Nota biografica | Versione lettura |
Questa storia mi tornò in mente mentre leggevo una biografia di Orson Welles. Si raccontava, tra le altre cose, come avesse preparato ogni minimo dettaglio per girare il suo “Otello”. Solo che i costumi di scena non arrivavano...
Conobbi Eddy a casa del Maestro, dove c’era sempre un viavai di allievi, ex-allievi, amici e amici di amici per ascoltare, come si diceva allora, un po’ di musica per le orecchie. Economista di professione, Eddy, a causa della sua biografia e di altre vicissitudini della vita come una separazione dalla fidanzata, assenze ripetute dalle attività di lavoro “volontario” ecc, faceva il magazziniere del guardaroba negli Studi Cinematografici Albanesi.
«Ecco, che viene Isa Boletini1!» diceva Bert, suo amico, quando lo vedeva arrivare.
Un incidente avuto da giovane costringeva Eddy a tenere il busto rigido, come se avesse tre pistole infilate alla cintola (parole di Bert). A me stava simpatico perché era estroverso e sapeva raccontare i film. Metteva Orson Welles sopra ogni altro regista. Le escursioni mentali del Maestro andavano spesso nel terreno della letteratura e quindi anche dalle parti di Shakespeare, perciò Orson Welles, come traspositore nello schermo di alcune opere del grande inglese, entrava nelle nostre discussioni con molta naturalezza. Per questo, quando Eddy bussava al logoro portone della casa del Maestro, ero sicuro che ci avrebbe portato ancora una volta per mano le ombre sottili di questi grandi del mondo.
Nelle menti traumatizzate di molti albanesi che cercavano di sfuggire gli incubi, si stava affacciando in quelli anni bui un’idea: imparare lingue straniere. Anche i miei ne furono contagiati, per di più che a scuola studiavo il russo, una lingua che, dopo la rottura delle relazioni con l’Unione Sovietica, aveva perso ogni fascino. Mi trovarono così il Maestro e io, come per magia, proprio sul finire della fanciullezza, quando con gli occhi della mente iniziavo appena ad afferrare il grigiore della vita sotto dittatura, fui catapultato in quello che più tardi si rivelò essere... una corte di matti. Perché era un po’ svitato il mio Maestro, come del resto gran parte di coloro che lo frequentavano (negli altri, come me, che non erano tali per natura, venivano iniettate gradualmente dosi di svitamento che sarebbero poi bastate per tutta la vita). Delle lezioni si conosceva l’inizio, ma mai la fine. Il Maestro era per noi allora, con una metafora odierna, come un ipertesto, con dei links sui quali clicchi per aprire finestre con nuove spiegazioni che, a loro volta, hanno altri links con altre rivelazioni, e così via: una conoscenza centrifuga che abbracciava l’Universo. La discussione prendeva il volo verso l’Antica Grecia, verso Kant e Spinosa e, quando qualche volta, quella benedetta discussione scendeva nella quotidianità, il comunismo veniva criticato così solennemente e senza peli sulla lingua che rabbrividivo a immaginare i miei, così rispettosi e ligi, cosa avrebbero fatto se avessero ascoltato anche un solo frammento di quelle filippiche. Se tu stavi, ad esempio, coniugando un verbo irregolare del francese o dell’italiano, dall’infinito del verbo il Maestro poteva partire con il concetto dell’infinito nelle lingue Europee, come questo si fosse evoluto nel Medioevo coincidendo con lo sviluppo astrattivo del pensiero Europeo che non si manifestò nei Balcani e nelle loro lingue, in genere senza infinito, ma che esisteva eccome nel dialetto ghego accantonato dal Regime, (e qui giù critiche al Congresso della Standardizzazione della Lingua Albanese e al suo carattere politico, così gravi che ne sarebbe bastata una per spedirlo dritto in galera); poi, con un salto di duemila anni, se la prendeva con il concetto dell’infinito dei greci e oplà! creava un corto circuito tra la filosofia della Grecia Antica e Giacomo Leopardi, poeta prediletto, analizzando la poesia L’Infinito che recitava a memoria, poi si perdeva rovistando tra i libri per il testo, che ci porgeva per copiarlo; ma non finiva lì; dopo un bicchier d’acqua, attaccava con l’infinito in musica che più di ogni arte sfiorava il concetto, malgrado il fatto che il suono in sé rappresentasse un’eco rimasta sospesa per un attimo e che si scioglieva poi nel silenzio, ma qui non poteva non spiegare alcuni dettagli tecnici sulla posizione della mano sinistra nel Rondò del Concerto per Violino di Beethoven (aveva studiato violino con Ludovik Naraçi) e... mentre stava per continuare ancora, stanco, s’interrompeva.
