El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

Nota biografica | Versione lettura |

le voci femminili della diaspora somala nella letteratura italiana

michele pandolfo

Dopo aver preso in considerazione alcuni strumenti concettuali elaborati all’interno dell’ambito degli studi postcoloniali e averli fatti reagire con la peculiare situazione italiana, ora concentrerò la mia attenzione sugli esempi testuali che ho voluto portare all’esame della mia ricerca. Prima però sarà meglio chiarire la situazione odierna della Somalia, in particolare ricordandone in brevi punti la storia fino ad arrivare al suo attuale stato di anarchia, che ha favorito la diffusione di una diaspora somala in Italia che comprende alcune voci di femminili che mi preme segnalare all’attenzione della società italiana. Tra queste voci sicuramente emergono le due maggiori che ho già avuto modo di anticipare in precedenza ma che qui ora mi soffermerò ad analizzare nel dettaglio: Cristina Ubax Ali Farah e Igiaba Scego. Le esperienze biografiche e le opere di queste due scrittrici italiane di origine somala rappresentano le voci più autorevoli della diaspora somala nel panorama italiano. La lettura e l’analisi dei loro romanzi, dei loro racconti e dei loro articoli permette di comprendere quanto la loro scrittura sia radicata nella cultura italiana, pur mantenendo sempre uno sguardo rivolto alla loro terra d’origine, la Somalia. Nel loro lavoro evidenzierò prima di tutto la questione della diaspora, poi quella del genere e del mondo femminile, di seguito il difficile tema dell’identità e infine la particolare e nuova declinazione che queste scrittrici stanno dando alla nozione di impegno nella cultura italiana contemporanea.

1. La Somalia, come ho già illustrato nei capitoli precedenti e nonostante la maggior parte degli/delle italiani/italiane lo ignorino, è stata la seconda colonia italiana, fondata pochi anni dopo la colonia d’Eritrea, sorta nel 1890. Come ho ricordato, l’interesse dell’Italia per la Somalia è antico, risale alle origini del colonialismo italiano, quando negli anni Ottanta dell’Ottocento l’Italia vide nelle terre somale una possibilità di ampliamento dei propri domini coloniali. Le parole di Nuruddin Farah, oggi considerato il più grande scrittore somalo contemporaneo, nel suo reportage Rifugiati. Voci della diaspora somala sono pesantissime nel giudizio che egli esprime nei confronti del colonialismo italiano:

Il colonialismo italiano fu disastroso, umiliante, una storia tragica che si concluse in un cul-de-sac. A sentir loro, gli italiani sono convinti che il loro colonialismo fu meno brutale di quello francese o inglese. Io ne dubito, dato che, in quanto colonizzatori, svilirono le persone che assoggettarono, considerandole non esseri umani, bensì, come dicevano loro, “negri”, creature primitive, incivili, alla pari delle bestie della giungla. Fu solo dopo aver fallito il tentativo di espandersi verso ovest, con l’idea di realizzare un impero del Corno d’Africa, che l’Italia consolidò il proprio dominio in Somalia. In seguito, aveva intrapreso una politica di accordi, firmando vari trattati non con i sultani locali, la cui sovranità sui territori occupati i colonizzatori avevano ignorato del tutto, ma piuttosto con le altre potenze imperiali, con le quali contribuì a spartirsi il continente africano in fette che avrebbero dato vita ai disordini successivi. I somali altro non erano che una massa di individui subordinati alla potenza coloniale, ai quali non veniva concesso nulla all’infuori di un’ignobile designazione 1.

Nuruddin Farah inserisce dunque il colonialismo italiano all’interno della cerchia degli altri poteri coloniali e gli assegna quel potere distruttivo che ha avuto e che ancora oggi non decide ad assumersi, facendo risalire anche al periodo del colonialismo italiano parte della responsabilità della situazione odierna della sua Somalia. È una testimonianza diretta della falsità del mito che gli italiani in Africa si siano comportati come “brava gente”, favorendo la costruzione di strade, ferrovie, scuole e ospedali; un modello falso di dominio coloniale che aveva lo scopo di nascondere il potere autoritario dimostrato dagli italiani in quelle terre, come ci ha aiutato a scoprire Angelo Del Boca nel suo saggio Italiani brava gente? Un mito duro a morire, dove lo storico ricerca la genesi di questo stereotipo:

Sin dall’inizio, disponendo di pochi mezzi e di scarse idee, l’Italia cercava di imporsi esibendo il proprio splendido passato di portatrice di civiltà e sottolineando in tutte le occasioni la sua diversità. In altre parole, si voleva subito stabilire che gli italiani erano differenti dagli altri colonizzatori, più umani, più tolleranti, più generosi. Anche se il generale Baldissera aveva usato i metodi forti per impadronirsi di Asmara, tanto che Filippo Turati lo accusava di aver dato l’avvio al «periodo del terrore in Africa» e lo definiva «quel cane di Baldissera», nondimeno cominciava ad affermarsi nella colonia la locuzione di «italiano buono», tradotta nel linguaggio locale in «bono italiano» 2.

Questo mito si afferma quindi già negli ultimi anni dell’Ottocento, quando gli italiani si prodigarono a trasmettere in Africa una positiva immagine di mitezza, cordialità e generosità; la stessa immagine stereotipata che si diffuse nel secondo dopoguerra e che aiutò, nonostante la sconfitta militare, a nascondere la verità sui crimini commessi dagli italiani nelle colonie africane.
L’oggetto della mia proposta di analisi del fenomeno letterario rappresentato da Cristina Ali Farah e Igiaba Scego ruota attorno al termine della diaspora, che rappresenta un movimento continuo che non ha ancora possibilità di ritorno. Da qui può iniziare un ragionamento che mi porta a dire come questa situazione diasporica della realtà somala rappresenti l’attuale condizione postcoloniale italiana. Condizione che gli/le italiani/e non riescono ancora né a percepire né a considerare. La diaspora si inserisce a perfezione in quel movimento descritto da James Clifford quando parla di “abitare nel viaggio”, sottolineando il fatto che tutte le popolazioni del nostro oggi sono caratterizzate da un costante movimento di persone, tradizioni, lingue e idee. Quella somala è un’esperienza totalizzante da questo punto di vista, in quanto ormai da molti anni i somali si sono dispersi nel mondo continuando a coltivare una rete di rapporti che ha mantenuto comunque una forma identitaria comune, nonostante le precarie condizioni di vita. In questo modo, proprio lungo i viaggi e le peregrinazioni compiuti dai/dalle somali/somale, ha continuato a vivere e a diffondersi la cultura somala nelle sue varie rappresentazioni letterarie. Le voci della dispora somala presenti in Italia sono connotate al femminile e rappresentano l’eredità del passato coloniale italiano che è stato dimenticato e ignorato. Uno degli obiettivi che le scrittrici italiane di origine somala si propongono è quello, in primo luogo, di far riaffiorare la memoria del passato coloniale italiano e successivamente quello di far conoscere e accettare questa postcolonialità di ritorno che l’Italia non si è resa conto ancora di vivere.
Data la ricostruzione degli avvenimenti storici e le considerazioni teoriche, sono giunto a considerare Cristina Ali Farah e Igiaba Scego come le rappresentanti maggiori della diaspora somala nella letteratura italiana per i motivi che di seguito ho raccolto.
La Somalia, come ho cercato di far vedere nel primo capitolo, attraverso vicende tragiche e devastanti, tra le quale vi è l’esperienza del colonialismo italiano e del successivo decennio di protettorato, è giunta alla situazione attuale di totale anarchia nella quale versa. I pochi anni di democrazia rappresentarono per i somali l’illusione di aver raggiunto un’indipendenza matura e soprattutto meritata. In realtà la corruzione dei nove anni di democrazia aprì facilmente la strada alla presa di potere del generale Siad Barre, ribattizzato “Boccagrande”, che si presentò ai somali come un riformatore. Per questo motivo nei primi anni di dittatura Barre si affidò a un gruppo numeroso di intellettuali al fine di costruire con loro il consenso al suo potere personale e politico, oltre che promuovere alcune riforme in campo economico e sociale. Ma il suo potere non venne più appoggiato da alcuni intellettuali dopo l’aggressione all’Etiopia nel 1977 per la conquista dell’Ogaden e da allora cominciò il suo declino e l’isolamento della Somalia in campo internazionale. Dopo lo scoppio della guerra civile e la fuga del dittatore, lo stato somalo si è disintegrato perché nessun organo centrale è più riuscito a rappresentare la nazione somala sia all’interno dei propri confini sia in campo internazionale. Le scrittrici italiane di origine somala hanno ben chiara la situazione del loro paese d’origine e si rendono perfettamente conto che per gli/le italiani/italiane invece non è così. Uno dei loro obiettivi è quello proprio di sollevare la patina di indifferenza che si è adagiata sull’argomento Somalia e riportarlo all’attuale attenzione e far ripartire la macchina del confronto e cambiare la situazione in Somalia.
Posso citare alcuni nomi, oltre a quelli di Cristina Ubax Ali Farah e Igiaba Scego, per chiarire che le voci della dispora somala in Italia non sono poche e che stanno tentando di emergere e di comunicare. La prima di queste è Shirin Ramzanali Fazel che pubblicò nel 1994 il libro che ho già citato, Lontano da Mogadiscio, riedito nel 1999. Ramzanali Fazel continua a scrivere per riviste come «El-Ghibli», dove ha di recente pubblicato, come suo ultimo lavoro, il racconto breve Gabriel3. Questo testo narra la storia di una giovane famiglia di immigrati somali, composta da un marito, una moglie e una figlia piccola e della loro difficoltà di inserimento nella società italiana dove sono venuti a cercar lavoro, ma verso la quale nutrono sentimenti di estraneità, perché sentono una profonda ostilità nei loro confronti.
Un’altra donna immigrata somala è Sirad Salad Hassan, che nel 1996 ha pubblicato il libro Sette gocce di Sangue-due donne somale per l’editrice La luna di Palermo.
C’è da ricordare poi anche l’esperienza di Kaha Mohamed Aden, figlia dell’ex ministro della Sanità somalo, il medico Mohamed Aden Sheikh, membro rispettato della classe intellettuale somala, anch’egli rifugiatosi in esilio in Italia. Kaha è nata a Mogadiscio nel 1966: suo padre venne imprigionato dal regime di Siad Barre dal 1982 al 1987. Quando venne liberato per intercessione di Amnesty International entrambi lasciarono la Somalia e fuggirono in Italia. Dal 1987 Kaha vive a Pavia, dove si è laureata in Economia. Si occupa di tematiche relative all’immigrazione, in particolare di attività interculturali e di mediazione.
Un’altra voce femminile somala in Italia è quella di Saba Anglana, cantante e attrice, nata a Mogadiscio nel 1964, figlia di un italiano e di una donna somala emigrata dall’Ogaden etiope. Nel 1975, dopo la presa al potere di Siad Barre, la sua famiglia è fuggita in Italia e si è stabilita a Roma. Nel 2007 ha pubblicato un album di canzoni interamente in lingua somala dal titolo Jidka (The Line)4.
L’unica voce maschile in questo coro tutto al femminile è quella di Garane Garane: quest’uomo di nobili origini è nato in Somalia, ha frequentato le scuole a Mogadiscio per poi trasferirsi in Italia, a Firenze, e in seguito in Francia, dove si è laureato in Lingua e Letteratura francese. Nel 2005 è uscito il suo romanzo Il latte è buono edito da Cosmo Iannone. Comunque, le due maggiori scrittrici, quelle che stanno avendo un maggior riscontro a livello editoriale e mediatico, sempre entro i limiti circoscritti di questa emergente esperienza letteraria, rimangono Cristina Ali Farah e Igiaba Scego. Vorrei dunque tracciare, seppur brevemente, una nota biografica per ripercorrere le vite di queste due donne.
Cristina Ubax Ali Farah è nata a Verona nel 1973 da padre somalo e da madre italiana. È vissuta a Mogadiscio, in Somalia, dal 1976 al 1991, quando è stata costretta a fuggire a causa della guerra civile scoppiata nel paese. Ha vissuto a Pècs in Ungheria dal 1991 al 1993, anno in cui si è trasferita a Verona. Dal 1997 invece risiede a Roma dove, nel 2001, si è laureata in Lettere presso l’Università La Sapienza. Sin dal 1999 si occupa di educazione interculturale, con percorsi rivolti a studenti di ogni ordine scolastico, agli insegnanti e alle donne migranti. In questo ambito ha collaborato con numerose associazioni e Ong come il Cies, Candelaria, Kel’lam, il Forum per l’intercultura della Caritas, l’Associazione Prezzemolo. Attraverso il Circolo Gianni Bosio si è occupata della raccolta di storie orali di donne migranti residenti a Roma ed è responsabile dell’organizzazione di numerosi eventi letterari, tra cui la rassegna Voci afroitaliane e Lettere migranti. Affianca a queste attività di educatrice e mediatrice culturale, quella di redattrice della agenzia online «Migranews» e conta numerose collaborazioni con le riviste «El-Ghibli», «Caffè» e «Nigrizia». Diversi suoi racconti e poesie sono apparsi nelle riviste «Sagarana», «Quaderni del ‘900», «Nuovi argomenti», nel volume Voci migranti e nell’antologia Ai confini del verso. Nel 2006 ha vinto il “Concorso Letterario Nazionale Lingua Madre” indetto dal Centro Studi e Documentazione Pensiero Femminile di Torino insieme a Regione Piemonte e Fiera Internazionale del Libro di Torino. Nel 2007 è uscito presso l’editore Frassinelli il suo primo romanzo, Madre Piccola.
Igiaba Scego è nata a Roma nel 1974 da genitori somali fuggiti dalla loro terra perché in disaccordo col potere dittatoriale di Siad Barre. È cresciuta e ha frequentato le scuole in Italia, recandosi nei mesi estivi in Somalia dove, all’età di undici anni, si è stabilita con la famiglia per un anno e mezzo. Si è laureata in Lingue e Letterature straniere all’Università La Sapienza di Roma. Attualmente sta svolgendo un dottorato di ricerca in Pedagogia presso la Terza Università di Roma. Con il racconto Salsicce ha vinto il premio Eks&Tra nel 2003. Sempre nel 2003, per la casa editrice romana Sinnos ha pubblicato, nella collana «I mappamondi» dedicata ai libri interculturali per ragazzi, un testo dal titolo La nomade che amava Alfred Hitchcock. Nel 2004 presso la stessa casa editrice Scego ha pubblicato il suo primo romanzo Rhoda. Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati in diverse riviste, fra le quali «Quaderni del ‘900» e «Nuovi Argomenti». Altri suoi testi sono presenti nelle raccolte Il doppio sguardo, Pecore Nere, Allattati dalla lupa e Italiani per vocazione. Nel 2007 è uscito, in collaborazione con Ingy Mubiayi, scrittrice italiana di doppia origine zairese e egiziana, in Italia dal 1977, la raccolta di interviste a ragazzi italo-africani di seconda generazione Quando nasci è una roulette. Giovani figli di migranti si raccontano per la casa editrice Terre di mezzo. Articoli sulla sua attività letteraria sono apparsi nei quotidiani «La repubblica» e «Il manifesto» e nel relativo settimanale culturale «Alias».
Queste due scrittrici fanno parte di quel mondo della diaspora che coinvolse l’universo somalo dall’avvento della dittatura di Siad Barre sino all’implosione dello stato nel 1991. La diaspora infatti non ebbe inizio, come si tenderebbe a pensare, solo nel 1991 con lo scoppio della guerra civile, come dimostrano chiaramente gli esempi di Igiaba Scego e di Shirin Ramzanali Fazel, le cui famiglie fuggirono dalla Somalia proprio a causa dell’avvento della dittatura. Quella fu la prima diaspora dei somali nel mondo, cioè di tutti quelli che rifiutarono di appoggiare il regime di Siad Barre perché credevano in una Somalia libera e democratica. Cristina Ali Farah fa invece parte del secondo tipo di diaspora, quella che seguì alla guerra civile: lei infatti è riuscita a fuggire non appena cominciarono i primi scontri nel dicembre del 1990, nonostante avesse partorito il suo primo figlio da poco più di un mese. Igiaba Scego nell’introduzione al suo primo libro La nomade che amava Alfred Hitchcock descrive il pensiero di chi ha vissuto la diaspora e le idee che appartenevano alle menti dei somali decisi a lasciare il loro paese:

