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(questa è la prima parte di un diario di viaggio in Myanmar che una nostra collaboratrice, la scrittrice nepalese Sushma Joshi, ci ha inviato. La seconda e ultima parte uscirà nel prossimo numero)
Il mio volo per Yangon del 18 giugno è stato cancellato. La Thai airways annuncia che hanno chiuso l’aeroporto di Yangon per le pesanti piogge. Nell’irrequieta oscurità della sala d’aspetto iniziano a spargersi le voci. L’esercito birmano ha occupato l’aeroporto, sussurra la gente. Manca un giorno al compleanno di Aung San Suu Kyi. È capitato qualche avvenimento mentre sono stati fuori? I giovani padri siedono fissando il vuoto, chiedendosi se potranno mai tornare a casa.
Ci portano all’Amaranth Hotel, un hotel di lusso a cinque stelle nella zona dell’aeroporto Swarnabhoomi di Bangkok. Con la mia chiavetta mando una mail a un’amica di Washington per chiederle di controllare Twitter. In pochi minuti ho la risposta: in realtà un aereo ha slittato sulla pista all’aeroporto di Yangon. I voli che dovevano atterrare lì sono stati dirottati a Singapore.
L’aereo andrà a Yangon il giorno dopo. A un incrocio trafficato, un ragazzetto dei giornali mi mostra rapido alcune notizie illegali stampate sul The Nation, un giornale tailandese. La prima pagina è ripiegata per nascondere i titoli all’interno: I ribelli di Kachin riprendono gli scontri al confine, minacce di guerra civile. Solo tremila kyat (circa 4 dollari), dice. Mi viene un brivido stile Hollywood quando vedo le notizie nascoste con tanta discrezione dietro la prima pagina passarmi rapidamente davanti agli occhi.
Nel ristorante dove vado a mangiare, la proprietaria, una donna gentile, inizia a parlare con me dei ribelli di Kachin. La gente protesta, dice, perché i vantaggi della nuova diga idroelettrica attualmente in costruzione saranno tutti per la Cina. Il fiume Ayerawady andrà in secca e gli abitanti di Kachin non otterranno niente in cambio. Si sorprende che io non ne sappia ancora niente. “Pensavo che lei fosse una giornalista venuta per farci un servizio,” dice eccitata. Lo nego ma mi crede a stento: come faccio a non essere una giornalista? Di certo non sono una turista e devo essere venuta fin lì per una qualche ragione precisa.
Mi ricordo che l’ultima volta che sono stata in Birmania, quando avevo viaggiato su un pickup per Lashio, un funzionario statale mi aveva guardato e poi chiesto: È una scrittrice? Devo aver scritto addosso: sono una scrittrice, ho pensato allora leggermente turbata. Col senno di poi, non era poi così falso: quale turista nel pieno possesso delle facoltà mentali avrebbe viaggiato su un pickup verso Lashio, pigiata tra una trentina di operai, a sedere sul retro con un’enorme catasta di merce e con un tappetino di plastica per cuscino? Avevo ammesso di essere una scrittrice, in un certo senso, ma non mi dovevo preoccupare, il funzionario continuò dicendomi che il Myanmar stava introducendo alcune norme democratiche e sarebbe presto diventato come le altre democrazie, che non aveva mai preso la linea aerea di stato Myama Airlines e che sentiva che il Myanmar avrebbe adottato, lentamente ma con certezza, la libertà politica degli altri paesi. Ammirava gli scrittori e voleva scrivere in inglese.