«Sali a raccoglierci qualche fico, Besmir piè veloce!» mi diceva con tono omerico, indicando gli alberi in fondo al giardino.
Dimenticavo di dire che, finché il tempo era bello e il giorno si allungava, le lezioni si svolgevano all’aperto, sulle sedie di paglia cadenti a brandelli nel giardino davanti alla casa del Maestro, una casa a due piani nello stile di Dibra condivisa con un altro inquilino. Erano presenti 3-4 ascoltatori più io, spesso l’unico allievo. Il ritmo di apprendimento era lento e grande il nostro stupore: spesso calava la notte senza che la lezione accennasse a finire. Allora mio padre veniva a prendermi, oppure i più grandi mi scortavano a casa.
Forse è stato durante uno di questi rientri tardivi, quando ho espresso il desiderio di possedere un orologio a cipolla (a quell’epoca un oggetto magico per me) che Eddy, incaricato di accompagnarmi quella sera, ebbe la strana idea che prese poi forma nei successivi pomeriggi piovosi, quando le nostre scarpe s’infiltravano d’acqua più che per un’ispirazione delle nuvole, da una tendenza del fango e la tristezza ci assaliva, anche perché l’umore del Maestro era più predisposto a farci scendere negli abissi che a portarci per gli alti cieli, idea che divenne poi realtà quando fu chiaro che quell’inverno sarebbe stato il più rigido degli ultimi vent’anni. Di noi tutti, forse io ero quello che stava economicamente meglio (mio padre era un importante ingegnere dell’esercito), mentre era proprio il nostro Maestro quello che stava peggio. Anche gli altri, a vederli: ereditavano vestiti dei loro fratelli (oppure loro stessi erano destinati da madre natura a passarli ai fratelli), vestiti grigiastri, tagliati senza gusto, e sempre un solo paio di scarpe (nere) per l’inverno.
Secondo me a Eddy la situazione sfuggì di mano già all’inizio. Più tardi lui sostenne di aver stilato delle liste precise che aggiornava scrupolosamente ecc... ecc... ma, conoscendolo, ho i miei dubbi. E pensare che la parte più delicata dell’operazione la realizzò con ammirevole freddezza.
Il guardaroba si trovava in un punto centrale degli Studi Cinematografici, dentro l’Atelier del Film, a sinistra dell’attrezzeria. Durò settimane la fuoriuscita pezzo dopo pezzo e senza dare all’occhio di quella miriade di scarpe invernali o di lusso, di gilè di cashmere, di maglie e maglioni, di Borsalino, di abiti di lana e, in particolare, di paltò borghesi, pesanti e variopinti, indossati in oltre trent’anni di cinematografia albanese da vari personaggi, soprattutto antagonisti, e perché no anche da spie e collaborazionisti, così presenti nei film di guerra. Questi poi, come nella più prevedibile delle trame, di solito venivano fatti fuori verso la fine del film con un attentato della guerriglia comunista. In alcuni dei paltò si potevano ancora intravedere le macchie rosse, imitazioni del sangue, non perfettamente lavate. Sembravano lasciate lì pronte per il prossimo attentato.
Eddy indossava indumenti sopra indumenti, a strati, riuscendo così a sfuggire lo sguardo dei colleghi e delle guardie militari, ma una grossa mano per la fuga di cappotti e abiti, molto visibili se indossati, gliela diedero le riprese del film Il generale dell’armata morta. Le tante bare che sarebbero servite per il film uscirono dagli Studi Cinematografici piene zeppe di vestiti e, in collaborazione con l’autista del camion, prima di arrivare in destinazione, furono scaricate nottetempo nel giardino del Maestro. Fu così che centinaia di vestiti (e accessori), proprietà degli Studi Cinematografici, lasciarono per un po’ gli scaffali del guardaroba per riversarsi nelle strade della capitale.
«Ragazzi, per le riprese a Tirana, datemeli anche all’ultimo momento; ma se le location sono fuori, per favore, appena ve li chiedo» ripeteva Eddy mentre distribuiva i rifornimenti.
