El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

Nota biografica | Versione lettura |

sul ciglio della strada

sabina macchiavelli

L’agosto più caldo che dio abbia mandato in terra. La Saxo non l’ha sopportato, la spia rossa dell’acqua si è accesa, il cofano ha cominciato a fumare.
“Ci risiamo.”
Gli torna in mente la facciotta rubizza di Gianni il meccanico mentre gli diceva: “Tutto a posto, Defatigato, non preoccuparti, era solo il tappo del radiatore che non teneva. Ci puoi andare in ferie tranquillo.”
E un paio di altre cose gli passano per la testa. Primo, con la macchina non deve andarci in ferie ma a trovare il responsabile CED della Bigattelli s.a.s, che deve essere l’unica ditta nel mondo aperta la vigilia di ferragosto. Secondo, se avesse riflettuto al fatto che Gianni il meccanico passa più tempo a imbottigliare il barbera dei colli bolognesi che a sporcarsi le mani di grasso, forse qualche dubbio gli sarebbe rimasto. E invece aveva preso le due bottiglie che Gianni gli porgeva, “Così festeggi con la tua morosa”, e l’aveva guardato allontanarsi ballonzolando sul piazzale dell’officina.
Ora con le due bottiglie, chiuse nel baule, può farci un buon vin brulé. Quando torna a recuperare l’auto. La provinciale 78, che collega Spilamberto a Bazzano, sprofonda nella bassa modenese raccogliendone tutto il calore per riversarlo, a fine stagione, sui campi riarsi e le sparute casupole circondate da siepi tenaci. A Magazzino, quattro palazzine con qualche fantasma di vecchio e una bottega-bar-tabacchi, Costantino ha chiesto di un’autofficina. I fantasmi l’hanno guardato con l’aria di chi fruga nella memoria alla ricerca di leggendari eventi passati. “Qui non ce n’è” gli risponde per tutti l’oste-droghiere-tabaccaio pulendosi le mani nel grembiale unto di salume. “Ma se aspetta le cinque arriva Gualtiero col camion del latte e ci può dare un passaggio fino a Bazzano.”
Costantino guarda l’orologio. Sono le due. “Be’, grazie. Intanto m’incammino.”
Il camion delle cinque deve essere un grande evento per la comunità: da mezz’ora non passa autoveicolo vivo. Solo un motorino, che ronzandogli accanto ha suonato il clacson. Defatigato ha alzato la testa in un improvviso e immotivato guizzo di speranza e il passeggero girandosi l’ha salutato con la mano. Anche Costantino che cammina lungo il ciglio della strada sotto la canicola dev’essere un grande evento per la comunità.
Il paesaggio scivola via lento e piatto, baluginando a tratti nel riverbero. Costantino si ferma, pesca nelle tasche della giacca un fazzoletto sgualcito e si asciuga la faccia. Bella idea essersi fatto crescere la barba in agosto. I filari di tozzi alberi da frutto si alternano alle linee sottili delle viti. Di tanto in tanto, avvisi di “vendita pesche e susine” indicano rarefatti casali persi in fondo a stradelli bianchi per l’arsura. Un campo di stoppie dove qualche girasole ha ormai perso il senso dell’orientamento si arresta secco contro un’alta siepe di ligustri dalle perfette geometrie, a proteggere da sguardi invidiosi la vecchia villa di qualche notabile del luogo. Il fazzoletto ormai fradicio ripassa inutilmente sulle tempie del pellegrino.

