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europa, fra le occasioni perdute e le speranze attuali

božidar stanišić

Alla fine dell’anno 2011, volendo scrivere qualcosa per questo numero tematico di El-Ghibli,sfoglio uno dei miei quaderni di appunti,Kupusara1 (Scartafaccio 1), che, oltre alle mie note, contiene ritagli di vari giornali incollati sulle sue pagine. E’ una delle fonti della mia narrativa e a volte anche di scritti senza un genere preciso.
Mi pare che il caos dello Scartafaccio 1 sinora non sia esploso solo per l’unica ragione di essere tenuto assieme dalla moltitudine dei punti di domanda e esclamativi aggiunti.
Non credo che questo quaderno sia bugiardo mentre ricorda che, alla fine dell’anno 1989 quando l’uno dopo l’altro si scomponevano i puzzle dei regimi comunisti dell’Est, vivevo ancora nell’ex Jugoslavia, né quando sulle sue pagine trovo che anch’io ero uno degli spettatori televisivi del crollo del Muro e poi degli eventi straordinari in Romania, trasmessi al mondo intero dalla Televisione di Belgrado. Allora si poteva ancora godere dell’illusione di essere, seduti sul divano, davvero al centro degli eventi, addirittura piccoli profeti con una chiara visione del futuro, ovviamente migliore. E perché no? Il futuro migliore allora non echeggiava soltanto dalla parte orientale del Vecchio Continente, ma era stato pure lo slogan assordante dell’élite politica ed economica di Bruxelless.
In quel periodo non mancavano pensatori, sia veri che occasionali che paragonavano il crollo del Muro al 1789 francese cui seguiva la pronuncia un po’ enfatica di egalité, fraternité, liberté. Su una delle pagine del mio Scartafaccio 1 ritrovo anche la pagina dell’ampio articolo di un noto quotidiano italiano con il titolo Mitterand - Gorbachov: L’Europa dagli Urali all’Atlantico.
Questo maledetto Scartafaccio 1 non mi lascia in pace e mi avverte che alla fine dell’anno 2009, mentre nell’intero ex Est veniva celebrato il ventennio del crollo del Muro, con numerose bandiere e il vuoto di riflessioni profonde sull’Europa trascinata dagli Usa in una varietà di interventi militari (ovviamente umanitari, quindi per il bene dell’umanità intera), mi domandavo se non dovessi celebrare un altro anniversario, personale e di conseguenza insignificante: i diciassette anni del mio esilio in Italia, quindi in Europa. Tuttavia, anche un immigrato esule, disertore e traditore di più di una patria, può permettersi - nel contesto della liberté innanzitutto consumista, della egalité cosi poco discussa e della fraternité derisa dai poteri finanziari, bancari, produttivi e non solo- se non una celebrazione - ma almeno un incontro con la propria memoria sul futuro migliore.
Nella posizione centrale di questo breve sguardo sulle speranze perdute e quelle attualmente rinate in Europa si troverà un interrogativo apparentemente molto semplice: quanto abbiamo imparato dagli oppositori ai regimi dell’Est che da tempo sono acqua passata? A questo punto, oltre alle note su alcuni scrittori e intellettuali di quelle aree per me importanti come fonte di pensiero critico, ho trovato pure alcuni miei scritti che oggi mi sembrano più pertinenti che nel momento in cui li avevo buttati sulla carta.

