Nota biografica | Versione lettura |
Ci credi tu nel colpo di fulmine?
Io no. Non una persona di sapere come me, uno Sperimentatore di Primo Livello. Nel tempo libero, di solito verso l'ora dell'aperitivo, avevo preso l'abitudine di farmi dei giretti con il temporizzatore. Poi, un giorno che non mi sentivo bene, al posto di muovermi come un ectoplasma nel tempo - cosa che di solito peggiora il mio mal di testa - vidi un reperto cinematografico di due millenni fa ambientato in un castello francese, Carcassonne. Carcassonne è una parola che mi fa ridere. Mi ha sempre dato l'idea di una cosa un po' cadente, un rudere con i merli che ti crollano in testa e i muri interni scrostati a morte.
È nell’antica Francia. I francesi non si arrendevano mai all’opera del tempo: continuavano a ricucire e ricostruire ciò che nemmeno più c’era. Un po’ come facciamo noi adesso, ma loro non per una forma di disciplina e scienza, ma perché erano innamorati. Sospetto che anche noi infine spacciamo per ragionamento ciò che deriva da un interiore groviglio.
Come l’ho capito? Andandoci. Sì, non ci crederai, ma il castello di Carcassonne c’è ancora. Non è una forma di struggente dedizione averlo preservato fino a qui?
Vedo sul mio imager che ce ne sono sei versioni, del castello, il quale deve essersi trovato spesso nelle condizioni disastrate che immaginavo perché altrimenti non l'avrebbero ricostruito da zero tutte quelle volte. Attualmente è una struttura pseudo-vetrosa in glaxoflex, con i tetti come quelli del secondo rifacimento. Pare che siano originali.
Salgo su una torre, attivo il temporizzatore da tasca - un prototipo che mi hanno regalato i colleghi per il mio duecentesimo compleanno - e vedo infine com'era il luogo al principio del 1200. Non è bianco come nel film. È di un grigio caldo e io, da una torre trasparente che sta in un punto dove allora non c'era niente, guardo un mondo che non mi vede.
Ma io vedo lui, e non intendo lui il mondo, ma quell’uomo nel cortile, colui che ho cercato per quasi due secoli. Lo riconosco. Con pudore torno a spiarlo. E questo posto tondo e aguzzo come il mio spirito diventa l’abitudine ingloriosa di un vecchio scienziato.
Salgo in cima a questo cilindro inesistente, mi accovaccio e guardo Jean Claude che si addestra con la spada. Il tetto rotondo è blu, bianco e rosso, a seconda dello svolgersi dei miei pensieri. Forte, l'invenzione dell'arredamento umorale, che permette di modificare i colori che ti circondano seguendo la disposizione del momento. Nei posti molto frequentati i colori cambiano di continuo e sono un po’ fastidiosi, ma la mia torre è chiusa al pubblico. Privilegi del mio status, ma in fin dei conti ho progettato la prima astronave a energia vegetale. Grazie a me il succo di carota porta l'uomo oltre i confini della galassia, e questa scoperta, che mi ha risucchiato dalle ossa un intero secolo, mi ha fatto meritare la visione privata di una singola creatura. E comunque questo è ormai un sito remoto, consegnato per quasi assoluta mancanza di visitatori a chi ha spremuto tutte le sue carote e non ha più desideri di stelle lontane, ma di una stella sola, il sole.
Nella piazza d'armi ne splende sempre uno magnifico, ma spesso un raggio troppo luminoso si frappone tra me e lui e non mi permette di vedere bene. Che fastidioso questo sperone di luce insinuato tra il passato e il futuro, tra un soldato combattente e un libero pensatore.
Ci separa, come il tempo.
Respiro l’aria di tremila anni fa, senza polvere eccetto quella che sollevano i soldati quando si muovono. E io apro le braccia e aspiro con il naso il passato, travolta da un cielo a me fin qui ignoto, che ho insegnato ai miei simili a cercare su altri pianeti. Così questo castello derelitto dalle mode è tutto mio, e i tetti non hanno altri colori che quelli della mia passione.
Poi Jean Claude è andato in guerra, e io sono venuta qui quasi ogni giorno all’ora dell’aperitivo ad aspettare il suo ritorno. Ho avuto qualche volta la tentazione di seguirlo in Terra Santa per vedere cosa fa. Basterebbe programmare il temporizzatore.
Ma non riesco a staccarmi da questo indeciso entroterra che ha ancora la percezione del mare e la bella luce che rende il sole a questi muri grigi ricorda alla mia vecchia anima i suoi occhi grigi che non vedo.
Qui tutto è ciò che è in purezza. Se lo seguissi dovrei guardarlo ammazzare qualcuno, e, se per uno Sperimentatore di Primo Livello già amare è un chiaro segnale di senescenza, amare qualcuno che uccide... No, non potrei più perdonarmi.
Perché, invece adesso posso? C'è una sola sillaba tra mi perdo e mi perdono, un no. Basterebbe non tornare più, o tornare tra un secolo, quando Jean Claude sarà morto, o tra un paio di decenni, quando Jean Claude sarà vecchio.