Il rumore di un’auto scarburata in avvicinamento spezza la monotonia del coro di cicale. La macchina rallenta con un ringhio e si mette a passo d’uomo.
“Ciao. Come stai?” gli fa un viso vagamente mediorientale sporgendosi dal posto di guida.
“Eh, insomma…” comincia l’interpellato con la bocca impastata di caldo e sete.
“Vuoi prendere?” lo interrompe il guidatore indicando col capo un borsone sul sedile posteriore. “Camicie, mutande, jeans da uomo… Anche calzini… Tutta roba buona… Tutta di Napoli. Roba di qualità…”
Costantino si ferma e scruta dentro la macchina. Si toglie la giacca e ci asciuga il sudore dalle labbra. “Senta, mi piacerebbe molto comprare un paio di mutande di Napoli, ma adesso non è il momento. Sono rimasto a piedi e devo…”
“Tu vai a Bazzano?” lo interrompe di nuovo il guidatore. “Vuoi un passaggio.” Non è una domanda.
Defatigato guarda l’auto, una Renault 5 degli anni ’80, che ruggisce come può mentre il conducente cerca di tenere su di giri il motore, guarda di nuovo lo straniero, e si dice che tanto vale. Apre la portiera. “Grazie” dice accasciandosi sul sedile.

L’R5 borbotta lungo la provinciale. A destra e a sinistra campi piatti, polverosi, ma il paesaggio comincia ad animarsi: sparse villette con giardino, qualche magazzino, cortili con auto in sosta sotto il sole. Viuzze dall’asfalto sconnesso arrancano verso tozze case coloniche.
“Di dove viene?” chiede Costantino.
“Di Marocco.”
“Quale città?”
“Berrechid.”
“Ah.”
Il giovane lo guarda. “Vicino Casablanca” Il suo sorriso ha qualcosa di canzonatorio.
“Casablanca, sì…” fa Costantino con sollievo, consolato nella sua perfetta ignoranza da qualche vago ricordo cinematografico.
“E da quanto tempo è qui?”
“Dieci mesi. Lavoro.”
Dall’altra parte della strada, un enorme cartello piantato su pali di legno esibisce: “Festa del PD a Savignano sul Panaro 31 / 8 – 8 / 9”, segue elenco degli incontri e iniziative di grido.
“Come ti chiami?”
“Costantino. E tu?”
“Mustafa… Come ‘Stefano’ in Italiano. Puoi chiamare Stefano.”
Sorride scoprendo due incisivi lievemente sbrecciati. L’occhio destro, velato come se l’iride castano chiaro sfumasse impercettibilmente nella cornea, è semichiuso e per vederci Mustafa solleva un po’ il mento e guarda l’interlocutore da sotto la palpebra calata.
Si accorge dell’attenzione di Costantino.
“Questo?” dice indicando l’occhio “È malato. Devo operare.” Mette la freccia a destra e si arresta all’incrocio con la Vignolese. Di colpo il suo viso si irrigidisce. L’occhio si fa più vitreo nello sforzo di vedere in direzione di Bazzano.
“Merde” mormora.
Ingrana la prima e sterza tutto a sinistra.
“Dove...?” fa Costantino stringendo la maniglia della portiera. “Dove vai? Dobbiamo andare dall’altra parte.”
“Polizia.” Il passeggero gli lancia un’occhiata allibita. “Pula… Questura…” ripete.
A Casale California, ferma l’auto nel piazzale.
“Che succede?”
“La polizia” e fa il segno della pistola con pollice e indice. “Controllo. Documenti. Per favore, porti macchina a Bazzano.” Apre la portiera, scende, apre dietro e scarica il borsone. “Conosci Bar di Fior di Loto? Ci vediamo lì.”
Costantino, che non aveva mosso un muscolo, di colpo si scuote. “Eh no, senti, Moamed come ti chiami… Non so neanche chi sei, di chi è questa macchina…”
“Mustafa. Non Mohamed. Stefano. Macchina è di mio amico, tutto regolare, pas de problème. Ci vediamo fra poco.” Mette il borsone a tracolla, si volta, attraversa di corsa e imbocca uno stradello che gira dietro la trattoria.