Molti somali di oggi, giovani e meno giovani, hanno fatto un percorso identico a quello di mia madre. Dopo il golpe militare e soprattutto dopo la guerra civile molti hanno deciso, con la morte nel cuore, di lasciare la madrepatria per raggiungere l’Occidente ricco in cerca di pace e serenità. Quando si lascia il proprio paese nessuno si volta indietro a guardare ciò che si è perso, nessuno infatti si fida del suo cuore; la paura maggiore è di cedere all’ultimo e di non poter lasciare ciò che si è amato in modo definitivo. Ecco perché i somali si fingono forti davanti agli altri! Ma la verità è che ognuno di essi porta nel cuore una nostalgia struggente verso quella terra, oggi così travagliata5.

Della dispora somala e della sua diffusione mondiale, che comprende ovviamente pure la situazione italiana, ha scritto ampiamente Nuruddin Farah nel suo già ricordato saggio Rifugiati. Voci della diaspora somala, testo basato su una serie di interviste condotte dall’autore in varie città del mondo alla ricerca di rifugiati somali e delle loro storie.
La Somalia dipinta da Farah, come ci ricorda Alessandra di Maio nell’introduzione all’edizione italiana dell’opera, assume un significato speciale poiché «si tratta […] di una Somalia molto personale, i cui confini non coincidono con quelli, già instabili, dell’omonima nazione, paese d’origine dello scrittore. La sua, [di Farah] piuttosto, è una Somalia come “ipotesi di lavoro”, vissuta nella distanza imposta dall’esilio. È un “paese dell’immaginazione”, a cui Farah ha deciso di dedicare la propria scrittura. Ma è un paese tanto immaginario quanto reale, che diventa tanto più verosimile quanto più lo si racconta. Più di una volta l’autore ha spiegato che il suo impegno di artista in esilio è quello di “mantenere in vita la propria patria narrandola nei suoi libri”»6.
Il testo di Farah ripercorre e approfondisce le ragioni profonde di questa diaspora, una delle più grandi del ventesimo secolo, che continua tuttora nel ventunesimo. I somali si sono sparsi un po’ dappertutto, dal Kenia all’Etiopia, dallo Yemen agli Emirati Arabi, dall’Europa (Italia, Svizzera, Svezia, Olanda, Finlandia) fino all’America (Stati Uniti e Canada). L’analisi di Farah giunge anche a considerare i tanti somali che vivono e lavorano in Italia: qui inizia anche una lunga considerazione di maggior conto, in quanto l’Italia è stata la potenza colonizzatrice della Somalia e la potenza occidentale incaricata di prepararla e trainarla verso l’indipendenza. Nonostante ciò Farah afferma che «i somali hanno sempre occupato un territorio coloniale ambiguo nella coscienza degli italiani, da quando l’Italia rivendicò i propri diritti sulla costa meridionale della Somalia»7 . Di questa ambiguità hanno preso pienamente coscienza le scrittrici italiane di origine somala perché l’hanno vista e vissuta nelle loro esistenze. Non è un caso che il primo libro pubblicato da Igiaba Scego sia stato nel 2003 La nomade che amava Alfred Hitchcock, un testo il cui intento principale è quello di far conoscere i somali agli/alle italiani/italiane. È un libro pubblicato nella collana «I Mappamondi», dedicata a numerose culture straniere presenti in Italia. Il testo è bilingue, cioè è scritto in italiano e poi tradotto in somalo dall’autrice stessa, che si è avvalsa dell’aiuto di una cugina. Inoltre l’opera presenta numerose illustrazioni di Claudia Borgioli. Nella prima parte del libro troviamo un testo narrativo che tratta la storia di una bimba nomade, Kadija, che potrebbe essere la storia della madre o della nonna dell’autrice, nata sul finire degli anni Trenta nel deserto somalo, la quale viene costretta a trasferirsi in città, a Mogadiscio. Kadija comincia a raccontare delle sue prime esperienze nella grande capitale come la scuola italiana, la prima volta che andò al cinema, i rapporti col padre e con la madre, e soprattutto descrive le differenze fra la vita nomade e la nuova vita sedentaria. La seconda parte del libro invece sembra una piccola guida turistica della Somalia, con una breve introduzione alla storia del paese, per poi passare alla lingua, alla posizione geografica, alla religione, alla tradizione orale, dove sono riportate alcune favole somale e poi alla tradizione culinaria, dove anche qui troviamo un paio di ricette. Le ultimissime pagine indicano poi dove sono i luoghi, i punti di contatto tra la comunità somala e gli/le italiani/italiane, cioè su come e dove trovare informazioni riguardanti i somali che vivono in Italia. Da parte di Igiaba Scego c’è la volontà esplicita di creare una prima connessione fra gli/le italiani/italiane e i/le somali/somale della diaspora presenti in Italia.

2. Come ha dimostrato sia il percorso storico sia quello teorico sul genere e sul postcolonialismo, la presenza italiana nelle colonie è stata fortemente connotata al maschile: in tutto l’arco di tempo del dominio in Africa, il potere italiano è servito alla costruzione di un modello maschilista della società che andava applicata nei domini coloniali. Il modello di subordinazione della donna già presente nell’Italia liberale venne esportato dalla madrepatria alla colonia e applicato all’intero universo femminile coloniale. Questa volontà venne sicuramente rafforzata negli anni dell’imperialismo fascista e istituzionalizzata con l’introduzione di una specifica normativa al riguardo. Il silenzio cui sono state sottoposte le donne nel mondo coloniale italiano si è trasformato in voce nell’attuale panorama postcoloniale: è la conseguente eredità dello specifico modello coloniale attuato in Africa dagli italiani.
A mio avviso, questa voce postcoloniale italiana, con particolare riguardo a quella somala, si unisce alle voci delle donne postcoloniali provenienti da tutti gli ex imperi coloniali. Voci di donne che oggi si uniscono in un grande femminismo postcoloniale, come dimostra l’esempio della Somali Women Agenda. Nello specifico della scrittura, le voci femminili della diaspora somala testimoniano la presenza di una via di ritorno che il passato coloniale italiano sta percorrendo per tornare alle coscienze di tutti/e gli/le italiani/e.
Il primo romanzo di Cristina Ali Farah si intitola Madre Piccola: ogni capitolo ha la sua voce narrante che è di volta in volta quella dei tre protagonisti della storia: Barni, che fa l’ostetrica, Taageere, che è il tipico esempio di uomo somalo della diaspora e Domenica Axad, la seconda moglie di Taageere. Le prime righe del romanzo rappresentano allo stesso tempo l’affermazione e la ricerca di una precisa identità:

Soomali baan ahay,come la mia metà che è intera. Sono il filo sottile, così sottile che si infila e si tende, prolungandosi. E il groviglio dei fili si allarga e mostra, chiari e ben stretti, i nodi, pur distanti l’uno dall’altro, che non si sciolgono. Sono una traccia in quel groviglio e il mio principio appartiene a quello multiplo 8.

