. “Io seguo Budda e loro Khrishna.” Diversamente dalle grandi comunità, sembrava che questa famiglia avesse risolto pacificamente la libertà di religione e le diverse scelte dei membri della famiglia.
Subito dopo andammo al gomba (tempio). Il Dorje Lama mi dette un caldo benvenuto. Era in corso un’elezione per decidere i membri dell’assemblea. La maggior parte delle persone erano Tamang . Ci sedemmo su una panca in fondo. Per qualche momento ammirai i modi civili coi quali si stava svolgendo il tutto. Apparentemente si trattava di un’elezione, ma era chiaro che i candidati erano stati prescelti e nominati invece che eletti. Gli uomini sedevano da un lato, le donne dall’altro. Tutti quanti guardavano mentre da una pedana l’uomo leggeva i nomi dei candidati uomini eletti.
“Avevamo in programma dei festeggiamenti ma non ci è sembrato il caso coi ribelli di Kachin che hanno ripreso gli scontri,” mi disse un uomo di nome Nima Lama. Circa 80 o 90 abitanti di Gorkha erano stati arruolati dall’esercito birmano per combattere contri i Kachin disse. Avevo già sentito di questo arruolamento forzato da parte dei militari, ma Mr Lama sembrava ritenere questo arruolamento quasi una specie di servizio di leva, un dovere patriottico. “E anche la gente di Gorkha dovrebbe combattere contro i ribelli,” disse con veemenza. “È loro dovere. Odio i maoisti e quello che hanno fatto in Nepal.” Tutte le persone di Gorka che ho incontrato parlavano di Bagi, o Tigri, i soprannomi dei ribelli all’interno dello stato birmano, con lo stesso tono neutro di rammarico usato dai cittadini di Kathmandu per riferirsi ai maoisti. Sembrava che lì, almeno in superficie, non ci fosse approvazione o elementi in comune coi ribelli.
Mr Lama mi disse, “Sono tornato in Nepal diverse volte.”
“Che ne pensa?” Gli chiesi curiosa. Disse che era una perdita di tempo.
“Cortei, ingorghi di protesta e scioperi. Sono stato chiuso in casa tutto il giorno e non sono riuscito a vedere niente, disse. “Che perdita di tempo.”
Questa era una storia comune. La gente di Gorkha in Birmania che era andata in visita ai parenti in Nepal sembrava costantemente aver subito una serie ininterrotta di colpi che li aveva lasciati dentro case di cemento in periferia. Era una perdita di denaro e di tempo, dicevano. Mr Lama andò avanti coi maoisti per un po’. Poi mi chiese cosa ne pensavo al riguardo.
“Sì,” dissi, “Ma adesso la guerra è finita in Nepal e a noi sono rimasti tutti quegli orfani. In seguito ti volti indietro dopo che è morta tutta la tua gente e pensi: ma a cosa è servito? Perché abbiamo ucciso la nostra stessa gente? Chi si prenderà cura di questi bambini adesso?”
Questo lo rattristò. “Inoltre,” aggiunsi rapida, “Uno dei comandamenti del Buddha è di non uccidere.”
Un altro uomo seduto in sala raccontò un aneddoto storico: un suo parente birmano era uno degli ufficiali di polizia che avevano fatto ritorno in Nepal e avevano guidato il colpo di stato contro il governo dei Rana ponendo Re Tribhuwan sul trono. Accesi la mia videocamera e lo pregai di ripetere la storia. Rifiutò dicendo che non è bene dirlo ad alta voce. “Comunque,” disse brusco, “questa storia la conoscono tutti.”
I Rana compaiono di quando in quando nella consapevolezza della comunità di Gorkha, ma la storia dell’opposizione al loro regime viene appena sfiorata, quasi come se farvi riferimento, per qualche ragione, rappresenti il passato proibito. Qualsiasi cosa faccia riferimento all’opposizione a un regime autocratico, sembra sia vietato anche solo a livello di consapevolezza. La gente censura qualsiasi pensiero che possa essere potenzialmente sedizioso; tutto viene appianato dalla convinzione di vivere in una ricca, felice e liberale utopia. È interessante che questa supposta utopia sia reale per quasi tutti gli abitanti di Gorkha. Essi vivono di fatto in una felice utopia in Birmania: che non porta distrazioni esterne all’aggraziata costruzione dei legami sociali, eventi mondani e attività economiche che procedono tra grande calore, amore e sostegno. Come popolo, sembra mantenere un rigido disinteresse per la politica e una posizione neutrale verso tutti i partiti. Questo, sembra, li ha aiutati a navigare nel pantano della Birmania e a scamparla alla violazione e alla barbarie dei diritti umani che si sono trovati a fronteggiare molti altri gruppi etnici del paese.
Andai verso la pedana e mi sedetti per fare alcune domande a colui che presiedeva l’assemblea. Dopo pochi minuti di chiacchiere accese, mi accorsi che uno dei due monaci seduti attorno al tavolo mi stava filmando col cellulare. Mi fissava, con decisione, puntandomi contro il telefono. Subito la gola mi si seccò. Stavo scordando che le istituzioni religiose non sono mai slegate dalla politica in Birmania. Questi non sono come gli altri monaci che avevo visto: indossavano le tuniche gialle dei monaci Thervadin, ma cosa facevano qui in questo Mahayana gomba? Il modo in cui mi guardavano mi innervosiva.
Mi resi conto all’improvviso che stavo parlando di quanto fossi felice del modo in cui erano andate le elezioni e di come si fossero svolte così ordinate ed efficienti. Avevo anche detto che all’interno del Nepal i Tamang studiavano da monaci nei monasteri tibetani secondo la tradizione Mahayana. In che rapporti erano i birmani coi tibetani? Erano talmente in combutta coi cinesi che anche il solo nominare i tibetani veniva visto come tradimento? Avevo fatto qualche accenno a Mr Lama riguardo qualche famoso Rinpoche e qualche famoso Gomba: figure più che religiose, che avevano ispirato rispetto e che godevano di buona reputazione nell’insegnamento del buddismo in Nepal. Allo stesso tempo, queste stesse persone potevano anche essere considerate oppositori politici dai cinesi. Subito mi chiesi se mi ero cacciata nei guai; mi stavo infilando in un territorio minato? Sperai che i monaci non fossero spie governative e che non mi prendessero scambiassero per una di queste.
Ovviamente, l’unica cosa che si può fare in tali momenti è andare avanti con leggerezza, come se nulla fosse. Che è quello che feci, domandando la storia dei momenti formativi del goomba. Mi fu subito chiaro che la gente non aveva una guida spirituale, ma lo spazio era soltanto in funzione della comunità piuttosto che monastico.
Dopo aver avuto una conversazione piuttosto piacevole con la gente del goomba e raccolto un po’ di storie frammentarie venne il momento di andare. Vidi Mr Lama seduto in circolo insieme a due monaci. Erano impegnati in un’accesa discussione. Ebbi la sensazione che ciò che avevo detto precedentemente a Mr Lama: uccidere la vostra stessa gente non è mai sensato, e non fa parte della legge (Dharma) di Buddha fosse stato riferito al gruppo. Si era inserito nel discorso e aveva cambiato il corso alle certezze delle persone. Uno dei monaci con la tunica gialla uscì e salutò me e Bijayji mentre partivamo in motocicletta. Gli porsi un profondo namaste (inchino). Riluttante e sospettoso ringraziò per il gesto. Lo vidi guardarci mentre la moto ci portava via nella delicata luce azzurra del crepuscolo.