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salva l'ultimo libro

ingrid beatrice coman

Il primo giorno fuori dall’ospedale. Dio, quanto aveva aspettato quel momento, e ora che l’infermiera era arrivata con le carte di dismissione firmate dal dottore, Gabriel sentiva una gioia immensa nel petto e l’avrebbe urlata al mondo intero, se solo non si fosse ricordato di essere un anziano signore verso gli ottant’anni che ancora ci teneva al suo buon nome in città.
Era stato via solo per dieci anni, dopo tutto, e quell’infermiera l’aveva rassicurato che era rimasto tutto com’era prima che lui entrasse in coma.
„Ha solo fatto una lunga, buona dormita!” aveva riso lei, i grandi occhi verdi lucidi di simpatia.
„Niente di chè, in fondo…”, aveva aggiunto, aiutandolo ad alzarsi, „non è cambiato niente nel frattempo.” Eppure non gli aveva risposto quando le aveva chiesto dove fosse Dottor Richard, il suo vecchio amico, ma il sorriso le era di colpo sfumato e lei aveva voltato la faccia da un’altra parte.
Solo due ore più tardi Gabriel si accorgeva che la donna gli aveva teneramente mentito, cercando di mettere un cuscino tra la sua memoria e la realtà; si era sentita in dovere di dargli una manciata di parole confortanti prima di finire il suo turno e andarsene. Ora quelle parole suonavano come monetine elargite a un ragazzo sciocco che vuoi far stare zitto per un minuto.
Tutto era così alieno e diverso, che per un attimo gli venne in mente persino che non fosse la stessa città, ma qualche posto sconosciuto dov’era stato trasferito mentre agli occhi del mondo era morto.
Quella citta era cambiata, così tanto che non gli andava più, proprio come non gli andavano più i vestiti che doveva tenere insieme con bretelle e cinture, se no rischiava di perderli per strada.
Camminò su e giù per ore, cercando di capire cosa potesse mai aver cambiato così profondamente quel posto che una volta chiamava casa, e che ora lo faceva sentire come se fosse stato appena scaricato da un treno per una breve sosta prima di prendere la prossima connessione.
Qualcosa lo infastidiva e non riusciva a capire cosa fosse. Non solo le strade non erano più le stesse, ricoperte di uno scuro catrame puzzolente un po’ smangiato via dal caldo e che aveva conservato tutte le orme dei passanti come una gigantesca banca dati di impronte impresse l’una sull’altra all’infinito. Non solo il contorno delle case, che una volta lasciava il cielo libero sopra i tetti e concedeva al sole di fluire in un’incantevole resa alla luce tutte le mattine, ed ora erano ricoperte di mansarde e piani aggiunti a caso, seguendo qualche indecifrabile logica, come un maldestro lego di un bambino che non ha molta dimestichezza con le leggi della gravità. Nemmeno i colori violenti degli enormi cartelloni pubblicitari che coprivano i muri, le finestre, persino il pavimento con buffe foto di cose improbabili che i passanti erano invitati a comprare ad ogni passo.
Era piuttosto un vuoto, qualcosa che mancava dal cuore di quella città che non riconosceva più. Qualcosa che una volta aveva modellato anche il cuore della sua vita. È stato solo dopo ore e ore di vagabondare per le strade, attraversando con il suo corpo vecchio e stanco l’aria densa e pesante, come una grossa torta che doveva tagliare a piccoli pezzettini per poterla mandare giù, che tutt’ad’un tratto si accorse che non c’era più un posto in città dove poter comprare o sfogliare un libro.
Niente librerie, niente biblioteche, niente gente seduta su una panchina a leggere un buon libro, nemmeno bambini portando in spalla pesanti zaini da scuola, pieni di manuali colorati.
„Andiamo” disse, con una voce appena sussurata e incredula, „non possono aver bruciato tutti i libri in città!”
Come un cavaliere fuori tempo e fuori moda, cominciò quella caccia surreale al libro, che sembrava essere diventato più prezioso e più raro di un animale esotico.
„Un libro, gente. Solo un libro…”
Non importa quanto sottile o spesso, quanto fine o grezzo, bianco o giallastro, vecchio, che sa di polvere e umidità o nuovo, appena uscito dalla tipografia, odorando di inchiostro fresco e lettere di petrolio, bramava la pagina di un libro su cui passare le dita, con tocco voluttuoso, quasi morboso, in una sorta di feticcio di carta, come una donna che ti ha lasciato molto tempo prima, ma di cui stai ancora cercando un indumento, sia pure solo una giarrettiera, da annusare e stringere al petto nelle tue notti solitarie.
Per quanto riuscisse a ricordare, tutta la sua vita era scorsa sulle pagine di un libro o un altro, momenti buoni o cattivi del suo passato erano tutti collegati a libri e lì vi erano rimasti, come fiori secchi dimenticati tra le coperte e spuntati fuori all’improvviso anni dopo.