Innanzitutto Soomali baan ahay tradotto in italiano significa “somalo/a io sono”: è la dichiarazione d’appartenenza di una donna somala alla diaspora del suo popolo e in parte, a mio avviso, rispecchia quella dell’autrice stessa. La maturità della scrittura di Cristina Ali Farah si dimostra in questo suo primo romanzo, che si struttura attraverso rimandi, flash-back, riprese che costituiscono il pregio e la complessità della sua scrittura. Non c’è un’unica storia, ma più vicende che si intrecciano e si rincorrono per costituire un’intelaiatura complessa e per dare corpo a personaggi diversi, ma tutti ugualmente importanti.
L’aspetto sicuramente più innovativo è costituito dall’organizzazione strutturale del romanzo: la storia è divisa in capitoli che portano come titolo il nome dei vari caratteri, ma manca un narratore unico. Il narratore è alternativamente uno dei personaggi, con il tentativo di variare anche il tipo di linguaggio a seconda del protagonista e della situazione in cui narra la sua storia. Dal punto di vista narratologico è molto interessante l’utilizzo della prima persona che la scrittrice giustifica in questo modo nell’intervista concessa al giovane ricercatore Daniele Comberiati:

Preferisco la prima persona perché mi dà la possibilità di far uscire la voce dei personaggi e mi interessa utilizzare l’interlocutore esterno perché chi parla modula sempre il proprio linguaggio e il proprio comportamento in base a chi ha di fronte. Anche per il romanzo Madre Piccola ho utilizzato la prima persona. La narrazione fa perno sulla voce dei tre protagonisti e ruota intorno a tre momenti chiave della storia contemporanea somala: la degenerazione della dittatura di Siad Barre, la guerra civile e la successiva diaspora. Tratto che accomuna i personaggi è lo shock della separazione: ognuno ha un trauma riconducibile a quella circostanza e le loro vicende si intrecciano nel corso degli anni. Ogni voce narrante ricorre tre volte. In tre capitoli del libro (che corrispondono a tre voci differenti) ho utilizzato testi di canzoni somale famose legate a momenti storici precisi. Le canzoni non sono tradotte, ma scritte ex novo, usando i testi originali come tracce. Le voci narranti si rivolgono a un interlocutore, ogni volta differente. Per ogni voce, l’interlocutore è una volta intimo, interno al testo e alla realtà descritta, l’altra volta esterno, rappresentando un ruolo definito9.

Nelle parole dell’autrice c’è anche una breve descrizione di come ella ha inteso strutturare il suo lavoro, con il particolare interessante dell’utilizzo di parti di testi di alcune canzoni somale, che riconducono la scrittrice al mondo della poesia e dell’arte di questa cultura. Ogni capitolo nasconde la voce dell’interlocutore di cui avvertiamo la presenza, ma non riconosciamo immediatamente l’appartenenza. Anche la scrittura di Ali Farah si adatta a questa modalità di racconto, per esempio uno dei capitoli in cui parla Taageere durerà il tempo di una telefonata oppure in un altro durerà il tempo di una ripresa video. La prospettiva della narrazione assume facce sempre mutevoli, dando la sensazione di una costruzione poliedrica e a incastri, che richiede da parte del lettore ricerca e partecipazione al fine di costruire il quadro generale. È una lettura difficile perché intessuta, a mio avviso, direttamente sulla tela della diaspora, che è fatta di interruzioni, perdite, ritrovi. Dentro il testo ci sono i/le somali/e della diaspora che provano a raccontare le loro storie.
Inoltre la dimensione del narratore interno viene proposta attraverso forme variabili: ora il diario, ora la lettera, ora la telefonata che fanno da supporto all’espediente narrativo. La struttura multivalente però rimarrebbe solo uno stratagemma narrativo se non fosse accompagnata anche dalla variabilità della lingua dei vari personaggi o narratori interni, in sintonia con le situazioni proposte. Così la comunicazione telefonica viene supportata da una struttura linguistica che conserva le tracce della lingua tipica che viene usata durante una telefonata. Il telefono è poi pensato e utilizzato sia nella finzione narrativa che nella realtà per chiudere il cerchio della diaspora, almeno momentaneamente: cioè la diaspora si ricompone attraverso le voci somale sparse nel mondo. Cristina Ali Farah a tal proposito afferma:

I somali hanno un rapporto fortissimo con il telefono, quasi fosse una parte di sé, del proprio corpo: ci passano ore, chiacchierando con parenti e con amici lontani che magari non vedono da anni. Quello che viene fuori da queste telefonate sono i racconti del quotidiano. Sembra paradossale, perché magari da un punto di vista più occidentale, se non ci si vede da anni sarebbe più normale parlare di quello che si è, del proprio ruolo nella società, dei passaggi esistenziali importanti, come per esempio un diploma ottenuto, la nascita di un figlio, un matrimonio. Invece no, quello che emerge sono i dettagli legati alla vita di tutti i giorni. Durante queste telefonate, che durano anche ore, si parla di ciò che si sta facendo in quel momento, del cibo che si sta cucinando. Le mamme nel frattempo cambiano il pannolino e danno da mangiare al proprio bambino, raccontano per esempio che il piccolo in quel momento sta leccando il manubrio del triciclo e se arriva qualcuno in casa si inserisce nella conversazione. L’insieme di tutti questi dettagli è ciò che dà corpo alla vita e comporli significa dar voce alla diaspora somala, a questa comunità sparsa ma in qualche modo tenuta assieme10.

Il telefono è il filo che collega la diaspora: attraverso di esso i/le somali/somale si trasmettono i ricordi di un tempo passato e i sentimenti e le emozioni attuali che ricompongono affetti lontani. Infatti è un dialogo fra lontani, ma che li fa sentire sempre vicini l’uno all’altro nel tempo e nello spazio.
Sicuramente il romanzo Madre Piccola può rappresentare, fino a oggi, la summa delle teorie estetiche e linguistiche di Cristina Ali Farah. Nel testo, oltre ai diversi registri e materiali linguistici utilizzati, la scrittrice cerca di attuare un rovesciamento del rapporto di potere fra colonizzatori e colonizzati attraverso l’inserimento, nel corso del testo, di termini italiani ripresi dai somali e storpiati e che si avvicinano alla lingua somala. In questo modo i peperoni diventano «barbaroni»11, «Bariimo luuliyooo»12 è la variante di Primo luglio, le ciabatte si trasformano in «jabaati»13 e «fasoleeti»14 sta in luogo di fazzoletti. Nella riappropriazione e nelle varianti dei termini utilizzati dai colonizzatori italiani è insito un tentativo di rivalutazione della propria cultura e soprattutto di una lingua, quella somala, che è apparsa nella forma scritta solo negli anni Settanta del Novecento e che, per via della scarsa diffusione e della guerra civile, non viene ancora utilizzata dai maggiori scrittori somali contemporanei.
Oltre alle parole italiane presenti in diverse varianti nel linguaggio somalo della quotidianità, diverse sono anche le modalità di espressione e i registri linguistici utilizzati. Si passa così da una riflessione intima a una telefonata, dall’italiano forbito di una lettera a una prosa più colloquiale, fino alla presenza discreta o invadente di un narratore esterno. Il risultato è la composizione di un mosaico complesso che riporta la forma della diaspora somala e di una relativa narrazione che si perde e si ricompone, come si perdono e si ritrovano i personaggi. I piani temporali sono costantemente intrecciati nei discorsi dei/lle protagonisti/e, perché per tentare di costruire il presente c’è bisogno di fare i conti con il passato, e il passato in questo caso significa guerra civile, odio fraterno tra clan, l’apatia dilagante fra gli uomini somali e l’eccessivo carico di responsabilità affidato alle donne.
La comunità somala della diaspora viene subito rappresentata come non pacificata, perché gli odi che il paese si porta dietro dalla guerra civile risultano esasperati dall’esodo. Le donne sembrano rispondere alla paura con maggior forza: per gli uomini è più difficile ritrovarsi, privi dei punti di riferimento vagano fra i mille luoghi toccati dalla diaspora. Il personaggio di Taageere, che si ritrova di fronte alla necessità di affrontare allo stesso tempo passato e presente, un figlio che non ha mai conosciuto e uno in arrivo, ne è la perfetta sintesi narrativa e poetica. Oltre alle questioni familiari, va registrata l’assenza di un lavoro che destabilizza ulteriormente la vita dell’uomo, come quella di quasi tutti gli uomini somali, impreparati ad affrontare lavori che ritengono troppo faticosi e umilianti. Mentre Domenica, dopo aver ripreso in mano parte della sua vita, registra con la telecamera voci e volti della diaspora, costruendo un materiale eterogeneo che ne riassume perfettamente l’essenza. Con queste parole Domenica rievoca i processi di costruzione e decostruzione che ognuno ha affrontato nel corso della diaspora:

Sai di quegli anni? Quello che non riesco a fare è descrivere i luoghi. Era tutto un movimento interno da una casa all’altra. Essere, potevi essere ovunque. Per me, per noi tutti, era indifferente. Ti dovevi solo abituare alle insegne diverse, i prezzi diversi e ricostruire la mappa: mappa dei legami con gli altri e i luoghi-snodi dove incontrarsi, dove telefonare, dove comprare, come perennemente trasportati nella bolla d’aria e dentro la bolla il nostro suono, il nostro odore. Suoni e odori così pungenti da coprire tutti gli altri. Alienandoci, vivevamo 15.

Domenica Axad è sicuramente la figura più complessa e interessante: italosomala come la scrittrice, in lei si incarna perfettamente il problema dell’identità. È una figlia meticcia, cresciuta in Italia come una italiana, ma non appena giunge in Somalia riaffiora l’altra sua metà somala, finora sommersa, che prevarrà alla fine su quella italiana. Sceglie così di diventare una profuga della diaspora, unendosi a tutti quei somali che fuggendo dal loro paese tentano la fortuna in altri continenti. Nel suo ricordo così Domenica descrive la doppiezza della sua origine:

La mamma per il funerale si mette il diric azzurro cielo che le hanno appena regalato. Non è così normale vederla con il diric, lei è pur sempre italiana e le italiane si vestono da italiane anche quando sono dumaashi.
Lo zio Foodcadde dice che quando la mamma e il papà stavano tornando in Somalia lui è corso subito dal nonno e gli ha detto, aabbe, padre, Taariikh sta tornando e porta con sé una moglie. Allora il nonno gli ha chiesto, e cos’ha questa moglie che me lo dici così senza fiato? Allora lo zio gli ha risposto, niente, solo che è italiana, e il nonno, be’, è normale, stava in Italia e si è sposato con una donna italiana! 16.

Domenica è una donna divisa che rappresenta un’identità scissa: la sua lingua madre è l’italiano, lingua che lei parla con disinvoltura, ma fa circoncidere il figlio perché il taglio segnerà la sua appartenenza alla grande storia dei somali della diaspora. Particolare è il modo in cui Domenica tenta di riassemblare i fili della sua vita, facendo ricorso non all’oralità, ma alla parola scritta attraverso una lunga lettera che scrive alla sua analista e che scrive in un perfetto italiano. L’identità in bilico che cerca di ricomporsi, seppur dolorosamente, la porta ad avere dei disturbi psicologici, come crisi nervose e comportamenti autolesionisti, quali sono i tagli sulle braccia che la donna si infligge e che rappresentano il rifiuto dell’identità italiana e l’accettazione di quella un tempo negata, cioè quella somala.
Le pagine più suggestive del romanzo riguardano la diaspora americana di Taageere, dove i somali cercano di riprodurre lo stesso sistema di vita che avevano in Somalia, ma si ritrovano con la stessa violenza e gli stessi problemi. In queste pagine il discorso in prima persona è reso più complesso dalla presenza, talvolta discreta, talvolta invadente, di una figura esterna, un mediatore culturale, al quale Taageere fa riferimento quando parla e che ne contraddistingue linguisticamente tutto il monologo. I pensieri contorti che si sovrappongono, le domande retoriche, il tono colloquiale e alcuni termini gergali sono tutti i segni di questa presenza esterna, forse l’unico modo per spingere la diaspora a raccontarsi. Proprio da questi racconti emerge l’impossibilità di descrivere un presente fatto di attese, sussidi e apatia senza ricorrere a quel passato prima mitico e poi devastante della guerra civile che sembra ripetersi ogni giorno negli odi atavici fra i vari clan, forse anche questo divenuto ormai un modo per sopravvivere alla noia quotidiana. Le parole che Taageere disperatamente rivolge alla prima moglie Shukri sono la drammatica testimonianza di un’impossibilità d’agire:

Ricostruirmi una vita, lo devo fare, Shukri. A questa età mio padre quanti figli aveva? Forse otto? E ci manteneva tutti da solo, Dio solo sa come. Invece io rincorro questo unico figlio. Ti sembra giusto? Devi sapere sempre che mio figlio, per me, è in cima a tutto. Tienilo bene in mente. Bene in mente per te e per lui. Cercarvi, ricercarvi sempre. Cammino rotatorio. Non trovarvi mai. Chiamo e il telefono suona a vuoto. Dove la metti quella creatura? Io mi faccio questa domanda 17.