Certo, lui era un funzionario statale i cui figli studiavano nelle migliori scuole, come prontamente aveva sottolineato. I suoi tre figli dalle guance rosee andavano in uno dei migliori collegi del paese a Maymo, dove li stava andando a prendere per portarli a fare una breve vacanza. La gente comune mi aveva detto: solo i funzionari statali riescono a mandare i figli in buone scuole, a comprare una proprietà o a iniziare un’attività commerciale. Noi non possiamo fare niente. Era probabile in questo caso, ma il funzionario era talmente piacevole, educato e gentile e tanto apertamente dalla parte di un sistema democratico che era difficile biasimarlo. Malgrado tutto ciò, non ero sicura di quello che avrei dovuto rivelare: l’aver detto che scrivevo un libro sulla comunità Gorkhali in Myanmar avrebbe attirato attenzioni indesiderate? Volevo che i funzionari statali mi facessero troppe domande? Non ne ero certa, e nella confusa mancanza di informazioni, era meglio tacere.
Per tornare al ristorante di Yangon, scuoto la testa e dico: “No, non sono qui per fare un servizio sulla ribellione dei Kachin.” La proprietaria è sorpresa, e riprende a raccontarmi la storia di cosa sta accadendo a Mytkyina, quasi come se il motivo della mia venuta in Myanmar non le importasse purché fossi testimone di cosa stava succedendo laggiù. Avevo studiato, era ovvio. Sapevo parlare e scrivere in inglese. E questo mi dava credenziali sufficienti per essere una testimone.
Leggendo il New Light of Myanmar, il giornale diffuso dal governo, vedo che i ribelli di Kachin hanno ripreso a combattere proprio a Mytkyina, dove sono diretta. Le notizie dicono che i Kachin stanno protestando contro la costruzione di una diga ad opera della Cina. Hanno già fatto saltare 22 ponti. Il giornale alterna il bastone e la carota: avvertimenti verso chi è contro lo sviluppo, e appelli affinché i ribelli si ricordino di far parte dello stato del Myanmar e che hanno la possibilità di sedere al tavolo del negoziato se accettano di sostenere le politiche dello stato.
Fatemelo ammettere proprio qui: non sono una di quelle che vanno in cerca di avventure. Mi trovavo in Myanmar per scoprire qualcosa di più sulla storia, la cultura e abitudini della comunità nepalese lì. Se i combattimenti si stavano verificando proprio dove ero diretta, forse non sarei dovuta andare. A differenza di molti miei amici, non sono una fanatica dei conflitti. E mentre il ritrovarsi la testa spaccata dal manganello di un poliziotto durante le marce di protesta del movimento per la democrazia in Nepal costituiva un simbolo d’orgoglio (si potrebbe dire un simbolo d’onore) per molti dei miei contemporanei, io tendo a essere più prudente: seguendo il consiglio di mia madre, sono propensa a tenere in serbo le mie cellule cerebrali per altre attività.
Ma esattamente come programmato, volai a Mytkyina il giorno seguente. Il biglietto da 308 dollari sembrò esorbitante, ma l’avevo pianificato da mesi quindi non c’era motivo adesso per fare marcia indietro. Mi entusiasmava la visita al Gorkhali gomba (tempio buddista), descrittomi con dovizia di particolari dai seguaci buddisti Mahayani a Pwe Oo Lin. Mi entusiasmava anche vedere i 300,000 nepalesi all’incirca che vivevano nello stato di Kachin. Con villaggi chiamati Rampur, Sitapur e Radhapur, avevo la sensazione che avrei visto più Nepal a Mytkyina di quanto avessi previsto. Chiaramente, con la mia abituale mancanza di programmi, non mi ero portata dietro alcun numero di telefono; solo la sensazione che tutto sarebbe andato per il meglio.
Non mi dovevo preoccupare. Ad aspettarmi fuori dall’aeroporto c’era la mia guida nepalese scovatesori Mr Bijay Adhikari. Mr Adhikari guidava il taxi per andare all’aeroporto. All’inizio lo scambiai per un afgano; magari qualcuno dimenticato in questo remoto avamposto del mondo, reperto di qualche guerra passata. Poi mi chiese: “Da quale paese viene?” E quando risposi, “Nepal”, disse “Anch’io sono nepalese. Lei non si preoccupi. La porto dove vuole.”