*

Un mio conoscente friulano, ingegnere esperto di industrie pesanti, negli anni settanta e ottanta andava spesso in Ungheria. Oltre alla collaborazione lavorativa aveva legami amichevoli con suoi colleghi ungheresi. E con due di loro aveva stretto un'amicizia di lunga durata; negli anni novanta si facevano visita reciprocamente, ormai sono tutti e tre in pensione.
Lui andava a Budapest, loro qualche volta venivano a trovarlo a Udine.
"Sono rimasti come prima..." mi disse un giorno l'ingegnere udinese.
”Nient'altro che due sognatori!" e peroseguì senza aspettare le mie domande. “Prima del 1989 loro due sognavano un'Ungheria fuori dal contesto dell'Est comunista strettamente controllato da Mosca… Si lamentavano spesso non soltanto per la mancata democrazia, ma pure perchè per gli ungheresi non era facile comunicare con l'Occidente, né viaggiare... Dicevano di vivere una vita del tutto innaturale. Una volta uno di loro era stato ad Amsterdam, l'altro a Londra. E raccontavano di quel breve viaggio con gli occhi socchiusi, come se descrivessero un bellissimo sogno! Ed io? Gli dissi che l'Occidente abbaglia gli occhi! Uno di loro mi guardò come fossi loro nemico e pronunciò lentamente, una sillaba dopo l'altra: ‘Può essere, ma l'Est offusca la mente!’"
"Che conversazione!" esclamai.
"Sii paziente, non è finita!" rispose lui. “A volte mi sentivo quasi colpevole nei loro confronti. Perciò stavo soprattutto attento a non parlare dei luoghi dove andavo in vacanza… E dopo il 1989?”
“Si è compiuto il loro sogno: Mosca lontana, Europa vicina...Anzi, sono nell'Unione!" dissi.
"No, non buttare fuori frasi comuni! Ora dicono di non riconoscersi in ciò che sta succedendo nella loro società... in parte per la resistenza di chi si riconosce nella vecchia politica ma non solo... Ora dicono che il capitalismo selvaggio è una bestia feroce difficile da addomesticare. E che i nuovi ricchi della foresta neocapitalista ungherese sono i nemici sociali peggiori dei membri dell' ex Comitato centrale comunista! Ahimè, pensano di essere caduti da una crisi dell'epoca comunista ad un’altra crisi, purtroppo meno visibile perché è innanzitutto etica! Riesci a immaginare perchè la pensano così?"
Mi mise davvero in difficoltà. Non avevo una risposta.
"Perchè le luci dei nouvi tempi sono troppo abbaglianti! Lo dicono loro, non io! E tu, che hai da dire in merito?"
Che cosa potevo dovevo rispondergli? Che per osservare e per combattere una crisi etica non bastano due sognatori anche se pensano usando il proprio cervello e il proprio cuore? E che noi due, se avessimo proseguito a discutere, avremmo potuto assomigliare a due personaggi di Diderot, Rameau e suo nipote? Entrambi però deformi e fuori luogo!
Tacqui.
Poi parlammo di una ricetta di, che si pratica molto a Szeged, nel sud dell'Ungheria. "Un gulasch ottimo!"
Gli diedi ragione.

*

Anni fa, durante una conferenza sul tema delle letterature dell’Est Europa dovetti rispondere ad una domanda semplice solo a prima vista: nell’Europa dopo il Muro quanto sono davvero vivi i messaggi della resistenza degli scrittori e dei pensatori che avevano avuto il coraggio di manifestarsi oppositori ai regimi di allora?
“L’Europa non ha imparato nulla dai suoi figli orientali del pensiero libero”.
La mia risposta, quasi laconica, suscitò delle reazioni diverse, sino al dubbio che fosse pronunciata da un ingrato, accolto bene in Italia, che volesse letterarmente sparare qualcosa solo per attirare l’attenzione.
Purtroppo, le mie risposte erano molto precise, a partire dalla critica espressa da Günter Grass qualche anno dopo il crollo del Muro.
Faccio una breve sintesi delle sue parole: quando esistevano l’Unione Sovietica e il Patto di Warszawia ogni dissidente che fosse riuscito a fuggire dagli spazi del dominio del pensiero unico veniva accolto e spesso pubblicamente esposto ai riflettori dei massmedia; crollato il Muro, non c’erano più riflettori per coloro che fuggivano dalle guerre (inclusi profughi e rifugiati dell’ex Jugoslavia), né dall’impoverimento e dalle ingiustizie del Terzo Mondo.
Con Grass o senza Grass, possiamo chiudere gli occhi davanti alle tragedie che accadono nel Terzo Mondo di cui l’intero Occidente non è senza colpe?
Nel post Muro mi sembra che siano i poveri e gli impoveriti a disturbarci innanzitutto nel godere gli idoli della sicurezza, proclamata necessità principale dopo l’11 settembre. Non sarebbero dovuti essere considerati un’occasione per un incontro decisivo con delle realtà del mondo diverse della nostra per entrare in dialogo con loro, alla pari, tutti insieme partecipi ad una tavola continua sulla pace e sulla salvaguardia dell’ambiente? (Che nessuno mi rimproveri l’utopia: ho ripreso una sintesi della proposta di un vasto gruppo internazionale di ecologisti che negli anni ottanta ammoniva l’umanità intera sui pericoli di cui tutti gli abitanti della Terra si sarebbero dovuti interessare.)