Costantino si accorge di essere incollato al sedile. Scende, appoggia sullo schienale la giacca sgualcita che aveva tenuto accartocciata in grembo e si ripassa il fazzoletto sulla fronte. Una rapida ricognizione alla carrozzeria. “Di mio amico. Tutto regolare” borbotta. “Paprobleem. Paprobleem ’sto cazzo. E adesso?”
E adesso gli conviene risalire e far inversione. Mentre caracolla verso Bazzano, pensa che era meglio aspettare Gualtiero il lattaio, poi che era meglio non lavorare il 14 agosto, poi che la laurea in filosofia era meglio metterla a miglior frutto. Poi che aveva ragione la mamma, di contadini ce n’è sempre bisogno. E così immerso in riflessioni sulla vocazione agraria del Mezzogiorno e sull’importanza di non abbandonare le tradizioni di famiglia, a malapena s’accorge della palettina bianca e rossa che il funzionario della stradale gli fa ondeggiare con grazia davanti al parabrezza. Accosta e tira giù il vetro. È un ufficiale alto e prestante nella sua divisa ben stirata, come fosse uscito da un film. Scruta Costantino da sotto la visiera. “Buongiorno. Patente e libretto.”
“È successo qualcosa?” chiede Defatigato per prendere tempo. Fruga nel cruscotto pregando dio, poi si ricorda di avere abiurato subito dopo la prima comunione e di essere stato iscritto per un anno a DP. “Cosa è successo?”
“No, chiedevo. Mi avete fermato e…” Che strategia. Trova il libretto di circolazione e tira un sospiro di sollievo.
“Controllo di routine” fa l’ufficiale, un lieve tono di compatimento nella voce. Si allontana coi documenti. Giusto il tempo per Costantino di sudare sette camicie.
L’uomo ritorna e, battendo col libretto sul finestrino abbassato, chiede: “Chi sarebbe questo Said Al-Gahir intestatario dell’auto?”
“Said…? È…” La voce gli si spegne dietro al pomo d’Adamo. Costantino si schiarisce la gola. “… È un amico. Mi ha prestato la macchina perché sono rimasto a piedi qui a Magazzino e…”
“Vada, vada” e gli porge i documenti. Sempre con quel lieve tono di compatimento.

Al Fior di Loto Mustafa lo sta già aspettando, seduto a un tavolo del giardinetto con il borsone poggiato accanto. Come ha fatto ad arrivare prima di lui, a piedi e con un carico, rimarrà un mistero.
“Ciao amico!” gli grida alzando il braccio in gesto di saluto.
Costantino si avvicina e non si siede.
“La polizia mi ha fermato.”
“Lo sapevo. Per questo sono sceso.”
“Sei impazzito? Mi lasci lì da solo nei casini con la macchina di chissà chi...”
Mustafa ride. “Io nei casini, non tu.” Si gira verso il tavolo accanto, occupato da altri stranieri, e scambia una serie di battute in una voce gutturale, sonora, che gratta le orecchie di Costantino come una beffarda cantilena. Ridono scoprendo i denti bianchi e guardano l’italiano appena arrivato.
“Ti presento miei amici” fa Mustafa. “Dicono che sono fortunato che tu eri lì.”
Defatigato si siede.
“Bevi,italiano?” chiede uno dell’altro tavolo, uno spilungone dai capelli ricci e la barba incolta. E fissa Costantino con aria strafottente.
“Ci penso io, grazie” e fa per alzarsi.
Lo spilungone gli passa dietro e lo trattiene con una mano sulla spalla.
“Ghadi n’khales alek tachrab leanak saâdti sadiki.”
Costantino guarda Mustafa con aria stranita. “Dice che vuole pagare da bere lui perché hai aiutato.”