Se il romanzo, nella sua trama complessa, polifonica e plurilingue, sembra più volte perdersi e ritrovarsi, intrecciarsi e sciogliersi, è perché aderisce perfettamente all’oggetto della narrazione e perché ripercorre i viaggi della diaspora, cercando di dare al lettore non somalo il senso di cosa significhi l’esodo senza metà finale, la ricerca di un presente che non può prescindere da un passato insostituibile.
L’Italia entra nella narrazione di Cristina Ali Farah: l’antica potenza coloniale, poi a capo della missione Restore Hope che avrebbe dovuto fermare negli anni Novanta la guerra civile che ancor oggi imperversa, è il contesto in cui tutte queste storie trovano la loro parziale risoluzione; per la precisione, ciò accade a Roma città, nella quale alcuni nodi si ritrovano e si sciolgono, dove i personaggi riescono ad accettare presente e futuro. Nonostante ciò, nelle parole di molti/e di loro emerge una chiara delusione per il paese in cui gran parte dei somali, dopo lo scoppio della guerra civile, volevano andare, e dal quale tutti, appena pochi anni dopo, volevano fuggire a causa dell’assenza di una legislazione in materia di asilo politico con particolare riguardo al caso somalo, veramente unico al mondo. Ora l’Italia è divenuta soltanto una necessaria meta di passaggio per chi approda con imbarcazioni di fortuna sulle coste italiane meridionali: l’unica vicinanza che i somali sentono d’avere con l’Italia è quella geografica, perché il vecchio paese colonizzatore è considerato incapace di gestire l’afflusso dei profughi somali nella loro complessa situazione umanitaria e giuridica.
Nella scrittura di Cristina Ali Farah si nota, all’interno di riflessioni più ampie sull’identità, l’importanza del rapporto fra donne dove l’intimità traspare dall’incontro di diversi caratteri femminili. Le donne descritte nei suoi testi parlano con la propria voce, avendo così l’impressione di riprendere un filo ideale e immaginario con altre scrittrici e altre protagoniste femminili. A proposito del suo rapporto con il mondo delle donne la stessa Ali Farah dichiara:

Molti mi hanno detto che la mia è una scrittura femminile, per come l’intimità femminile e la maternità emergono dai miei testi, e perché le protagoniste principali sono sempre donne. In realtà non si tratta di un progetto cosciente, è stato un percorso spontaneo, legato alle mie maternità e al fatto che in Somalia ci fosse una grande condivisione tra le donne, anche quando questo spazio era quello dell’intimità. Io avevo un rapporto del genere con le mie amiche e poiché sono vissuta a Mogadiscio fino a diciotto anni, e in seguito sono stata catapultata prima in Ungheria e poi in Italia, non ho avuto il tempo di ricreare dei rapporti così stretti. L’approccio al mondo femminile è legato al rapporto molto stretto e complicato che ho con mia madre: abbiamo pochi anni di differenza e fra noi c’è sempre stata una grande complicità, che però a volte è stata anche un’arma a doppio taglio. Poiché era italiana e non parlava perfettamente il somalo, mi sono trasformata nel suo tramite in un mondo in cui non si è mai veramente integrata, essendo la società somala molto chiusa e ostica. Ero un po’ la sua interprete, il suo ponte. In un certo senso per lei ero anche l’elemento che legittimava la sua presenza e appartenenza alla società circostante. Mia madre ha avuto un’educazione cattolica, ragion per cui le mie considerazioni sull’intimità femminile in senso fisico non sono farina del suo sacco 18.

Anche nel mondo poetico di Igiaba Scego rientrano, nelle varie forme del saggio giornalistico, del romanzo e dei racconti, motivi diversi: la condizione femminile, quella degli immigrati, le ampie riflessioni sull’identità, i movimenti della diaspora e dell’esilio, il rapporto con le città ospitanti.
La figura femminile che racchiude, a mio avviso, gran parte delle discussioni affrontate finora è quella di Rhoda, protagonista eponima del primo romanzo di Igiaba Scego, il quale ha avuto un buon successo di pubblico e di critica. È un romanzo tra i più interessanti nell’intera produzione artistica di questo nuovo fenomeno letterario nel quale si inseriscono le scrittrici italiane di origine somala. È un testo polifonico, a quattro voci, dove il rapporto complesso con l’Italia, paese colonizzatore un tempo e luogo di speranze e di sogni disillusi oggi, è illustrato dalla storia e dai racconti di tre donne somale. La polifonia dà anche il senso di un’identità multipla, difficile da comprendere se non si tengono presenti tutti gli aspetti della diversità. Rhoda è la storia di un corpo che affascina, ama, che si umilia con la pratica della prostituzione e con la malattia, ma che infine trova pace e purificazione nella sua terra d’origine, la Somalia, dove volutamente si reca per trascorrere gli ultimi mesi di vita ed essere sepolta. Le parti del romanzo dedicate a Rhoda sono ambientate in Somalia, dopo la sua morte: il corpo della donna, prostituta e corrotta dai gaal, come sono definiti nella lingua somala indistintamente tutti gli uomini bianchi, è stato profanato. Rhoda grida il dolore per questa ulteriore umiliazione e ripercorre i momenti della propria vita: la Somalia, l’Italia, gli amori, i rapporti interrotti e quelli tenuti insieme per forza. La chiave del romanzo è nel tentativo della donna di riappropriarsi del proprio corpo, di giustificare se stessa e la propria vita lasciando di sé un bel ricordo alle persone che l’hanno conosciuta: non è un caso che nel momento in cui Pino, giovane volontario incontrato a Napoli, e Aisha, la sorella minore che vive a Roma, si innamorano, il corpo di Rhoda venga finalmente riposto nella tomba e la narrazione giunga al termine, poiché è stata risolta la questione iniziale. Infatti la giovane donna è riuscita a donare amore per l’ultima volta facendo incontrare i due ragazzi.
Il personaggio di Rhoda è fin dal principio delineato come figura onnipresente e fuori dal tempo proprio perché già morta all’inizio della narrazione: lei era amata e successivamente rimpianta da tante persone diverse, dalla sorella, dalla zia, dagli amanti, da Pino e dalla comunità somala. Rhoda è una donna con una forte personalità, sicuramente capace di amare, ma alla quale manca sempre qualcosa: è il tentativo frenetico di riempire questo vuoto che la rende così inquieta e, in fin dei conti, così sfuggente. Descrivendo il suo personaggio attraverso le parole della zia Barni Igiaba Scego sostiene che «Rhoda metteva soggezione a chiunque. Si poteva amarla in modo totale, ma ciò non impediva di aver paura di lei. Paura della sua forza…della sua pazzia. Anche da piccolina emanava questo fluido di paura, anche da piccola»19. Dal punto di vista linguistico i capitoli dedicati a Rhoda hanno uno stile diverso dal resto del romanzo e la scelta di raccontare in prima persona permette all’autrice di raggiungere una maggiore intimità. L’uso di frasi brevi e concise, spesso nominali, l’inserimento di domande retoriche e di metafore suggestive contribuiscono a rendere il linguaggio intimo e pervasivo. I pensieri di Rhoda si situano a metà tra la narrazione in prosa e il monologo teatrale, si ha quasi l’impressione di leggere due romanzi: uno nel quale agiscono tre personaggi, l’altro nel quale il narratore non esiste più e protagonista assoluta è Rhoda.
Sono interessenti anche le altre figure femminili che Igiaba Scego usa per costruire il suo romanzo e sono principalmente altre due. La zia Barni rappresenta la generazione del passato: la sua vita coincide col dominio coloniale italiano in Somalia, del quale rimane memoria nel suo italiano perfetto, ma nonostante ciò, rifiuta l’incontro con gli italiani, non li avvicina e non ci parla. Poi c’è Aisha, la più giovane della famiglia, la più aperta verso gli italiani e il mondo che la circonda, verso i diversi: cerca l’incontro con l’altro per capirne le più profonde ragioni. La sua è una parabola felice, al contrario della tragedia della sorella che la avvicina, ma non la condurrà, nell’abisso. Infatti si sposerà con un italiano, Pino.
Rhoda invece appartiene drammaticamente a quella generazione di mezzo, quella che si può perdere, quella che forse è irrimediabilmente perduta, in bilico fra passato e futuro, vive un presente pieno di insicurezze dove non riesce a collocare la propria identità. Il rapporto col proprio corpo diviene tragico, decide di prostituirsi dando origine ad un doppio rifiuto sia dell’anima sia del corpo. A ciò si aggiunge la malattia, l’Aids, che condanna il suo deterioramento interiore. Il rapporto tra le due sorelle è molto conflittuale e lo si evince dalle parole con cui Rhoda descrive Aisha e la sua visione della società:

Aisha è sempre stata la più saggia fra noi due. Lei sapeva vedere il bello in tutte le cose, mentre io non vedevo il bello nemmeno in me stessa.
Anche al razzismo aveva una risposta. Per lei si doveva combattere con l’amore e il buonsenso.
«Se gli italiani non ci capiscono sorella, noi dobbiamo spiegare chi siamo, cosa facciamo, dove andiamo. Dobbiamo dire loro quali sono i nostri sogni e le nostre aspettative. Dobbiamo parlare del nostro passato, proiettarli nel nostro futuro e far vivere loro il nostro presente. Non dobbiamo arrenderci mai! Ci sputeranno addosso, ci derideranno, ci ostacoleranno, ci insulteranno. Noi non dovremmo mai piegarci, dovremmo resistere per il bene nostro e delle generazioni future. Se convinceremo solo uno di loro, allora il nostro sacrificio non sarà stato vano. Cosa saremmo io e te senza gli schiavi neri d’America? Senza Martin Luther King? Senza Malcom X? Senza il mahatma Gandhi? E senza Nelson Mandela? Loro hanno combattuto, noi nel nostro piccolo dobbiamo fare lo stesso».
Era bello sentirla parlare. Era una adolescente pazza. Però ci credeva ai suoi sogni, credeva davvero che il mondo potesse cambiare.
Io invece ero una cinica 20.

Sarà anche a causa del suo cinismo, della sua ostilità e delusione profonda che la univa alla zia nell’odio per quella terra nella quale erano costrette dal destino, che Rhoda decide di morire nella sua Somalia, di ricongiungersi a essa in un atto di estremo amore provocato dalla nostalgia, sentimento comune che tutti i somali della dispora provano, nonostante la guerra civile abbia devastato il paese e trasformato in qualcosa che all’apparenza loro non riconoscono più nella visione esteriore. Lo stupore della zia Barni all’annuncio datole dalla nipote di voler tornare in Somalia e lì morirvi, rifiutando ogni possibile cura in Italia, è troppo grande da poter essere contenuto:

«Zia voglio tornare in Somalia. Non voglio morire qui. Mi devi aiutare, ti prego. Ti prego…».
La vecchia donna non si capacitava della portata della notizia.
Rhoda in Somalia?
Incredibile.
Impossibile.
Inimmaginabile.
Cosa ci andava a fare una come lei in Somalia? In una terra che sarebbe stata diversa dai suoi ricordi di bambina?
Barni non riusciva a darsi una risposta.
«Ci sono tante medicine oggi, forse non morirai…ci sono le medicine».
«Lo sappiamo entrambe che morirò. Zia ti prego, aiutami»21.