Il suo primo amore, mai confessato nè condiviso, così segreto che non aveva mai preso la forma delle parole sulle sua labbra, avevano trovato un generoso rifugio sui margini di un libro di poesia, riempito di minuscule rime scritte a mano con un colpevole mozzicone di matita. E non poteva che essere così, dato che il suo grande amore lo guardava da dietro una cattedra e guidava un macchinone e viveva due strade più giù con un cane grasso, un bambino piccolo e un marito robusto.
Sette anni più tardi, l’amore non era più soltanto qualcosa a cui sognare sui margini dei libri, ma era diventato roba vera che poteva sentire con le mani come fosse plastilina; ed era stato proprio nella biblioteca della scuola che aveva fatto l’amore per la prima volta. Con mani febrili e affamate aveva tolto i vestiti di Nora come si toglie la crosta del pane caldo per assaggiarne la soffice mollica. Ricordava ancora che non era riuscito a fare a meno di scoppiare a ridere quando si era accorto che, nuda davanti a lui, si era tenuta su solo gli occhiali: lei si era offesa tanto da scoppiare in lacrime.
Poi l’offesa di lei e la risata di lui si erano fuse insieme in un lungo baccio che sapeva ancora di gomma da masticare e cioccolato, mentre i loro corpi giovani cominciavano a odorare di piacere adulto e misteriosi profumi che si alzavano dai loro luoghi nascosti mentre si scoprivano l’un l’altra.
Non sapevano bene dove mettere le mani e le muovevano maldestre sulla pelle dell’altro come topolini che cercavano una tana per nascondersi.
Ma lui aveva trovato ciò che doveva trovare con una sorta di dolce ostinazione, mentre la virginità della ragazza scivolava via e si smarriva tra manuali e quaderni e mappe e regole ferree e atti segreti e antichi peccati.
Gemettero insieme per il primo brivido di piacere, non proprio un orgasmo, come avrebbe capito in seguito, ma una leggera vibrazione nascosta, un remoto punto di non ritorno, quasi che di colpo fossero rinati in un mondo diverso, come Alice nel paese delle meraviglie.
Non ricordava se ci avessero passato cinque minuti o cinque ore in quel ripostiglio, come se il tempo fosse diventato simile alla loro gomma americana e si potesse masticare e allungare a piacimento. Ma ricordava che, prima di essere risucchiati di nuovo dai corridoi austeri del colleggio di San Martino, si erano scambiati un libro da tenere come ricordo per tutta la vita. Quel mattino tiepido di aprile, mentre i raggi del sole filtravano delicatamente dalle tapparelle ingiallite e i loro cuori pulsavano sotto le pelle sudata, quei due libri avevano il significato di insolite fedi nuziali destinate a sigillare il loro amore per l’eternità.
Se lo portava ovunque quel libro. Era sopravvissuto a tutti i traslochi in paese e a tutte le trasferte all’estero.
Quando, anni più tardi, aveva sposato Julienne, con veri abiti bianchi, un chiesa vera addobbata di gigli e rose, e un prete in carne e ossa per dare loro la benedizione, la cerimonia non aveva lo stesso sapore genuino e le fedi nuziali, seppure luccicanti d’oro e diamanti, non avevano lo stesso valore dei libriccini rilegati in pelle finta.
Con il tempo, piccole macchie di caffè, tabacco e dita stanche erano cominciate a spuntare qua e là, cambiando lentamente la geografia delle pagini, ma questo aveva reso il libro ancora più prezioso, come un abito preferito che hai indossato a lungo: pur slavato e rammendato un’infinità di volte, non aveva il cuore di darlo via ed era diventato parte di sè.
„È lì la biblioteca”, gli disse un giovane elegante, indicandogli un fabbricato quadrato in fondo alla via, marrone con persiane verdi, un po’ sopreso dalla sua domanda a guardandolo con insistenza più volte prima di allontanarsi. Già, avrebbe potuto vederla da solo: la piccola costruzione era giusto di fronte a lui, e due schermate stavano facendo vedere immagini colorate di libri che si succedevano instancabili davanti ai suoi occhi.
Gabriel entrò in quello che gli sembrava un edificio mediocre con una certa stretta al cuore. Quel blocco non poteva essere una biblioteca! Non ci sarebbe stato abbastanza spazio nemmeno per qualche rivista, figuriamoci per centinaia di libri che uno si aspetterebbe di trovare anche nella più piccola delle biblioteche.
„Che diavolo è questo?” chiese, con voce sconvolta e incredula, seppure in giro non ci fosse nessuno a rispondere alla sua domanda.