*

Ecco, in medias res: Abbiamo imparato qualcosa da Karel Kosik (1926-2003), cuore pensante della Primavera di Praga? E quanto da Czeslav Milosz, autore de La mente prigioniera? O da Danilo Kiš (1935-1989), dalla sua opera letteraria da cui spiccano pure degli interrogativi sulla nostra volgarità nel pensare l’altro e il diverso? Dai poeti del libero pensiero…, polacchi, cechi, russi, ungheresi, rumeni ed altri?
Poco o nulla, ripeto anche oggi, chiedendomi se il futuro non solo degli italiani, dei greci o degli spagnoli, ma di tutti gli europei consista nel temere per il destino dell’euro e per l’oscillazione degli indici delle borse, che sono una vera spada di Damocle per tutti. Oppure il futuro, nell’indifferenza quasi generale, è già delineato dai progetti per la partecipazione ai vari interventi militari nel mondo ovvero si trovi dove c’è l’interesse economico soprattutto delle multinazionali?
E se fosse vivo Karel Kosik (su cui vorrei soffermarmi di più), avrebbe applaudito dicendo che il pensiero umano su questi fenomeni si sarebbe dovuto fermare per una semplice constatazione, che piace, ad esempio, ai vari Luttwak della nostra epoca: il comunismo reale è morto. E, in conseguenza, che nessuno osi opporsi alla filosofia del libero mercato, cioè alla impossibilità di umanizzare la condizione umana. Kosik oggi sarebbe chiaro: abbiamo la democrazia ma è incompiuta, ed è tale perché non è abbastanza umanizzata. Quindi, l’Europa attuale è un insieme di occasione perdute?
Nella sua continua ricerca filosofica nei tempi bui del pensiero unico Kosik aveva il coraggio di sostenere la tesi che l’essere dell’individuo consista nella totalità della specie, cioè che l’esistenza sia possibile solo se viene realizzata nella totalità. E la totalità, secondo Kosik, richiede impegno continuo nel percorso dell’umanizzazione della condizione umana. Il socialismo di allora doveva umanizzarsi o scomparire.
Non per caso ne La ragione e la coscienza Kosik parte dalla lettera del teologo Jan Huss (1360-1415) scritta il 18 giugno 1415 durante i dibattiti del Concilio di Costanza: "Se sarò obbediente al Concilio - mi disse un teologo - tutto finirà bene. E aggiunse: Se il Concilio dichiarasse che tu hai un occhio solo anche se ne hai due, il tuo dovere sarebbe di obbedire al Concilio. Ed io gli risposi: “Anche se l'intero mondo lo sostenesse, io - avendo la mia ragione, tale com'è - non lo permetterei senza la resistenza della mia coscienza”. Kosik, sostenendo che questa riflessione sia di quelle immortali che ci rivelano le verità di base sul mondo e sull’uomo, ritiene che chi ne sia privo sia un uomo spaesato.
"Chi è l'uomo senza radici né base umana?" si chiede.
E risponde, con le parole di Jan Huss: "E' colui che ha perso la ragione e la coscienza..."
Kosik però approfondisce l'argomento sui legami fra la ragione e la coscienza domandandosi quanto esse siano sospette nei tempi moderni, quindi non limitandosi al comunismo, nè al capitalismo. In qualche modo lo vedo vicino al pensiero di Fromm, che ha esaminato la volontà dell’ individuo di fuggire dalla libertà dei tempi moderni. “L'uomo crede di volere la libertà…” pensa Fromm. “In realtà ne ha una grande paura. Perché? Perché la libertà lo obbliga a prendere delle decisioni, e le decisioni comportano rischi. […] Se invece si sottomette a un'autorità, allora può sperare che l'autorità gli dica quello che è giusto fare, e ciò vale tanto più se c'è un'unica autorità – come è spesso il caso – che decide per tutta la società cosa è utile e cosa invece è nocivo.”
