Nota biografica | Versione lettura |
Dicono che parlare
con i morti sia folle. Ti ho scritto
decine di volte dopo il quindici ottobre
fino a farmi più vecchia, a raggiungere
gli anni nei quali potrei
esserti madre, e stasera nel buio
improvvisa risponde una voce
non tua - una voce
di cose: da un parco lontano nel cono dei fari
bambini rincorrono un cane tra i pini e le rose.
Dai tempi dell’infanzia
prati pasoliniani dei fruts che sono lingua
alla sera nel trifoglio tornano
dove gli arcobaleni esili di ciglia
la prima volta lanciano
il grido della terra dal diluvio
all’altezza deserta dei cieli
asserenati. Il silenzio
profumava di viola, di case apparecchiate,
di cemento dalle caserme
nude, addormentate. Le camerate
erano camere d’infanzia,
freddo e amore.
Né sapevamo ancora come il gelo
penetra le ossa sulla terra
dei campi e delle strade di Berlino
molto prima che diroccasse il muro e tu passassi
l’altro più tenace e perentorio che conduce
di là dalla storia e da ogni tempo.
Nel buio della tenda o dentro
l’abitacolo piccolo di un’auto
ascoltavamo musica dai sogni
e non avresti mai creduto di trovarti
in breve nella schiera delle Silvie,
delle Arlette, di tutti
gli ’ αωροι anzitempo morti,
perché cari agli dei.
In quest’ora di desideri
in cui il vuoto si riempie
di presenze e di ombre lo squillo
che lacera l’aria non è insulto di taglio
ma la ferita pietosa che incide che schiude
la via. La resina, il miele
odoroso che suppura
una lunga gestazione di dolore
di vita, si versa, cerca
la grazia del buio della notte
al frutto ch’è maturato dentro
le esili pellicole dell’esserci, non
esserci e trapela
nella clessidra del mondo rovesciata, cola
dall’io al tu, dal tu all’io.
La mano che mi ha ricondotto
dal fondo nella vita, nel fondo della vita
è lontana. Chi ha scavato la luce, chi ha dato
la carezza di un corpo è irraggiungibile,
per caso, per impegni,
per futili disguidi di costi e di telefoni,
per gli anni, soprattutto, nei quali potrebbe
essermi figlio (né immagina forse e stupirebbe
di essermi Orfeo e Beatrice
nell’Ade quotidiano dell’esistere), eppure
tu rispondi.
Dalla quinta nera degli ontani
che niella l’oro del cielo
la tua casa spalanca le sue stanze
liberty su intrichi di vie che si spalancano
su murate di porti nell’azzurro:
l’avvenire è di là dalla luce,
dall’epoché del mondo che ride,
dai gridi – čaika čaika – sul mare.
Ci è noto che Lenin sia defunto
e sorrida un cenno tartaro
da zigomi di cera tumefatta
e Stalin trascenda a poco a poco
da nubi mongolfiere e lo trafigga
il cuore che oscilla tra impeto
e disperazione.
Come sai, io stessa pensai che la morte
non è tra le strade peggiori
per chi ami la vita.
Il grande rifiuto che nega
la negazione è germe che afferma
e il bozzolo di nulla è il limite che serba
ancora una presenza. Eppure
con fede più grande di quanta
i grandi avessero alla labile
memoria delle amiche, non io
mi ricordo, ma tu in me ricordi
nella lingua del mondo.
Il ditirambo folle della storia
che ci addusse bambini nelle piazze
– i nostri corpi gelidi incapaci di toccarsi
in un tripudio rosso di baci e poi la pace
desolata in cui le mani
tornano vuote al petto e che vedesti
forse con pupille
immateriali ormai
dalla guerra di sempre –
si sfuma nel silenzio della terra
nel vapore di vita nelle vene.
La morte per la quale si raccolsero
soldati bianchi lungo la tua tomba
si inginocchia lungo gli arativi
di San Possidonio dove giacciono
gli innocenti carnefici dei miei
e lungo la spalletta del castello
dove questa notte ancora imbratta
una mano di sangue e nerofumo
la radice spezzata del mio nome.
La fine dei tempi è questo tempo;
l’eternità il sussurro che modula
la tromba del nulla e questa fuga
di fanciulli e di foglie nell’arco del cielo
e i padri della patria in un sorriso
mite di padri-figli disperati
(un latte d’oro e sangue,
latte d’ombra) e la carezza non visibile
e la pelle non palpabile
e il respiro.
Il sogno dell’apostolo è questo tenero
sfiorarsi delle labbra, dita d’aria,
la vita che si strugge a rivelarsi,
farsi intera. Nëpër errëcirë të
dëgjova zënë. Îmi esti aproape.
Prin noapte simt o pîlpîre de pleoape.
Jo i nas ta l’odòur che la ploja
a suspira tai pras nel silenzio
- vivo.