Il no oscilla, scompare e riappare. Quando c’è, assolvo me stessa per l'amore che gli porto e quando invece lo tolgo decido di non trovarmi ancora per un po’, e di aspettarlo. Così ho risolto i miei conflitti, raccontandomi le bugie. Cento anni a centrifugare carote sono stati spesi più sensatamente?
Però faccio un giuramento. Non mi avvicinerò mai a lui, nemmeno se e quando dovesse attraversare di nuovo il ponte levatoio, che da dove mi trovo peraltro non si vede. Non valicherò una giusta frontiera per raggiungerlo. Preferisco amarlo perdutamente da qui, e restare nella mia torre.
Mi devo sempre ricordare che sono solo un che di trasparente tra i tetti del luogo delle mie tentazioni, il quale ogni attimo invita a esplicitare le migliori impressioni dei sensi.
Poi lui è tornato. Era pomeriggio e assaggiavo distratta il mio aperitivo quando vidi tutti agitarsi e correre per il cortile. Vidi uscire la madre di Jean Claude, che come me si era spenta da quando lui era partito. Correva.
Strinsi forte il bicchiere, lo premetti contro il cuore e rimasi lì ferma a scaldare il vino fresco nelle mani finché non lo vidi. Aveva un braccio fasciato e i capelli cortissimi con un grosso taglio che gli attraversava la testa. Era invecchiato e sofferente e quella notte decisi di andare da lui per capire come stava. Un’infrazione alla mia solenne promessa, la prima di molte.
Era stravolto. Quando si spogliò vidi che il braccio era viola e pensai subito che avrei potuto guarirlo in un attimo, se avessi potuto. Ma dovevo restare un fantasma, in quel castello. Interferire con il passato non è meglio che uccidere, e già avevo rischiato troppo, andando lì. Conoscevo gli studi sulla percezione extra-temporale. Li avevano condotti nel laboratorio di fianco al mio.
Quando si sdraiò con fatica nel letto, mi avvicinai per guardargli la testa. La ferita era stata orrenda, ma ora era pressoché rimarginata, ed ebbi un moto di dolore interiore nel vederla. Fu proprio in quel momento che Jean Claude si voltò e osservò nella mia direzione. Sembrava un po’ turbato. Che avesse in qualche modo percepito una presenza? Mi pentii di non aver mai ascoltato i discorsi dei miei colleghi. Mi sedetti su una sedia in un angolo, mentre lui continuava a fissare dalla mia parte, spaventato da un’impressione strana che non capiva. Allora fuggii.
Sono tornata tante volte, lo confesso, quando ero certa che con lui non ci fossero le sue amanti. Sono salita con lui sui poderosi camminatoi quando è andato a salutare le sue terre chiare prima di partire di nuovo per la guerra e ho aspettato ancora una volta tranquilla sulla mia torre bevendo vino al tramonto, mentre le astronavi progettate da me andavano e tornavano dalle stelle.
La passione si è schiusa davanti a me a un passo dalle mie mani, impossibile da cogliere. Eppure l’ho vissuta tutta, struggendomi in trasparenza e in santa pace.
Ho visitato tutti i rifacimenti di questo luogo, e, mi sembra nel quarto, sono passata davanti a una stanza, che non è per nulla quella di Jean Claude, sulla cui porta era una targhetta che portava scritto “camera della dama fantasma”. Sotto raccontava la leggenda di una donna che pare apparisse in spirito a uno dei tanti baroni che si erano succeduti nel tempo.
Ho saputo così che Jean Claude mi amava e in qualche modo mi vedeva e quando scendevo in cortile andavo ogni tanto a sfiorargli la mano, e lui annaspava con la sua nel vuoto, cercando di afferrarmi.
Quando sono andata da lui mentre moriva, non è stato un caso che sia stata l’ultima a incontrare i suoi occhi sempre meno grigi. Sono stata il suo estremo pensiero, e dopo quell’ultima volta non sono più tornata.
Gli anni seguenti visitai il resto della Francia e la trovai bellissima, splendida, meravigliosa. Ma per me tutto era solo una pallida ombra del castello di Carcassonne, che rimane l’incantevole rifugio dei miei sogni. Ho sempre creduto che l’importante non sia la quantità di posti che si vede, ma cosa si vede e come lo si vede. Vero, ma ora so che ancora più importante è con chi. Posso andare quando voglio da Jean Claude, guardarlo prima e dopo la guerra, con o senza cicatrici. E forse lo farò, perché ormai con tutti questi secoli che ho addosso non mi ricordo più se le cose debbano avere una fine o meno.
Con tutte le miriadi di miriadi di luoghi che si aprono come possibilità, io che ho proiettato il mondo nel futuro ho trovato l’illuminazione altrove. A Carcassonne c’è sempre una bella luce e le molte sovrapposizioni che si vedono non sono deturpazioni, semmai aggiunte e postille. Non è proprio necessario distinguere sempre bene il passato dal futuro.
Guarda me: faccio una gran confusione con i tempi, mentre scrivo. E anche mentre vivo.