E una simile fuga conviene perché non pesa sulla coscienza?
Attualmente, mentre gli indignados europei e americani parlano chiaramente della necessità di collegare ragione e coscienza, mi si impone lo spirito dell’opera di questo filosofo boemo, oscurato per varie “ragioni” sia nella sua patria (il suo pensiero era rimasto di sinistra malgrado il trasformismo di moda fra gli intellettuali) che nell’Occidente intero (morto il comunismo, mandiamo al museo i dissidenti insieme al loro pensiero).
Non credo che gli indignados conoscano l’opera di Kosik, né quanto la sua ricerca fosse nutrita sia dal pensiero filosofico del secolo breve che dalla profonda esperienza sociale e culturale del ‘piccolo’ popolo ceco, ma attaccando oggi i luoghi simbolo della alienazione della specie umana, loro affermano la volontà del ritorno ai valori basilari dell’umanità.
Il pensiero di Kosik, allora filosofo scomodo alla ricerca di un socialismo dal volto umano, credo ci provochi anche oggi.
Trovo una delle ragioni per queste provocazioni nei tanti spaesamenti, sia attuali che del passato, degli europei. In cima al loro cumulo dovrebbe esserci l'orientamento decisivo per un Europa che ripudi la guerra, quindi di un Europa determinata alla ricerca delle vie di pace nell'intero mondo e di un’Europa corifeo dell'importanza universale dei diritti umani. Dovrebbe esserci, ma non c’è. L’Europa neo-neocolonialista del futuro migliore non è una chimera, ma un fatto della storia attuale. E fa parte dell’Occidente per nulla disposto a dialogare con il resto del mondo (con l’eccezione di coloro che sono mebri del G20, ovvero sia del gruppo di chi conta in questo Mondo). Non per caso Gianna Nannini, cantautrice italiana si rifiutò di partecipare al palcoscenico della festa del cinquantesimo anniversario dell'Unione a Berlino:
"Troppa retorica, io non suono..."
La ragione e la coscienza…
Quante volte avevo ricordato Kosik mentre in Europa veniva sollevata l’integrazione degli immigrati, con troppa retorica e netta mancanza di consapevole ragionevolezza, particolarmente in Italia che sinora non si è messa al centro dell’area euro-mediterranea; anzi, pare si rifiuti di starci mentre sia per la sua posizione geopolitica che per quella storica e culturale sarebbe più che normale. Pure questa problematica, non casualmente accennata, spesso mi induce a riflettere su ciò che sarebbe dovuto succedere in Europa e in Occidente dopo il crollo del Muro di Berlino: un processo politico e sociale, se non di disarmo assoluto ma almeno di una vera denuclearizzazione e di una demilitarizzazione per trovare le via verso la realizzazione di un progetto economico, ecologico ed energetico diverso dalle imposizioni dei più forti e più ricchi. Perchè non è successo? Trovo una delle risposte ne La mente prigioniera di Czeslav Milosz, l’opera in cui egli, rievocando L’insaziabilità, romanzo profetico di Stanislav Witkievicz, pubblicato nel 1932, aveva fatto un’analisi lucida del Verbo di Stalin e della Nuova Fede. “I protagonisti del libro di Witkiewicz sono infelici, in quanto non hanno nessuna fede e non attribuiscono nessun significato al loro lavoro. Mentre codesta atmosfera di corruzione e di disennatezza permea l’intera nazione, nelle città compare una fitta schiera