Viaggiare in Birmania è come viaggiare nel mio stesso paese. Ogni cittadina in cui sono stata aveva comunità nepalesi che mi invitavano a fare due chiacchiere, che mi chiedevano di far visita ai loro hotel e ristoranti e che mi fornivano una piacevole e immediata compagnia. “È il Myanmar,” ogni tanto qualcuno mi ricordava gentilmente, quando parlavo del mio entusiasmo e della fortuna di poter visitare la “Birmania”.
Da donna sola, in Birmania non mi sono trovata di fronte a molestie di alcun tipo, e non ho avuto paura. Anzi al mio arrivo mi è stato detto come prima cosa: “Non c’è niente di cui temere in Birmania. Qui la gente va in giro con lakhs di kyats1 in mano. Nessuno si azzarda a derubarti. Ci sono occhi che osservano dappertutto.” Il meccanismo di sorveglianza che rende possibile uno stato draconiano rende anche possibile una sicurezza personale estrema per cittadini e viaggiatori. Forse questo assoluto senso di legge e ordine mi ha cullato in un falso senso di sicurezza, conducendomi verso l’episodio che poteva aver avuto conseguenze quasi fatali. Questo è stato il mio unico attimo di terrore in Birmania.
Per la festività di Shivaratri 2011, avevo deciso di visitare il Tempio di Shiva a Sankhai, una zona remota a circa un’ora da Hsipaw. Il Tempio di Shiva venne costruito 108 anni fa dopo che gli operai si rifiutarono andare avanti con la costruzione. Dalla terra era magicamente sgorgato del sangue, dicevano. Il dio Shiva era adirato e si doveva erigere un tempio in suo onore. L’amministrazione coloniale britannica che stava costruendo una strada aveva, con riluttanza, fatto marcia indietro e aveva concesso che la strada cambiasse percorso durante la costruzione del tempio.
Con una disposizione d’animo da “Lonely Planet”, dove tutto sembra sia fattibile per conto proprio, misi alla prova la mia buona sorte prendendo un mezzo pubblico fino al tempio nel bel mezzo del niente. Una schiera di stranieri amichevoli mi aiutò a salire sul mezzo giusto: un piccolo minivan, per il quale pagai 1000 kyat in più della gente del posto. Dopo essere stata scaricata in ciò che sembrava un avamposto dell’autostrada fui subito raccolta da un volontario del festival nepalese che mi mise su un tuk-tuk2 con una famiglia Punjabi, che tenendomi per mano tra le allegre canzoni di Bollywood mi accompagnò al tempio, a mezz’ora di distanza. Rimasi felicemente nel luogo del pellegrinaggio per qualche ora, mangiando con la famiglia, chiacchierando con lo zio che parlava nepalese. Forse stavo sopravvalutando la mia buona sorte.
Quando venne il momento di tornare a Hsipaw, però, mi ritrovai da sola. Gli stranieri amichevoli della mattina furono rimpiazzati da persone che sembrava non sapessero davvero che farsene di me, e intanto stavo lì, senza aiuto, rendendomi conto che la città a un’ora di distanza era fuori dalla mia portata più di quanto avessi pensato. Trascorse un’ora mentre camion dopo camion stipati di persone mi passavano accanto. A un poliziotto fu dato il compito di fare segno ai veicoli di fermarsi per me. Il gentile poliziotto si mise in mezzo alla strada fermando qualsiasi mezzo. Erano tutti pieni. Oppure erano diretti da qualche altra parte.
Quando il sole iniziò a scomparire e io stavo iniziando a perdere le speranze, vidi accostarsi un taxi bianco con la musica alta. Dentro c’era un autista indiano. Aveva musica di Bollywood a tutto volume. Quasi subito mi resi conto che qualcosa non andava, ma le circostanze mi ci fecero infilare dentro e dire: “Hsipaw, le do 15,000 kyat” malgrado la mia inquietudine.