L’ombra dei tigli, un tè ghiacciato, un lieve refolo che di tanto in tanto mitiga la calura: si comincia a ragionare.
“Tu non hai… È per questo che…?”
“Io sans papiers. Irregolare.”
Permesso di soggiorno, immigrato, cpt, badante, flussi, regolarizzazione. Extracomunitario. Clandestino. Illegale.
Le parole turbinano nella testa di Costantino dandogli la vertigine. Davanti a lui stanno le frasi dei tg e dei titoli di giornale: uscite dall’universo piatto ed inerte dello schermo e della carta stampata, hanno preso forma e dimensione, rapprendendosi in un volto bruno dall’occhio semichiuso e dal lieve sorriso beffardo. E hanno preso partito, hanno preso posizione, non permettono più ascolto distratto o sbiadita attenzione. E assieme a questa irruzione di un mondo nell’altro, in un lontano recesso della coscienza si acquatta, imprecisa e sfumata, una sensazione come di allarme.
Le parole, che sono forme, dimensioni e corpi e volti, si susseguono in un italiano frammentato, secco, fatto di sillabe coagulate in cui s’incunea prepotente il ricordo della lingua d’origine. Parlano di soldi, molti soldi, troppi anche per un italiano, raccolti fra i parenti, e di un viaggio lungo infinito, in cui tutti tranne Mustafa avevano da guadagnare. Una barca che, passando al largo dello Stretto di Gibilterra, approdava a Cadice. Un’attesa di giorni e giorni, settimane, all’addiaccio, infrattati fra gli arbusti costieri. Un camion-frigo che trasportava uomini anziché surgelati. Fermate improvvise, discese a precipizio, altre attese, spintoni, imprecazioni, minacce. Armi. Silenzi. L’arrivo a Valencia e la promessa di un buon lavoro e una buona paga, e denaro, tanto denaro da riportare a casa.
Qualche impiego alla giornata, notti spese dentro vagoni fantasma su binari morti, i pasti caldi della Caritas spagnola, i capannoni dove si organizzava il lavoro nero.
Poi finalmente il pensiero dell’Italia. L’Italia amica, paese di poeti, artisti e navigatori, dove era facile diventare ricchi, bastava andare in televisione e vincere un quiz a premi, dove le ragazze erano tutte belle, seminude e sorridenti come le veline dei varietà. L’Italia bagnata da un sole e da un mare che Mustafa conosceva, abitata da gente simile alla sua, “una faccia una razza”… Abbastanza vicina da poterci arrivare con un ultimo sforzo, un ultimo viaggio chiusi dentro un bunker come vacche al macello, gli ultimi soldi spesi per tributo alla libertà.

“Volete altlo?” La piccola barista, col vassoio sotto il braccio, ha una voce cristallina, sottile. Gli occhi a mandorla si fissano su Costantino, vuoti come quelli di una bambola di porcellana.
“No, grazie.” La voce che le risponde è lenta e roca per il lungo silenzio. La piccola barista comincia a ritirare i bicchieri e pulire il posacenere. Costantino si schiarisce la gola.
“E in Italia hai lavorato?”
“Sì, qualcosa. Pomodori, frutta. Anche facchino in una fabbrica. Ma il padrone ha sempre licenziato perché c’è poco lavoro. Ma ora amico marocchino ha detto che mi presenta una persona importante e sicuramente ha lavoro per me.”
“Che lavoro?”
“Un travail très bien et beaucoup, beaucoup d’argent.” Mustafa si china verso l’italiano. “Mio amico guadagna bene, ha un appartamento da solo e una macchina, e manda sempre i soldi a casa.” Si riappoggia allo schienale, gambe allungate, e osserva Costantino con un mezzo sorriso. Ancora quell’aria di lieve strafottenza che gli fa salire il sangue alla testa. “Ah Italia! Bel paese dove gente vive bene!”
“Sì, bene…”
Mustafa gli si avvicina di nuovo. “Tu hai casa? Hai macchina? Hai donna? Vai al ristorante?... Dunque vivi bene.”
La corriera sgasa verso la stazione. Un clacson incrocia i passi di un pedone che gesticola indicando prima le strisce, poi il giallo lampeggiante. Ordinatamente le auto chiudono il cerchio intorno alla rotatoria, rallentano, danno la precedenza, s’immettono. Il tollerante SUV passa incapsulando autista con telefonino. Il fumo di scarico intorpidisce l’odore dei tigli con un acre retrogusto che si appiglia alle narici. Un trio dal passo brioso accede al giardinetto, due vestiti da manager e una vestita da segretaria del manager. Ridono, scambiandosi battute con telegeniche movenze. Quella vestita da segretaria del manager è una ragazzina. Davanti ai tavoli degli stranieri, rallenta impercettibilmente e china il capo a scrutarsi la gonna, ne solleva le balze con le mani per sistemare la piega, scopre le cosce, un lieve sorriso di approvazione le scorre sul viso, e con passo spedito riguadagna l’ingresso del bar, dove già quelli vestiti da manager stanno ordinando. Gli amici del marocchino si alzano.
“Ila alekaâ Mustafa hata al Ghad. Ciao, italiano” fa lo spilungone.
“Anch’io bisogna che vada.” Costantino allontana la sedia dal tavolo.
“Vai? È presto. Vigilia della festa, non si lavora, si sta al bar con amici, a parlare, guardare belle donne… Non è così in Italia?”
“Be’, non so, non ho molta esperienza di vita da bar… Devo prendere la corriera, se no non arrivo più a casa…”
“Porto io.”
“Grazie, ma la corriera mi scarica a due passi da casa.”
“La macchina è più comoda.”
“Guarda che sto lontano, a Bologna. Se poi la polizia ti ferma di nuovo…”
“Tranquillo. Conosco le strade dove non è mai polizia. Con questo lavoro” tocca il borsone per terra “devo sempre girare.”