di venditori ambulanti che smerciano le pillole Murti Bing. Murti Bing è il nome di un filosofo mongolo, cui è riuscito di fabbricare un composto organico atto a trasmettere una speciale filosofia della vita. Ed è proprio codesta filosofia della vita contenuta in pillole di grandissima efficacia, che rappresenta la forza dell’esercito sino-mongolico. Chiunque faccia uso di quelle pillole subisce una radicale trasformazione; diventa sereno, considera superficiali e trascurabili i problemi contro i quali ha inutilmente combattuto nel passato, sorride con indulgenza a quanti continuano a preoccuparsene.” Quante pillole Murti Bing sono state mangiate nell’Italia berlusconiana? Quante nell’indifferenza del borghese medio e piccolo nell’intero Vecchio Continente? Quante nei confronti delle decisioni delle élites politiche e militari che vanno a “esportare” la democrazia e nello stesso tempo risucchiano le risorse energetiche altrui? E quante durante l’esplosione delle nazioni (Nicole Ianigro) ovvero dei nazionalismi nell’ex Jugoslavia e altrove, sui quali il Parlamento della Comunità Europea sinora si è dimostrato compatto solo nel caso Heider?
Se fosse vivo, Danilo Kiš si chiederebbe ancora se tutto ciò avesse e abbia qualche legame con una religione, un’etica. Egli, prima di morire, ricordò che a Jalta non esisteva nessun Dio, né una morale – solo tre uomini che volevano dividere il mondo. Oggi Kiš sarebbe chiaro: esistono molti uomini senza Dio, né morale che intendono impoverire il resto del mondo strumentalizzando il disimpegno politico e sociale delle masse.
Ma, con dispiacere dei centri del potere in Europa, una parte del mondo si sta svegliando. E non è soltanto indignata, ma pure propositiva, soprattutto nell’intenzione di interrogarsi sulla responsabilità sociale di ogni individuo, della sua ragione e della sua coscienza. In Europa e altrove, ma in Europa soprattutto, con un messaggio molto chiaro: si salvi dal proprio tramonto!
Ne L’Arcipelago, libro profetico di Massimo Cacciari, è approfondito quel concetto di "tramonto" dell'Europa che l'autore aveva precedentemente delineato in Geofilosofia dell'Europa. Cacciari è preciso: il mare che circonda l'arcipelago (Europa) non e' l'oceano - deserto disumano e inospitale - ma il Mediterraneo, ponte fra isole, luogo di confronti, relazioni… Certo, anche di conflitti, ma da sempre logos comune fra le isole. Un logos, quindi, che potrebbe essere compreso come metafora di una primavera intramontabile sia di pensiero che di poeisis, cioè del fare. I media più influenti, cioè i centri di informazione pagati dai più ricchi, che sinora hanno usato il termine primavera (questa o quella, araba o libica non importa), pare che nei loro sistemi di informazione ancora non siano pronti ad inserire, né a pronunciare primavera per nominare giustamente le proteste sotto le nostre finestre comuni. Né sono in grado di far capire che un sistema economico-finanziario e del tutto antiecologico si è consumato. E che solo coloro che non sono rimasti privi della ragione e della coscienza riescono ad ammonirci che non dovremo essere ridotti all’Uno, tragico e violento, cancellatore della memoria e della progettualità di un futuro possibile e più umanizzato, né privi di speranze.

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Anno 8, Numero 34
December 2011

 

 

 

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