Il poliziotto mi chiuse la porta con formalità, il suo compito era finito. Non appena il taxi sgommò via mi resi conto che avevo fatto un errore. Lo stereo picchiava forte musica di Bollywood. Quasi subito mi accorsi che la canzone era cantata da una donna e le parole, a sfondo fortemente sessuale, parlavano di uno stupro. Un piccolo schermo sul parabrezza mostrava le canzoni in Technicolor. La donna implorava: non violentarmi, non uccidermi. Rumori di risate da maniaco e vetri rotti sovrastavano il suo ansimare.
La Lonely Planet, sfortunatamente, non ha soluzione per questo tipo di situazione. Mi si ghiacciò il sangue.
“Per favore abbassi il volume,” dissi più calma che potei. L’uomo si accigliò. Si sporse in avanti e alzò ancor di più il volume, al massimo. Il suono era frastornante. Il cuore cominciò a battere. Stavamo svoltando ora verso la giungla della Birmania. La strada era alquanto deserta ma ogni minuto veniva un veicolo dall’altra direzione. Era ancora giorno. Presi in considerazione le opzioni che avevo. Sarei dovuta stare nel taxi fino al crepuscolo, se non dopo. Ovviamente non volevo trovarmi intrappolata in un taxi con quest’uomo nel mezzo della giungla birmana. “Ferma,” dissi, vedendo un centro urbano. L’uomo esitò, poi rallentò. Uscii. La famiglia birmana seduta vicino alla casa di legno sembrava povera ed erano vestiti di stracci. “Per favore, avete un telefono?” chiesi disperata. Mi fissarono con lo sguardo assente. Alzarono le spalle. Era ovvio che non capivano una parola d’inglese. Mi resi conto che non potevano aiutarmi.
Tornai nel taxi. L’uomo mi guardò di traverso. Era chiaro che ero indifesa e questo lo incoraggiava. Prese a lisciarsi i capelli all’indietro e a fumare con maggiore foga. Iniziò a rallentare la macchina intenzionalmente ogni volta che c’era un tratto isolato, come per lasciare intendere che era il momento di mettere in atto le sue fantasie. Allah, Allah, un canzone con ritmo incalzante che comprendeva questa cantilena proveniva ora dal suo video Bollywoodiano. Mi chiedevo se per caso mi fossi inavvertitamente ritrovata in qualche odio da incubo riguardante la spartizione induista-musulmana che doveva essere finita da tempo, tranne forse in Birmania dove la gente sembrava vivere ancora negli anni ’40. Allora mi ricordai di una macchina bianca che mi era passata vicina circa mezz’ora prima che comparisse questo qui: era quasi come se mi avesse visto aspettare nella strada e fosse tornato la seconda volta col preciso intento di fare del male. Nel momento esatto in cui la macchina cominciò a rallentare davvero, presi una decisione rapida. Con la coda dell’occhio vidi 4 ragazzi che erano scesi dalle motociclette per una pausa romantica. Stavano per risalire sulle moto per sfrecciare via.
“FERMA!” ordinai. Il tassista, sorpreso, si fermò. Saltai fuori e corsi verso di loro.
“Aiutatemi, per favore!” dissi. “Vado a Hsipaw. Portatemi con la moto.” I ragazzi mi guardarono assenti. Chiaramente ero in agitazione e fortemente in preda all’angoscia e al panico. Allo stesso tempo non c’era posto sulle moto. Si consultarono tra loro. La ragazza era irremovibile sul fatto che il suo ragazzo non caricasse una terza persona.
“Mi dispiace,” disse il ragazzo esitante. “Andiamo a Mandalay.”
“Da qualsiasi parte!” dissi disperata. “Non mi importa. Vado a Mandalay.”