L’R5 borbotta rauca incuneandosi nel traffico delle cinque e mezza, che già in via Emilia Ponente si blocca ogni trenta secondi per gli ingorghi agli incroci e ai semafori.
“Te piace vivere in città?”
“Be’, cosa vuoi, piacere proprio… non so. Come si usa dire: è comodo. Poi mi ricorda quando andavo all’università, i posti, la gente… Magari un po’ cambiati, ma insomma, quelli sono.”
“Università… Bello! Abitato per un po’ in zona universitaria, a casa di Seddik. Hai visto al bar: quello basso con la barba nera, sempre in silenzio. Eravamo cinque in una stanza, con bagno sul pianerottolo e il fornello del camping. Tutte le sere fuori a bere la birra, in piazza Verdi. C’è tanta gente, sono un po’… come dici?” Si batte con l’indice sulla fronte e ride sgangherato. “… suonati, si dice così? Rompono bottiglie, cantano, si urlano… Quelli barboni ti offrono la sigaretta. Anche molti studenti, seduti sotto i portici.” L’occhio destro guarda di sbieco Costantino e un sorriso sornione si stampa sulla faccia rotonda. “… Fanno le canne…”
“Sai che novità…”
“Anch’io qualche volta ho fatto. Dopo sei tranquillo, dormi bene.”
“Immagino.”
“Mi diverto. Piazza Verdi mi diverto.”
“Non la pensano così i signori che vanno al Comunale.”
“Le sere quando c’è spettacolo non andiamo, troppa pulla in giro. Eh, peccato che ora non sono più lì.”
“E dove stai?”
Mustafa rimane in silenzio qualche istante, come riflettendo sulle parole da usare, poi annuisce fra sé.
“Un giorno viene padrone di stanza, vede cinque persone dentro, prende Seddik fuori dalla porta e parla, parla, sentiamo che sempre lui parla. Seddik è molto molto silenzioso. Padrone parla, scende le scale e continua a parlare, esce in strada e ancora parla, sentiamo dalla finestra. Seddik rientra e dice in arabo: ‘Signor Cubini molto incazato.’ Incazato dice in italiano. ‘Dovete andare via. Casa è affittata solo a me e al tunisino.’ Così sono andato.” Indica col pollice della destra i sedili posteriori. “Ho mia valigia nel baule. Questa mia casa ora.” Ride.
Che ci sarà mai da ridere?