Quello di Rhoda è un viaggio di ritorno, ma le finalità del viaggio sono essenzialmente tragiche. In un certo senso si realizza il ritorno verso un senso di casa che in Italia la ragazza non era riuscita a costruire, ma il contesto è tragico perché Rhoda va verso un paese dilaniato dall’odio fraterno e la sua finalità è morirvi in un ultimo abbraccio con la sua terra d’origine. Il contrasto fra la generazione perduta di Rhoda e quella dell’integrazione rappresentata dalla sorella è insormontabile e, ancor peggio, la frattura intima fra le due donne è lacerante come dimostra il seguente dialogo:

«Piangere per un gaal? I gaal ti tradiscono…non ci capiscono…e poi Aisha cara devi sapere che i gaal non muoiono, imputridiscono. La loro carne non è come la nostra, è marcia…segnata dal peccato».
«Sei ingiusta sorella…».
«Sono ingiusta? Quell’uomo ora è cibo per i vermi e il Paradiso non gli aprirà certo le porte. Non era circonciso, non faceva le preghiere…credeva in un Gesù Dio…insomma un soggetto così si merita la mia compassione? No, bella… ed è ora che lo capisca anche tu come funziona il mondo…qui ci sono i gaal e qui, dalla parte opposta, ci siamo noi. Siamo due mondi non destinati a incontrarci».
«Ma se non ci sforziamo a capirli noi, come pretendiamo che ci capiscano?», le gridò Aisha sibilando quasi.
«Non voglio essere capita…».
«Ma vuoi vivere qui…studiare qui…mangiare il cibo di qui…».
«Io non voglio stare qui…e non lo volevi nemmeno tu un tempo…».
«Vivi qui sorella…io mi adatto. Tu che fai? Non hai amici, non hai interessi…vai alle tue lezioni e ti chiudi in un bozzolo impenetrabile. Da un po’ non si può più trattare con te. Ti arrabbi! Non eri così un tempo…io non ti sopporto più…sei…sei…».
«Sono?».
«Sei diversa…non sei più la sorella che conoscevo! Non sei la mia Rhoda!».
Rhoda si alzò e presa quasi da un raptus schiaffeggiò con violenza la sorella minore 22.

Anche nelle opere di Igiaba Scego, come in quelle di Cristina Ali Farah, la figura femminile è al centro della narrazione. La ricerca di identità dei personaggi è prima di tutto una ricerca e un’analisi della propria femminilità, del proprio essere donna nella società nella quale si trovano. Le tematiche principali dell’autrice, quali la diaspora, la migrazione, il rapporto madre-figlia, seguono il filone principale di un’indagine sulla femminilità nella sua interezza che taglia le differenze culturali per spingersi più in profondità. La donna porta su di sé, sul proprio corpo, i segni della migrazione e della diaspora: l’estremo esempio è la storia del corpo di Rhoda, cioè del disfacimento di un corpo che non riesce a restituirsi un’identità dopo la migrazione e per questo è destinato a scomparire.
Igiaba Scego descrive i nodi comuni della femminilità somala attorno ai quali ruota la costruzione di un pensiero femminile che comprende la famiglia, la maternità, il corpo e anche il sesso:

Io non ho un rapporto conflittuale con la figura materna, ma con la femminilità. In realtà descrivo molto il rapporto madre-figlia, e faccio riferimento a situazioni che mi è capitato di vedere nella comunità somala o in quella comunità che è la mia famiglia allargata. […] Quella somala è una femminilità diversa: poco tempo fa mi è capitato di parlare con Cristina Ubax Ali Farah di come le donne somale parlino di sesso. Sono molte dirette, si soffermano sui particolari anatomici in un modo che quasi tutte le italiane eviterebbero. Quello che dicevo a Cristina, ma è una mia idea che vorrei sviluppare, è che, al di là del sesso, nei discorsi delle donne somale è quasi assente il sentimento. Non dicono mai come hanno vissuto l’atto sessuale, se sono state bene o no, inoltre molte sono infibulate, quindi in loro c’è questo concetto del piacere negato, come se l’atto sessuale fosse puro esercizio ginnico. Io faccio fatica a capire i sentimenti delle mie connazionali, si parla molto poco di amore tra noi, o meglio se ne parla moltissimo nelle canzoni, ma molto poco nei discorsi personali 23.

Questo mondo al femminile è tutto racchiuso anche nelle forme letterarie tradizionali somale che le due scrittrici, soprattutto Cristina Ali Farah, riprendono spesso per integrare parti dei loro testi italiani. Le canzoni, per esempio, sono una delle forme più consolidate della letteratura somala della diaspora, nella quale il richiamo alla letteratura orale è molto forte. Tra l’altro la poesia somala ha sviluppato un genere poetico, chiamato Buraambur, che è prettamente femminile ed è nato come canto associato alla danza. Questa doppia eredità del canto e della poesia si fonde nei testi recenti italiani delle due scrittrici, come dimostrano le citazioni di numerosi ritornelli all’interno del romanzo Madre Piccola di Ali Farah.
L’ultimo lavoro di Igiaba Scego dal titolo Oltre Babilonia è, a mio avviso, finora, il testo più rappresentativo e più maturo della giovane scrittrice. Igiaba Scego anticipava i contenuti del suo libro in un’intervista concessa a Daniele Comberiati nel 2007, l’anno precedente l’uscita del libro:

Anche il mio prossimo romanzo avrà per tema la femminilità e il rapporto con il corpo. Ho ripreso la struttura di Rhoda utilizzando, però, una serie di toni e registri molto più numerosa. Sto lavorando con materiali diversi: ci sono lettere, monologhi, è un romanzo che ha nell’utilizzo dei numerosi linguaggi il suo interesse, perché la storia di per sé è semplice ed è basata sul rapporto madre-figlia24.

Credo che tutte le intenzioni anticipate dall’autrice siano state rispettate in seguito nella stesura definitiva del romanzo. Ogni capitolo ha una diversa voce narrante; in tutto sono cinque, come le voci dei protagonisti. Ogni capitolo porta il nome del protagonista: la Nus-Nus è Mar, la Negropolitana è Zuhra Laamane, la Reaparecida è Miranda, la Pessottimista è Maryam Laamane, il padre è Elias. L’intelaiatura narrativa di fondo è complessa: è la storia di due coppie di madri-figlie intrecciate e quella di un padre in comune che nessuno conosce. È la storia e l’analisi di questo doppio rapporto, in entrambi i casi molto difficile e insoluto.
Maryam Laamane è un’esiliata somala che vive a Roma, ex alcolista: fu costretta a mettere la sua unica figlia in collegio da piccola dove subì una violenza sessuale. Maryam sta tentando di registrare tutta la sua vita su un nastro magnetico, in modo tale che la figlia lo possa ascoltare e capire finalmente le mille difficoltà che la madre ha dovuto superare nel corso della sua esistenza; ma riannodare i fili della memoria non è facile, molte cose possono sfuggire, come dice la donna stessa alla figlia:

Perdonami, non riesco a riannodare i fili della mia strana vita in ordine cronologico. Ho qualche difficoltà con il tempo. Sarà per l’abitudine a raggomitolare la lana del tempo, sfilare la tela, ritesserla, trovare i nodi, scucire di nuovo, eliminare i nodi. Non volevo imperfezioni. Però nel mio caso è impossibile. Solo non voglio che un giorno, quando non ci sarò più, tu scopra delle cose di me che non ti piacciono25.

Sono i fili della diaspora che cercano di riannodarsi e di trasmettersi da una generazione all’altra: i ricordi della prima diaspora passano ai figli nati nella diaspora. La figlia è Zuhra Laamane, afroitaliana, o meglio afroromana, visto il profondo legame che la lega alla sua città, Roma, dove lavora in un grande megastore di cd e dvd. Decide di partire con un’amica e si reca a Tunisi per imparare l’arabo presso la prestigiosa Bourguiba School. Lì incontra la poetessa argentina Miranda, anch’ella residente a Roma come rifugiata perché era riuscita a fuggire alle persecuzioni perpetrate dal regime militare del suo paese. Miranda ha avuto anche una figlia, Mar, che è dichiaratamente lesbica.
Molti sono i temi che Igiaba Scego affronta in questo romanzo: la diaspora, la migrazione, le dittature, l’identità, i problemi di genere, il meticciato e la compresenza di molte lingue. Una delle quattro protagoniste, Zuhra Laamane, l’italosomala romana, per cercare di mostrare e confermare la propria italianità vuole utilizzare tutti gli espedienti che ha a disposizione, come dimostra il seguente passaggio:

Tiro fuori il mio passaporto bordò. Lo guardo. Zuhra Laamane. Io con il cognome di mia madre, anche se non si usa. Io, me medesima, in persona, carne e ossa, tette, figa e tutto. Io, italiana. Io, italiana? Il solito dubbio che mi assale. Mi basterà solo il passaporto per dimostrarlo? E se mi portassi anche la patente? E la tessera del cineclub? Sì, mi porto anche quella. E la tessera a punti del supermercato? E la tessera dell’Arci solidarietà? Quella della Biblioteca nazionale? Sì, tutte, me le porto tutte. E pure quella der benzinaro. Tutto fa brodo. In ognuna di queste dannate tessere c’è scritto il mio nome in stampatello, no? La mia residenza nella città eterna, pure. Purtroppo non c’è scritto che sono italiana, ma dimostrano che almeno vivo qua. Rafforzano l’italianità del mio passaporto26.

L’elemento che aggiunge complessità a questo romanzo è la presenza del mondo sudamericano e in particolare della storia argentina. Le parole della scrittrice ci aiutano a comprendere le ragioni di questo ospite inatteso:

L’America Latina mi ha sempre interessato: quello che ripeto spesso è che per sviscerare i temi dell’Africa ho dovuto prima affrontare quelli dell’America Latina, come se avessi avuto bisogno di un filtro e di un distacco. Ho trovato molte analogie fra la storia del sud America e quella africana: il meticciato, l’immigrazione, le identità plurime, tutte cose che ho ritrovato nei romanzi di Eugénio de Andrade, João Guimarães Rosa e Gabriel García Márquez. La scelta del personaggio argentino ha anche una motivazione storica: negli anni Settanta in Italia gli esuli erano somali, eritrei, capoverdiani e argentini. Erano i desaparecidos riusciti a fuggire. Volevo recuperare la memoria storica della prima immigrazione in Italia, e poiché il romanzo è incentrato sui segni che la storia lascia sui corpi, chi meglio dei desaparecidos poteva essere preso come esempio?27.

Da questo passaggio si evincono le fonti da cui attinge Igiaba Scego per approfondire i propri ambiti di ricerca e quali sono i modelli che usa come riferimento per la propria scrittura. L’autrice aggiunge un altro mondo, quello latinoamericano e lo somma alle altre identità delle quali è già ricca la sua esperienza. Lo scopo di Igiaba Scego è anche storico, come si evince dalle sue parole: vuole confrontare il mondo dei rifugiati argentini in Italia degli anni Settanta con quelli somali in fuga dal dittatore Siad Barre. Secondo me il centro d’attrazione di queste linee di fuga è rappresentato dalla città di Roma, grande metropoli che contiene tante genti diverse. La capacità cosmopolita della capitale italiana si scontra però con l’indifferenza in generale dell’Italia verso i rigugiati politici sia quelli di oggi come quelli di allora. Infatti Scego afferma che come l’Italia rimase indifferente nei confronti dei crimini commessi dal regime militare argentino di quegli anni, così non prestò attenzione ai somali della prima diaspora che scapparono anch’essi da un regime militare, quello appena instaurato da Siad Barre, che però l’Italia non considerò mai di contrastare. Lo stesso errore commesso per ben due volte: questo la giovane scrittrice rimprovera alla politica e alla società italiana.
Il titolo del romanzo, Oltre Babilonia, già secondo me anticipa una ricchezza linguistica figlia della diaspora: cosa c’è infatti oltre i confini di Babilonia? Dopo Babilonia appunto c’è un’incredibile Babele linguistica che va oltre ogni ragionevole evidenza. Infatti in questo libro Igiaba Scego ha inserito la presenza dell’italiano, dell’inglese, del somalo, dello spagnolo, e poi anche del francese parlato in Tunisia e dell’arabo appreso alla scuola di Tunisi. Quest’ultimo, l’arabo, rappresenta un polo d’attrazione e di ricerca di una lingua comune delle origini, che, tra l’altro, è pure la lingua dell’Islam, la religione dei somali.
C’è un filo molto particolare che unisce Rhoda a Oltre Babilonia ed è quello dell’omosessualità femminile. In Rhoda, la protagonista costruisce nel tempo una relazione intima con un’altra donna, Gianna, bianca, verso la quale Rhoda cerca di trovare un’appiglio d’amore alla sua esistenza già vuota: questo tentativo di salvezza fallisce miseramente. In Oltre Babilonia invece una donna del gruppo delle madri-figlie, Mar Ribero Martino, è omosessuale e segue la madre in questo viaggio-studio a Tunisi nel tentativo di riprendersi dopo la fine di un rapporto distruttivo con un’altra donna, Pati, bianca, che in un momento di confusione la porterà alla scelta drammatica dell’aborto. A proposito di questa ulteriore diversità nel genere, che frammenta ancor più il mondo femminile rappresentato nei testi della letteratura italiana della diaspora somala, Igiaba Scego anticipava anche questo discorso, sempre prima dell’uscita del libro:

Mi affascina molto il mondo delle drag queen. Sia in Rhoda che nel romanzo che sto scrivendo adesso ho inserito il personaggio di una donna omosessuale: parlare di drag queen o di omosessualità mi aiuta a far capire come la ricerca dell’identità sia un percorso complesso. Utilizzo spesso questi personaggi al limite o alla ricerca di se stessi, perché non credo che una persona abbia chiaro subito che cos’è 28.