I ragazzi si consultarono. Poi il giovane disse, “Questo camion viene verso di noi. Glielo possiamo fermare.” Il camion che veniva verso di noi molto, molto lentamente era vecchissimo. Si trascinava come una gigantesca e lentissima tartaruga con un carapace di metallo. Mi venne quasi da piangere dal sollievo. “Vi prego,” li implorai. “Mettetemi su quel camion.” Il ragazzo tornò dopo cinque minuti di discussione con il camionista. “Sì,” disse. “La porterà a Hsipaw. Ma ci vorranno tre ore.” Non mi interessava se ci volevano 24 ore. Il giovane mi aiutò a sollevarmi fino alla cabina. Un ragazzino, imbronciato, fu spedito dietro e io presi il suo posto. Subito, quando osservai le persone lì dentro, il calore e la sicurezza della Birmania tornarono in me: il camionista, la moglie, la loro giovane figlia e un bambino addormentato al seno. Non posso spiegare la magia di quel viaggio sul camion senza usare un milione di parole. Quel giorno ci trascinammo verso Hsipaw a un chilometro l’ora. Fuori c’era il sole nel suo lento splendore arancio e io non avevo mai visto la bellezza della Birmania così nettamente come accadde durante quel viaggio al crepuscolo.
Quando scese la notte il camionista si fermò. Scese. Dieci minuti dopo circa, tornò e mi disse qualcosa, indicando il retro del camion. Misi cauta la testa fuori dalla cabina, riluttante e scendere. Avevo avuto la sensazione che non volesse davvero andare a Hsipaw, forse era fuori dal suo tragitto, forse pensava che non gli avrei dato i soldi. Ma io non avevo intenzione di lasciare quella cabina calda. Dietro di noi c’era un taxi bianco, fermo. Ci aveva seguito per tutto il tragitto? “Veloce,” disse l’uomo. “Camion lento.” Scossi la testa. “No. No,” dissi decisa e tornai dentro. La donna capì immediatamente dalla mia espressione cosa era successo. Mi scese una lacrima; ero esausta. Non si disse altro.
Quando arrivai a Hsipaw, tentai di dare loro la tariffa del taxi con l’aggiunta di qualcosa. La donna rifiutò con fermezza, quasi inorridita, come se prendere soldi da una straniera bisognosa fosse impensabile. Erano chiaramente poveri e i soldi che stavo loro offrendo sarebbero stati utili. Ed era altrettanto chiaro che non li avrebbero presi. Mi sentii umiliata per aver pensato che erano stati riluttanti ad andare a Hsipaw perché credevano che non li avrei pagati per il passaggio. La gente della Birmania vive con dei valori molto più alti rispetto agli scambi economici commerciali che sono arrivati al punto di dominare la vita moderna in quasi ogni altra parte del mondo. In quel momento, mentre mi trovavo sotto il finestrino del camion e li salutavo agitando la mano, avevo appena ricevuto una lezione di vita sulla bontà dei valori umani che noi nel mondo iper-globalizzato stiamo iniziando a scordare, ma che formano ancora le relazioni e gli scambi in Birmania.
Ero arrabbiata che fosse stato un indiano a dare origine a un incubo in Birmania. Ero arrabbiata per il fatto che in Asia circolasse quella stupida cultura di Bollywood fatta di stupri e omicidi come fosse una grande tradizione cinematografica e che nessuno nel subcontinente protestasse per questa porcheria misogina e brutale che esportano come grande offerta cinematografica. Gli stessi birmani erano stati dappertutto tanto affabili, ospitali e gentili verso di me. Per cui quando feci ritorno a Mytkyina durante il mio secondo viaggio in Birmania, sapevo che cosa dovevo fare: stare incollata ai nepalesi e mai viaggiare da sola.
1 Secondo la numerazione indiana 1 lakh equivale a 100,000 nella numerazione italiana. Il kyat è la moneta nazionale birmana
2 Pittoresco taxi a tre ruote usato in quasi tutta l’Asia.
[Continua]