L’R5 arriva sui viali e gira verso la stazione.
Mustafa gesticola con la sinistra verso Piazzale Medaglie d’Oro.
“Io sono fortunato che ho macchina. Non dormo lì come miei compagni.”
Costantino si ricorda di averci dormito una notte vent’anni fa, perché il posto letto che affittava in via dell’Unione si liberava solo il giorno dopo. Ci ha dormito una notte e gli è bastato.
Si ricorda di quando è arrivato, matricola, a Bologna. Si ricorda dei portici su via Zamboni, dei muri rossi e della giunta cremisi, in cui pure i giovani pischelli riponevano speranze di giustizia ed equità sociale. Si ricorda dei compagni di corso che, per arrotondare la borsa di studio, infilavano piccoli involucri fra i rami delle verdeggianti siepi in vaso di fronte all’entrata del Comunale, svicolando poi rapidamente in via Del Guasto. Si ricorda delle pareti con gli slogan di Mao nelle aule della Pantera, e si ricorda di altri muri, verso il ponte di San Donato, che dicevano: “viva la lega. marocchini di merda tornate al sud.” Si ricorda di Eugenio Baccolini detto Baco, l’unico che non solo ci capiva di filosofia, ma riusciva pure, con pertinenti citazioni e articolate disamine, a sciogliere le resistenze delle più gnocche della facoltà. E si ricorda di quel tale Filippo di Bentivoglio (il paese, non il cognome), figlio di una cuaffos e di un carrozziere, che pur di non fare il meccanico sulle orme paterne si era iscritto a ingegneria promettendo di diventare un giorno menager dell’azienda familiare e che l’aveva ospitato il primo anno nel sottotetto di 40 metri quadri, subaffittandogli il posto letto nel cucinotto e chiudendolo nell’armadio a muro quella volta al mese che la padrona di casa veniva a ritirare la pigione, finché Costantino non aveva malauguratamente starnutito proprio mentre il locatario stava dicendo alla locatrice “Non si preoccupi signora, qui è tutto tranquillo, ci vediamo fra trenta giorni.”

“Per qualche giorno ti puoi sistemare da me. Ho una branda in soggiorno. Meglio di questi sedili…” e Costantino muove le chiappe producendo un cigolio seguito da un plong di molla rotta.
“Da te? In appartamento del centro di Bologna?”
“Preferivi la villa di campagna?”
“Tua villa di campagna? Ah ah ah!” Questa volta la risata di Mustafa è diretta e poco allusiva. Chissà perché l’amico considera tanto ilare l’idea di un Defatigato dotato di seconda casa.
Al 33 di via Broccaindosso la Renault stride e si ferma.
Costantino prende la giacca dal sedile posteriore e scende. Prima di chiudere la portiera si china: “E allora?” dice.
“Allora… non conosci pacchetto sicurezza di legge 733? Se italiano ospita immigrato irregolare è condannato per favorimento di immigrazione clandestina…”
“… e rischia l’arresto da tre mesi a sei anni e una multa fino a 5 mila euro. Ho la televisione. Scarica le borse e va’ a parcheggiare. Suona ‘Defatigato’, terzo piano.”
“Sfaticato?”
“Sì, anche quello.”
L’R5 ruggisce e si avvia lenta, sgasando una nuvola di fumo acre e denso che entra sotto il portico e ristagna ad altezza di naso.
Costantino cerca le chiavi nella tasca dei calzoni. Guarda i campanelli e, al livello del terzo piano, la sua targhetta sbiadita. “Si legge poco. Sfaticato.” Sorride. “Dovrò farla cambiare.”

Inizio pagina

Home | Archivio | Cerca

Archivio

Anno 8, Numero 35
March 2012

 

 

©2003-2014 El-Ghibli.org
Chi siamo | Contatti | Archivio | Notizie | Links