Sono tutti vari modi mediante i quali Igiaba Scego cerca di leggere le diverse identità, che si fondono, si intrecciano, ognuna alla ricerca della propria posizione che alla fine non si trova. Infatti il libro finisce in modo aperto, lasciandoci intendere che queste ricerche portino alla consapevolezza che non ci sia una soluzione definitiva verso la quale approdare.

3.Molte sono le varianti legate alla questione dell’identità: si può passare dall’identità italiana da affermare, a quella somala da ritrovare, fino alle identità di genere nella loro complessità. Cristina Ali Farah e Igiaba Scego certamente hanno il profondo desiderio di ricostruire, a fianco dell’identità italiana, la loro identità somala, nonostante l’immagine spezzata che a queste due donne arriva dell’altra parte di loro, cioè dalla terra somala. Il rapporto con la Somalia è stato per entrambe sempre intenso. Igiaba Scego, nell’introduzione al suo primo libro, La nomade che amava Alfred Hitchcock, confessa:

La Somalia è stata una meteora nella mia vita. Essendo nata in Italia all’inizio non riuscivo proprio a capire che cosa fosse questa Somalia e francamente ne avevo molta paura. Avevo sviluppato una fantasia personale sul mio paese d’origine: credevo fosse un paese rosso, una sorte di Marte terrestre. Fu grande la mia delusione quando, all’età di 8 anni, mi accorsi che la Somalia non era rossa come Marte, ma aveva gli stessi colori dell’Italia. La delusione durò un attimo. Infatti scoprii che la Somalia era un paese meraviglioso dove l’uomo poteva vivere felice in simbiosi con la natura. Adoravo (e adoro) la mia bella Roma, ma Mogadiscio mi ha dato l’opportunità di recuperare le mie radici e di ampliare il mio orizzonte culturale 29.

Si evince dalle opere delle due autrici come sia l’Italia sia la Somalia siano due entità costruite all’interno dei testi di questa letteratura diasporica: proprio questa doppia costruzione è ben rappresentata perché, se da un lato Cristina Ali Farah e Igiaba Scego cercano di costruire l’Italia perché si realizzi la consapevolezza di una condizione postcoloniale, dall’altro lato vogliono ricostruire un’immagine della Somalia sia per i somali stessi, sia per il resto del mondo che non ha una percezione della realtà somala in quanto essa non esiste più ormai dal 1991. L’Italia e la Somalia occupano uno spazio “inbetween”, come direbbe Homi Bhabha; sono cioè un’idea costruita nei testi e che si deve ricavare dai testi: la Somalia si costruisce lungo i fili della diaspora attraverso la rete telefonica, i filmati, i testi e le parole dei somali nel mondo. L’Italia viene costruita e immaginata in una forma nuova in quanto fino a ora mancano le immagini e i ruoli dell’integrazione e dell’accoglienza; rappresentazioni che invece le scrittrici cercano appunto di ricreare nei loro testi. La scrittura di queste due autrici italiane aiuta i somali della diaspora a tener uniti i nodi che li avvolgono e gli/le italiani/italiane a costruire una rete mediante la quale poter finalmente vedere i somali e la Somalia.
La Somalia nelle opere di Cristina Ali Farah e Igiaba Scego acquista una definizione, proprietà fisiche e psicologiche dalle parole dei personaggi che si sovrappongono e eguagliano le memorie personali delle scrittrici. Nei testi sembra dipinta a tinte forti la nostalgia di un passato mitico in cui la società somala era in pace con se stessa e con gli altri. Sicuramente le parole delle due autrici si riferiscono agli anni precedenti il 1969, anno in cui prese il potere il dittatore Siad Barre. Questo altrove di un tempo mitico e oramai irraggiungibile viene criticato da Cristina Ali Farah:

Molte delle persone che conosco mitizzano il periodo passato in Somalia: i miei amici quando si ricordano di quegli anni ricordano subito quanto fossimo felici, spensierati. In realtà io non la penso proprio così: non eravamo felici e spensierati, innanzitutto perché la situazione politica in Somalia era pesante da un bel po’, almeno da tre anni prima della guerra. Non c’era futuro per i giovani, c’erano pochi stimoli, non arrivavano giornali né film 30.

L’immagine che le due scrittrici hanno di Mogadiscio è quella di una città multietnica, piena di gente proveniente da varie parti dell’Africa e dell’Asia, appartenenti a diverse religioni che convivono pacificamente, dedicandosi alle rispettive attività economiche. Questa stessa città oggi è irriconoscibile, dilaniata dal fuoco della guerra, che ha distrutto tutti i luoghi di pubblica rappresentanza sia civile che religiosa. Nella visione di Mogadiscio è racchiusa una ennesima impossibilità di soluzione positiva della diaspora visto che la città un tempo florida e multiculturale è stata spazzata via dall’odio, come scrive Ali Farah:

Xamar waa lagu xumeeyay, Xamar, ti hanno rovinata. Chi pagherà per i peccati commessi? Città mia, città dove hanno sepolto il mio cordone. Città dove tutti vivevamo in pace e armonia, in sicurezza e in libertà. Città meravigliosa sulle coste del lato d’Africa. Ci vivevano i miei fratelli, genitori e cugini. Ma per sangue e conflitto gli stessi fratelli lottano tra di loro.
Xamar waa lagu xumeeyay, Xamar ti hanno oltraggiata. Riempita di proiettili, distrutta, bruciata, devastati i quartieri, saccheggiati i tesori. Le famiglie decorose fuggite oltre le frontiere. Giusti e onesti liberarono il paese da malvagi e da stranieri. Oggi giacciono tutti sepolti. A nessuno più importa della saggezza degli anziani. Xamar waa lagu xumeeyay, Mogadiscio, ti hanno tradita31.

Inoltre è interessante il paragone che sempre Cristina Ali Farah costruisce tra Mogadiscio e il corpo di una donna dicendo che «così è diventata Xamar. Come una donna con la pelle attaccata alle ossa. Le strade così perforate che non c’è più l’asfalto. Tutt’intorno, odore di morte»32 . Anche Igiaba Scego riprende questo spunto e tramite le parole di Rhoda fa un paragone insolito e molto provocatorio:

Mi mancano gli odori.
Mi manca più di tutto l’odore di Mogadiscio.
In quella città sono stata felice.
L’odore di Mogadiscio è uguale a quella della vagina.
La mia e di tutte le donne.
Un odore puro, lascivo, sensuale, virginale, modesto, fantasmagorico, penetrante, unico.
Mi commuoveva.
La mia vagina mi commuoveva fino alle lacrime 33.

Mogadiscio viene paragonata al corpo di una donna, meglio all’odore di un corpo femminile, ma soprattutto colpisce il fatto che questa Mogadiscio sia stata corrotta, devastata, distrutta, così come lo è stato il corpo di Rhoda. I due corpi, quello della città e quello della donna, odorano di morte. Unica concessione di felicità è data dal fatto che la carne di Rhoda si sia ricongiunta con la sua terra e questo le abbia concesso una riappacificazione finale con se stessa.
Tutto questo si riverbera nelle opere delle due autrici in una originale riconsiderazione della questione della lingua. Cristina Ali Farah e Igiaba Scego scrivono in italiano perché l’italiano è la loro lingua madre, la loro lingua naturale, quella con cui hanno imparato a scrivere. Non è stata una scelta, non è stata voluta, l’italiano è capitato a loro da un lato per ragioni storiche, dall’altro per ragioni biografiche. In un intervento pubblicato sul sito web Eks&tra Igiaba Scego, spiegando la genesi del suo rapporto con la lingua italiana, afferma che, in contrapposizione con quanto avvenuto durante le prime fasi della letteratura della migrazione, quando gli scrittori migranti scelsero di scrivere in italiano e decisero di imparare al meglio la lingua per potersi esprimere, l’italiano per lei non è stato appunto, una scelta:

Non riesco a pensare ad un’altra lingua per esprimere il mio pensiero scritto. Il somalo scritto (una lingua scritta recentemente, nata nel 1972) lo trovo lontano dalle mie corde e l’italiano è la lingua che uso per esprimermi in forma scritta. Anche a casa – dove parlo costantemente somalo con i famigliari – lascio i messaggi scritti in italiano. Quindi non ho scelto di scrivere in italiano, mi è capitato…l’italiano per me è il corso naturale della mia scrittura. Ciò non toglie che arricchisco la mia scrittura con inserimenti di parole somale o arabe (tradizione religiosa) o bravane ( il dialetto della città di mio padre: Brava. È una lingua bantù molto simile allo swahili)34.

Anche l’esperienza personale di Cristina Ali Farah aiuta a comprendere questo rapporto con la lingua italiana, come ha detto la scrittrice in un’intervista rilasciata a Daniele Comberiati:

In Somalia scrivevo tantissimo, ero una specie di grafomane: avrò riempito decine di quaderni con diari, poesie e addirittura qualche racconto. Naturalmente scrivevo in italiano. Quando sono scappata la situazione era tale che non potevo certo pensare di tornare a casa a prendere i miei quaderni. Una volta in Europa ho smesso completamente: trovare tempo per scrivere era certamente un lusso, dovevo occuparmi del mio bambino piccolo da sola, ero poco più che diciottenne e dovevo ambientarmi, trovare il tempo di studiare e di lavorare. Qualche volta provavo a scrivere, ma non mi piaceva mai quello che scrivevo, avevo cose troppo urgenti a cui pensare. C’erano tutta una serie di traumi accumulati che avevo bisogno di elaborare: secondo me la scrittura non è sfogo, è rielaborazione, quindi sicuramente è stato un bene che sia passato un periodo di riflessione prima che potessi scrivere 35.

La scrittura in italiano testimonia in maniera chiara, a mio avviso, l’appartenenza di entrambe queste donne alla società italiana e in quanto scrittrici alla comunità letteraria italiana. Certo è chiaro che i riferimenti continui all’oralità e ai legami che intercorrono fra tradizione letteraria somala e scrittura italiana sono notevoli e non possono essere ignorati. Il mondo orale della letteratura somala, che precede la codificazione della scrittura della lingua avvenuta solo nel 1972, è parte non trascurabile della formazione intellettuale delle due donne. La letteratura somala è molto presente nelle opere di Cristina Ali Farah e Igiaba Scego, è una presenza naturale quanto lo è quella dell’italiano. Soprattutto in Ali Farah la poesia femminile somala esercita un certo fascino, come anche le musiche e le canzoni somale, i cui testi in parte vengono inseriti nei suoi lavori, come è avvenuto in Madre Piccola. A proposito di questi temi la scrittrice afferma:

Credo che la vicinanza dell’oralità nella mia scrittura abbia due ragioni: da una parte è un fatto culturale, dall’altra è dovuta a un’idea che già avevo quando studiavo letteratura popolare all’università, ed è l’idea della funzione della letteratura. Considero la letteratura come una melodia a più voci che lo scrittore orchestra in maniera funzionale alla società, nel senso che lo scrittore restituisce alla società quello che da lei riceve. Mi sono sempre chiesta come mai in Somalia, come in molte altre società, il ruolo dello scrittore, del cantante, dell’artista in generale, fosse un ruolo funzionale alla società, mentre nelle società moderne questa cosa si sia persa, non c’è quasi mai un legame fra la società e chi narra. Mi sono interrogata molto su come ricreare questo legame, e la vicinanza all’oralità mi è sembrata una strada da seguire36.