Decine di schermi di tutte le dimensioni erano distribuiti attorno, sulle pareti, sui tavoli, persino sulla porta vicino all’ingresso principale. Uno sguardo fugace in giro e presto si accorse che erano tutti archivi, proprio come quelli che era abituato a consultare quando entrava nelle grandi biblioteche pubbliche di una volta, ma al posto delle schede di carta c’erano icone sui monitor.
Non era mai stato un brillante utente dei computer ma non ce n’era bisogno, perchè tutti gli strumenti erano estremamente facili da usare. Bastava toccare lo schermo e ripiani di libri virtuali saltavano fuori, pronti a servirti ad oltranza con questo o quell’altro volume, arricchito di informazioni sull’autore, i premi vinti, articoli scritti sull’argomento ed eventi che lo riguardavano.
C’era persino la mail dell’autore dove uno poteva lasciare un suo commento se lo voleva. La stanza odorava di lampadine bruciate e polvere e un brusio leggero impregnava l’aria, saturandola di un suono strano, come se il silenzio non esistesse più e fosse stato rimpiazzato da un surrogato di rumore elettronico di fondo che era ormai diventato parte della loro quotidianità e dovevano aggiustare tutte le altre cose della vita su quello sfondo.
„Sono troppo vecchio per tutto questo…” sussurò, e, desolato, uscì per tornare in strada.
Non c’era più niente per lui lì dentro, tutto quel reame di sapere elettronico e tecnologia, grande abbastanza da contenere tutte le biblioteche del mondo, non era abbastanza capiente per accogliere il corpo provato e rimpicciolito di un insegnante di ottant’anni.
Si avviò verso la strada principale, senza meta e scoraggiato come un cane randaggio, fermandosi di tanto in tanto a leggere i cartelloni pubblicitari sulle vetrine, o i menu appesi davanti ai ristoranti, ammagliato dalla consistenza della carta come un bambino sarebbe ammagliato da un millefoglie in una pasticceria. Era finita. Non più libri da leggere su un treno o alla fermata di un autobus, in una sala d’attesa o in pace nella propria casa. Ecco perchè aveva visto tutta quella gente portare in giro oggetti di plastica compatta, metà telefoni metà computer, che aprivano e consultavano come fossero delle piccole agende preziose.
„Sono troppo vecchio per questo” continuava a ripetere, mentre camminava verso i capannoni abbandonati giù in periferia, cercando di ricordare cosa ci fosse lì dentro prima del suo incidente. Si stava alzando il vento e piccoli pezzi di lamiere e fili metallici che pendevano fuori dai container della spazzatura facevano un rumore strano, come un pezzo stonato di musica moderna.
Tutte le budella della città sembravano radunate insieme e ammassate in quei container arrugginiti dispersi ovunque lungo il porto, inutili e desolati come avanzi nella sala operatoria din un ospedale.
Stava camminando in mezzo a tutto quello, in uno slalom infantile, e stranamente si sentiva un po’ a casa, come se, di fatto, anche lui fosse un solo avanzo organico, non più necessario e dunque scaricato in periferia, aspettando che qualcuno decidesse in quale categoria di immondizia andava messo.
C’erano persino parti di una chitarra e un pezzo slabbrato di un tamburo africano. Sorrise, cercando un posto dove sedersi e tirare il fiato. Dopo tutto, tutto quello sapeva davvero un po’ di casa. Si accese una sigaretta e lasciò che il fumo penetrasse il suo corpo con il suo odore pungente. Si chiese dove andasse buttato il suo fiammifero bruciato a metà tra tutti quei container ben organizzati. Radunati insieme in fianco a un container di batterie usate c’erano delle cassette di legno, vecchi pallet, conserve vuote e…
No, non poteva credere ai suoi occhi: sotto le schegge di legno, stroppicciato e ingiallito dall’umidità e dallo sporco, eppure ancora pulito e chiaro, c’era un libro. Spostò tutti gli strati di spazzatura e lo tirò fuori, con cura, attento a non sciuparlo, come se fosse un uccello ferito. Spazzò via la polvere e usò il suo fazzoletto per pulirlo.
Era una vecchia edizione di „Tempi difficili”, con un segnalibro rosa ancora racchiuso tra le sue pagine.
Aprì la giacca o lo mise dentro, come avrebbe fatto con un bambino che doveva proteggere dal freddo e dalla pioggia, guardandosi in giro con occhi guardinghi, come per assicurarsi che nessuno l’avvesse visto e nessuno potesse reclamare le preziosa refurtiva.
Se questo era l’ultimo libro, lui l’avebbe salvato, pensò.
Poi insegnante e libro si incamminarono di nuovo verso la città, dissolvendosi tra le pieghe dei tempi andati con passo lento, con un suono delicato e soffice, simile al familiare fruscio delle pagine sfogliate di un libro.

Versione italiana di Ingrid Beatrice Coman

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Anno 8, Numero 35
March 2012

 

 

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