A mio avviso, in maniera molto saggia, in questo passo Cristina Ali Farah collega e intreccia fra loro dei temi molto rilevanti: infatti se da una parte cerca di spiegare la sua familiarità con la letteratura orale somala, con la quale ha sempre avuto un forte legame, dall’altra prende in considerazione l’antico ruolo dell’intellettuale nel contesto somalo, che ne faceva un figura di rilievo all’interno della società, così come lo era in altre realtà africana. Questo dato, secondo la scrittrice, in Italia non c’è più: quello che la sua scrittura, e io aggiungo quella di Igiaba Scego anche, si propone di ricreare è la riscoperta di un ruolo politico e socialmente impegnato per gli intellettuali e gli artisti italiani.

4. L’impegno in campo sociale di Cristina Ali Farah nel suo ruolo di mediatrice culturale rispecchia, a mio avviso, quel ruolo politico che le scrittrici italiane di origine somala cercano di assolvere senza un preciso mandato, ma spinte dal silenzio e dall’indifferenza della società italiana nei confronti dell’apertura alla diversità. Il testo di un progetto sperimentale di laboratorio sulle identità svolto presso la scuola media del quartiere Torre Angela di Roma ne è la testimonianza. Il titolo dato al progetto è Vorrei essere, che è possibile leggere tra l’altro sul sito di «El-Ghibli». Nella presentazione online Cristina Ali Farah spiega il progetto:

“Vorrei essere” è un testo collettivo, ovvero è l’assembramento di una serie di pensieri espressi dai ragazzi di una I media di Via Poseidone, nel quartiere romano di Torre Angela. Questo brano è frutto di un programma di laboratori interculturali seguito dai ragazzi, all’interno del quale era previsto un lavoro sui percorsi iniziatici, adatto all’età di passaggio dei bambini. I testi sono stati accorpati seguendo una logica tematica e se talvolta appaiono ripetitivi è per dare il senso della frequenza con cui certi desideri sono stati espressi. Dopo alcune realizzazioni elastiche, essi erano invitati ad appuntare su un foglietto di carta ciò che rappresentava la loro vocazione ad essere, punto di partenza per la crescita e la consapevolezza di sé 37.

Per esempio il primo dei testi composto dai pensieri dei ragazzi e riportato nell’articolo, assieme ad altri testi frutto del lavoro sulle identità dei giovani, è il seguente:

Io vorrei essere un uccello, di preciso un’aquila reale…più specificamente un’aquila reale…perché l’aquila è molto bella e vola molto veloce…per saper volare e fare dei bei lunghi voli…e anche perché a me piace volare e vedere le cose da lontano e osservare tutte le cose come sono da lontano…essere leggero come l’aria credo sia una cosa stupenda…vorrei sentire l’ebbrezza del volo…sorvolare il mondo, anche se mi dispiacerebbe vedere la crudeltà che c’è, la malvagità degli uomini e soprattutto mi dispiacerebbe vedere dei paesi in cui le persone muoiono perché non hanno il cibo e chiedono aiuto a quei paesi che sono ricchi ma a questi non gli importa…38.

L’altro aspetto che questo tipo di lavoro porta a considerare è quello del valore del richiamo collettivo di questa letteratura, se considerata come “minore” nell’accezione fornita da Deleuze e Guattari. Per mezzo delle loro azioni personali e delle loro opere infatti, sia Cristina Ali Farah sia Igiaba Scego sentono di essere le portavoci della diaspora della comunità somala in Italia, e non solo. Come ho già avuto modo di dire, forse sentono questa investitura provenire anche dalle molte comunità di immigrati di altra nazionalità presenti sul territorio italiano. A sostenere la mia ipotesi ci sono le parole di Cristina Ali Farah a proposito del sentirsi portavoci di un’intera categoria di persone senza rappresentanza:

Questo capita spesso anche a me e a Igiaba Scego, siamo continuamente sotto osservazione: dai somali, dalle donne, dagli scrittori migranti, siamo molto sollecitate. Se da una parte tutto ciò può sembrare stressante, perché ovviamente una singola voce non può essere la rappresentazione di un popolo o di un genere, dall’altra è anche molto stimolante, perché c’è qualcuno che vuole che tu rappresenti qualcosa, che tu gli dia voce. È una sorta di violenza, però è anche un grande riconoscimento sapere che qualcuno si aspetta che la tua parola lo rappresenti 39.

È un impegno che caratterizza a mio avviso tutto il mondo di Cristina Ali Farah, oltre alla scrittura, nella diretta attività di mediazione nelle scuole e in altri luoghi d’incontro funzionali alla società. Daniele Comberiati, giovane ricercatore italiano, sostiene con forza questo ruolo attivo della scrittrice che si fa intellettuale:

Essere funzionali alla società, sentirsi portavoce di una comunità. Sembra una versione nuova del concetto di letteratura impegnata o più semplicemente di letteratura civile, di grande afflato etico, che negli ultimi vent’anni nella società occidentale si è un po’ perso. Il famigerato crollo delle ideologie spesso è stato confuso da alcuni scrittori con un’assenza di attenzione verso i mutamenti della società, come se il solo fatto di non avere più un sistema organico di pensiero a cui fare riferimento giustificasse la chiusura verso l’esterno, nella presunzione che fosse possibile trovare dentro di sé spunti per diversi romanzi. In questo Cristina Ubax Ali Farah ha perfettamente ragione: perché uno scrittore sia produttivo a lungo, perché le sue opere riescano a durare nel tempo, c’è bisogno di ricerca, certo, ma anche di un’apertura verso l’esterno, nella consapevolezza che solo dal rapporto con gli altri all’interno della società possano nascere nuove idee, nuovi linguaggi e forse un modo diverso di fare letteratura 40.

Anche l’attenzione di Igiaba Scego nei riguardi della propria esposizione alla pratica civile e politica, insieme a quella di Cristina Ali Farah, è forte, come si evince dalle sue parole sull’argomento:

Dal punto di vista politico, da intendere non come appartenenza a un partito specifico, ma piuttosto come attenzione e sensibilità sociale, sì, devo ammettere che mi sento responsabilizzata nei confronti della Somalia e della comunità somala. Quando vado nelle scuole, per esempio, mi preme far capire che quello che sta accadendo adesso in Somalia non è affatto uno scontro di civiltà, ma una guerra economica, gli interessi in gioco non sono per niente culturali o religiosi, ma meramente economici. Al di là di questo devo anche confessare che sono costantemente preoccupata di quello che può pensare la mia comunità di ciò che scrivo, soprattutto quando affronto temi di natura sessuale. Rifletto a lungo prima di scrivere e cerco di stare attenta a non urtare la sensibilità della comunità. Anche quando parlo dell’infibulazione o di igiene personale, tocco tematiche che nella comunità somala sono tabù41.

La pratica di questo impegno si dimostra nei molti articoli di Cristina Ali Farah apparsi sul sito di «Migranews», nei quali la scrittrice si occupa di numerosi temi quali l’integrazione degli immigrati, il loro difficile rapporto con la burocrazia italiana, il problema della casa, quello della cittadinanza, ma anche del grave problema delle mutilazioni genitali femminili (MGF) che sia Ali Farah che Scego trattano spesso anche nei loro testi narrativi. Inoltre le due scrittrici cercano di diffondere il messagio per una campagna di sensibilizzazione a proposito di questo problema, raccogliendo interviste di donne infibulate e facendo il resoconto delle loro sofferenze. Nell’articolo intitolato La donna violata42 pubblicato sulla rivista online «Kùmà-Creolizzare l’Europa» Igiaba Scego intervista una donna, Amina, che descrive i diversi tipi di pratiche dell’infibulazione, che sono in tutto tre, e poi racconta il tragico destino delle donne infibulate in tante parti del mondo. Anche in Italia, come in altri paesi d’Europa, negli Stati Uniti e in Canada questa pratica è molto diffusa tra le comunità immigrate da paesi in cui l’infibulazione viene regolarmente praticata. Un altro tema sempre presente, sia nelle loro opere di narrativa sia pure nella loro attività di giornaliste e mediatrici, è il problema della diaspora, anche perché biograficamente le tocca in prima persona. Intenso è ancora l’impegno di Igiaba Scego e Cristina Ali Farah nel cercare di far accettare il mondo dell’immigrazione e degli immigrati alla realtà italiana che si sente continuamente sotto assedio da un’invasione barbarica che, secondo gli/le italiani/italiane, non si riesce a controllare. È tagliente a tal proposito l’incipit dai toni severi di un intervento sull’immigrazione di Igiaba Scego, che pubblicato sempre sulla rivista «Kumà-Creolizzare l’Europa», inizia così:

Assedio
Invasione
Occupazione
Aggressione
Accerchiamento
Usurpazione
Calata
Assalto
E altri termini vengono usati sempre più spesso dai media italiani (grazie a Dio non tutti) per descrivere il fenomeno migratorio, spesso in relazione ai recenti sbarchi di migranti nelle coste del Sud Italia.
L’italiano descritto dai media è angosciato, impaurito, arrabbiato, infastidito, spaventato dal fenomeno migratorio43.

Questo è un grido, il grido di chi respinge coloro che vogliono far conoscere le condizioni di vita, le preoccupazioni, i tormenti di chi è stato costretto ad abbandonare i propri luoghi d’origine per stabilirsi altrove. La risposta che le due scrittrici invece costruiscono attorno a questo grido è l’espressione più o meno consapevole di uno scopo ambizioso, quello cioè di riuscire attraverso un processo di costante contaminazione culturale a creare una dimensione nuova, non di semplice integrazione, ma di interazione fra le varie comunità, soprattutto visti i legami che dovrebbero esserci fra somali/somale e italiani/italiane, ma che in realtà mancano.
Proprio perché, secondo me, Cristina Ali Farah e Igiaba Scego occupano anche loro uno spazio “inbetween” nella cultura italiana, mediano, in una prospettiva passata, fra la memoria coloniale e il mancato processo di decolonizzazione, mentre in una prospettiva attuale, fra la periferia del mondo degli immigrati, dei rifugiati e anche dei somali, con il centro rappresentato dagli/dalle italiani/italiane, sordi a queste nuove sfide. È la costruzione di una nuova concezione della nazione moderna, intesa nel senso proposto da Homi Bhabha, che dovrebbe nelle intenzioni delle scrittrici italiane di origine somala plasmarsi alla realtà italiana, trasformandola in un contesto ibrido, di accettazione delle diversità. Queste due scrittrici sono un ponte che tenta di congiungere due centri ancora molto distanti: il loro impegno è grande, soprattutto tenendo in considerazione la delicata situazione d’arretratezza che vive l’Italia a proposito di questi temi.
Questo loro doppio ruolo mette in evidenza l’importanza che queste scritture emergenti hanno nella realtà letteraria italiana: le loro opere, seppur ancora poco numerose, ma non per questo poco rilevanti, si possono inserire in quel filone della letteratura italiana dell’impegno di cui la studiosa Jennifer Burns ha tracciato una panoramica dal secondo dopoguerra fino al giorno d’oggi. Rispetto alle figure di Igiaba Scego e Cristina Ali Farah ci si potrebbe chiedere quale sia o quale dovrebbe essere al giorno d’oggi il ruolo degli intellettuali in generale e degli scrittori in particolare. Le considerazioni di Burns portano a ricostruire il ruolo dell’intellettuale, impegnato o meno, nella letteratura italiana degli ultimi decenni. È un intellettuale che cambia, che da un vero e proprio engagement politico, passa alle forme più moderne dell’impegno rivolto al sociale e all’attualità. Le due scrittrici somale possono rappresentare questa nuova forma d’impegno intellettuale che rispecchia i temi di più stretta attualità legati al mondo dell’immigrazione che si riverberano sull’intera società italiana. Ma le due scrittrici somale giocano sempre un doppio ruolo, non si deve dimenticare, che dall’Italia le porta a parlare allo stesso tempo della loro terra d’origine. E la questione diviene ancor più delicata se parliamo di Somalia, poiché in questo caso si inserisce in maniera decisiva la questione coloniale, del protettorato e del periodo postcoloniale. In queste due scrittrici italiane c’è tutto sostanzialmente, dalla postcolonialità sino ai problemi dell’immigrazione e della relativa accoglienza, che ancora manca, vorrei sottolinearlo fortemente, manca e la strada è ancora lunga. Discutendo della Somalia è come se si tracciasse un cerchio che prova a chiudersi perché la Somalia dovrebbe essere veramente per l’Italia il banco di prova, l’esempio ideale di come uno stato occidentale si dovrebbe comportare nei confronti di una sua ex colonia che versa in una crisi unica ed eccezionale.
Il dato che mi preme maggiormente evidenziare in questo percorso è come sia totalmente venuto meno in Italia quel rapporto privilegiato fra ex madrepatria e ex colonia che ha caratterizzato in maniera decisiva altri rapporti fra alcuni ex imperi coloniali europei e le loro ex colonie. È mancata totalmente la considerazione verso i somali e le loro difficoltà, soprattutto dopo lo scoppio della guerra civile, e nessun aiuto di lunga durata fu pensato per loro dalle istituzioni italiane.
Sicuramente è forte il monito che Cristina Ali Farah e Igiaba Scego lanciano per richiamare un nuovo impegno degli intellettuali che si sentono vicini al dramma somalo e che magari vogliono tentare di portare un qualche apporto alla ricomposizione della situazione bellica. La classe intellettuale somala perse gran parte della propria reputazione nei primi anni Settanta perché si compromise con il potere di Siad Barre, che mirava ad ammodernare il paese progettando numerose riforme: una parte degli intellettuali somali accettò la sfida del dittatore e si incamminò con lui nella falsa strada del riformismo scientifico socialista. Un’altra parte però vide la pericolosità della dittatura e scelse la strada dell’esilio, soprattutto verso l’Italia. Oggi è necessaria la nascita di una nuova classe di intellettuali che aiuti la Somalia a uscire dalla stagnazione attuale. La guerra civile degli anni Novanta ha disperso e cancellato un’altra generazione di giovani menti preziose, ma la lontananza e la diaspora hanno maturato in alcuni studiosi somali la convinzione di dover iniziare una lucida critica delle origini della crisi somala e formulare delle possibili uscite. Uno storico somalo, Ali Mumin Ahad, già professore di storia all’Università di Mogadiscio, rifugiatosi in esilio in Italia, ora trasferitosi in Australia, afferma che:

La coscienza dei problemi nazionali è stata resa possibile soltanto dall’esilio. La lontananza dal luogo delle proprie radici rende più intenso il desiderio di capire ciò che vi succede e di contribuire con le proprie capacità alla soluzione dei problemi, di individuare le cause del malessere e partecipare alla ricerca dei rimedi. […] Se dal passato più remoto passiamo a quello più recente e alla disavventura della guerra civile in Somalia, possiamo constatare che il ruolo degli intellettuali (come coscienza nazionale) ha subito una scossa molto forte. Un ruolo che, per principio, impone la necessità di chiarezza della propria collocazione che, necessariamente, deve essere dalla parte dei più deboli, perché ciò che qualifica l’intellettuale è il suo schierarsi dalla parte di coloro che non hanno alcuna rappresentanza. Se, per caso, vi dovesse essere qualche elemento che impedisce o mette in dubbio questa scelta, anche per un solo momento, è inevitabile la crisi dell’intellettuale. Questa crisi, però, non è riconducibile solo alla difficoltà della collocazione successiva alla guerra civile. La guerra civile l’ha solo accentuata44.

È un richiamo a tutti i somali che vivono in esilio per la ricostruzione di un grande pensiero somalo: è una chiamata che coinvolge in maniera totalizzante anche Cristina Ali Farah e Igiaba Scego, in quanto somale, in quanto scrittrici e pure in quanto italiane. E’ questo, a mio avviso, il progetto politico, qui inteso come collettivo, che coinvolge parte del pensiero di queste due scrittrici. Nella loro volontà, si realizza il carattere di rappresentatività della letteratutura minore formulata da Gilles Deleuze e Felix Guattari.
Mentre nel loro essere donne si realizza la condizione auspicata da Robert Young a riguardo dell’impegno diretto della donna proveniente da un contesto postcoloniale nelle realtà sia postcoloniali che delle ex madrepatrie. L’impegno delle due donne in Italia si indirizza anche verso la loro terra d’origine, si unisce quindi agli intenti delle donne somale della diaspora, che hanno un ruolo fondamentale nel tenere uniti i contatti nella diaspora in ambito familiare, mentre nel campo pubblico stanno cercando di proporre una via di soluzione al conflitto, come dimostra l’esempio della Somali Women Agenda. Questa associazione rappresenta la volontà delle donne somale di uscire dalla condizione subalterna in cui sono recluse le donne dei paesi del Terzo Mondo, cioè della sfera postcoloniale. La donna coloniale, di solito rappresentata come più arrestrata degli uomini, la più esclusa in una realtà già di esclusione come quella di una colonia, cerca finalmente di emergere e di portare il suo contributo alla costruzione di un presente migliore per la realtà nella quale vive o alla quale appartiene. E proprio qui a mio avviso che il pensiero delle due scrittrici italiane si sdoppia: da una parte si colloca la Somalia, con la sua eredità coloniale e la drammatica situazione attuale, dall’altra l’Italia, con la sua negata eredità postcoloniale. Cristina Ali Farah ha in mente proprio lo stesso progetto di novità, di rinascita intellettuale, auspicato da Ali Mumin Ahad quando dice:

Io non so che cosa ne sarà della Somalia, ma ormai sono sedici anni che c’è la guerra civile. Una parte consistente della comunità somala vive all’estero e in più c’è anche, per chi è rimasto lì, questa deriva del fondamentalismo islamico che a me personalmente spaventa molto, perché è ovviamente una strumentalizzazione politica. Secondo me se non si crea una coscienza politica e una coscienza artistico-intellettuale che permetta di lavorare su questi temi, per la Somalia sarà difficile uscire dalla situazione attuale45.

È sempre più delicata la posizione di queste due scrittici che rappresentano già una condizione particolare nella letteratura italiana, in quanto testimoni di una via postcoloniale italiana e per di più diasporica. Oltre a questo aggiungo la finalità dell’impegno, cioè della forte volontà di voler comunicare un messaggio di ordine culturale e civile al di là della mera finzione narrativa, e della riscoperta del ruolo dell’intellettuale di cui loro sono le testimoni. La loro letteratura si caratterizza e si specializza in questo senso, continuando allo stesso tempo a mantenere e a sviluppare un ventaglio molto ampio di contenuti e tematiche. Per tutte queste ragioni passato coloniale, realtà postcoloniale e oggi multiculturale si fondono e confondono e gli sforzi compiuti da Cristina Ali Farah e Igiaba Scego per fare chiarezza su questi temi sono meritevoli di stima e apprezzamento. Lo scopo ulteriore infatti che la lettura e l’analisi di queste opere si pone è quello di aiutare a capire meglio il presente che ci circonda, cercando di fornirci gli strumenti necessari per un’adeguata comprensione. Lo sforzo verso questo ideale che dovranno compiere gli/le italiani/italiane sarà notevole, almeno quanto quello compiuto finora da Cristina Ali Farah e Igiaba Scego.

1 N. Farah, Rigugiati. Voci della diaspora somala, Roma, Meltemi, 2003, p. 98 (ed. or. Yesterday, Tomorrow. Voices from the Somali Diaspora, London-New York, Cassel, 2000).
2 A. Del Boca, Italiani, brava gente? Un mito duro a morire, Vicenza, Neri Pozza, 2005, pp. 47-48.
3 S. R. Fazel, Gabriel, in «El-Ghibli», IV (2008) 19, http://www.el-hibli.provincia.bologna.it/id_1-issue_04_19-section_1-index_pos_3.html, visitato il 15/12/2008.
4 Il sito internet di questa cantante/attrice italiana di origine somala è il seguente: http://www.sabaanglana.com, visitato il 05/01/2009.
5 I. Scego, La nomade che amava Alfred Hitchcock=Ari raacato jecleeyd Hitchcock, Roma, Sinnos, 2003, pp. 8-9.
6 N. Farah, Rigugiati. Voci della diaspora somala, cit., p. 7.
7 Ivi, p. 97.
8 C. Ali Farah, Madre Piccola, Milano, Frassinelli, 2007, p. 1.
9 D. Comberiati, La quarta sponda. Scrittrici in viaggio dall’Africa coloniale all’Italia di oggi, Roma, Edizioni Pigreco, 2007, pp. 58-59.
10 Ivi, pp. 46-47.
11 C. Ali Farah, Madre Piccola, cit., p. 21.
12 Ivi, p. 37.
13 Ivi, p. 49.
14 Ibid.
15 Ivi, p. 112.
16 Ivi, p. 11.
17 Ivi, p.73.
18 D. Comberiati, La quarta sponda. Scrittrici in viaggio dall’Africa coloniale all’Italia di oggi, cit., pp. 53-54.
19 I. Scego, Rhoda, Roma, Sinnos, 2004, p. 25.
20 Ivi, p. 73.
21 Ivi, p. 28-29.
22 Ivi, p. 68-69.
23 D. Comberiati, La quarta sponda. Scrittrici in viaggio dall’Africa coloniale all’Italia di oggi, cit., pp. 75-76.
24 Ivi, p. 80.
25 I. Scego, Oltre Babilonia, Roma, Sinnos, 2008, p. 182.
26 Ivi, p. 39.
27 D. Comberiati, La quarta sponda. Scrittrici in viaggio dall’ Africa coloniale all’Italia di oggi, cit., pp. 80-81.
28 Ivi, p. 82.
29 I. Scego, La nomade che amava Alfred Hitchcock=Ari raacato jecleeyd Hitchcock, cit., p. 9.
30 D. Comberiati, La quarta sponda. Scrittrici in viaggio dall’Africa coloniale all’Italia di oggi, cit., p. 61.
31 C. Ali Farah, Madre Piccola, cit., pp. 144-145.
32 Ivi, p. 144.
33 I. Scego, Rhoda, cit., pp. 34-35.
34 I. Scego, Relazione di Igiaba Scego, in «Eks&tra. Parole migranti», (2004), http:// www.eksetra.net/forummigra/relScego.shtml., visitato il 15/09/2008.
35 D. Comberiati, La quarta sponda. Scrittrici in viaggio dall’Africa coloniale all’Italia di oggi, cit., p. 56.
36 Ivi, p. 64.
37 C. Ali Farah, Vorrei essere, in «El-Ghibli», (2003)1, http://www.el-ghibli.provincia.bologna.it/id_1-issue_00_01-section_4-index_pos_4.html, visitato il 14/07/2008.
38 Ibid.
39 D. Comberiati, La quarta sponda. Scrittrici in viaggio dall’Africa coloniale all’Italia di oggi, cit., p. 65.
40 Ivi, p. 66.
41 Ivi, pp. 76-77.
42 I. Scego, La donna violata, in «Kúmá-Creolizzare l’Europa», (2002) 5, http://www.disp.let.uniroma1.it/kuma/decolonizziamoci/kuma5-decolonizziamoci-scego.html, visitato il 20/10/2008.
43 I. Scego, Migra/stranieri in Italia, in «Kúmá-Creolizzare l’Europa», (2003) 7, http://www.disp.let.uniroma1.it/kuma/intercultura/kuma7-intercultura-scego.html, visitato il 20/10/2008.
44 A. M. Ahad, Africa dall’esilio, in A. Gnisci (a cura), Poetiche africane, Roma, Meltemi, 2002, pp. 107-134 [122-123].
45 D. Comberiati, La quarta sponda. Scrittrici in viaggio dall’Africa coloniale all’Italia di oggi, cit., p. 64.

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Anno 8, Numero 34
December 2011

 

 

 

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