Quando i vestiti, così comodi e caldi, così démodé (vale a dire alla moda, perché lontano dal concetto comunista sull’abbigliamento), la maggior parte rimaste chiusa per anni, tarmata, abiti selezionati tra i tanti e scelti per farci passare senza grattacapi l’inverno, si trasformarono in oggetti di culto anticomunista e spesso, con un’irresponsabilità del tutto giovanile, cominciarono a essere passati di seconda o terza mano a fratelli, sorelle, amici, (solo) teoricamente con il diritto di un’immediata revocazione, la loro raccolta in tempo rimase un desideratum.
Il cielo era grigio come uno schermo vuoto e dal gelo, se avessi potuto, sarei entrato tutto intero nel mio giubbotto che mi sembrava piccolo. Andavo dal Maestro quando qualcuno mi si avvicinò, era uno sconosciuto. Magro, vestiva un cappotto pesante e grigio; in testa aveva un berretto basco. I guanti di pelle di capra, marrone con cuciture rosse a zig-zag lungo le dita ed elasticizzati al polso mi parvero già visti da qualche parte, da lontano, su vetro, su un telo di lino, forse. Le scarpe avevano il tacco alto, erano luccicanti, di un colore cipria, quasi beige, credo le scarpe con il colore più chiaro possibile a livello nazionale con il quale si poteva ancora passeggiare con una tiepida speranza di poter evitare le manette. Soltanto dagli occhi penetranti riconobbi il mio Maestro.
A poco a poco tutto il nostro gruppo cominciò a indossare quegli indumenti speciali. Soltanto io non osai prendere niente, e quando chiesi a casa, timidamente, mi risposero non ti manca nulla. Così mi accontentai del mio nuovo orologio a cipolla. Eddy disse che si trattava dell’orologio originale di Ibrahim Biçaku, quando accettava dalle truppe naziste l’incarico del Primo Ministro dello Stato Albanese, a settembre del ’43. L’orologio era stato sequestrato dopo la liberazione e mai si seppe come fosse finito proprio nel guardaroba degli Studi Cinematografici. La sua carriera cinematografica contava sei o sette film, ma il ruolo da protagonista lo ebbe nel film Il secondo Novembre, dove fu utilizzato, in molti primi piani dal personaggio che incarnava il padre dell’indipendenza albanese, Ismail Qemali.
Camminavo per le vie di Tirana e avevo la sensazione del moltiplicarsi dei piccoli borghesi, così anatemizzati e odiati dal Regime: gente con Borsalino neri, ampi cappotti che non temevano il freddo, tipi sospetti vestiti di soprabito beige con spalline (mode che ritornano), gli eterni fannulloni del Viale I Martiri della Nazione con alti stivali di camoscio che prima nascondevano sotto i pantaloni nella grande passeggiata del sabato sera, ma poi il piede si alzava come involontariamente, per lasciar intravedere cos’avevano calzato di diverso; poi altra gente con gilè a cinque o sei taschini, da dove spuntava un fazzoletto di seta, rosso o verde. Il Maestro caratterizzò la situazione in modo lapidario:
«Panem et circenses» disse. «Con la differenza che loro ci danno il pane, mentre il circo lo allestiamo noi».
Metterei la mano sul fuoco che il Plenum Straordinario del Comitato Centrale del Partito riunito in emergenza per riaccendere la lotta contro i comportamenti microborghesi e tenuto proprio in quei giorni, abbia preso spunto dall’osservazione delle nostre vaganti figure per le vie di Tirana. Il Grande Timoniere tenne un discorso, scagliando per primo il sasso con un attacco frontale e i cerchi concentrici della lotta di classe senza quartiere si diffusero rapidamente nella palude della nostra esistenza. Nelle scuole e nei posti di lavoro iniziarono le azioni di pulizia. I Segretari del Partito giravano con un righello in tasca per misurare all’istante la larghezza delle gambe dei pantaloni. Non dovevano superare i venticinque centimetri.
Un giorno, un omone che urlava a Eddy in stato di agitazione, gli lanciò in faccia qualcosa di verde, con una forma che io, anche se mi piaceva la geometria, non riuscivo a definire.
«È un mio vicino» si giustificò Eddy, come se il diritto che il vicino ti urlasse in pubblico fosse la cosa più naturale di questo mondo.
«Sciagurato! Fascista! Ci stai mandando in rovina!»
Bert, comunque, ebbe il coraggio di avvicinarsi. Tornò dopo un minuto.
«Ha dato al figlio di quel tipo un papillon dal guardaroba. Per la festa della maturità».
L’avevano cacciato dalla festa. Per atteggiamento microborghese. Meno male che il Segretario del Partito della scuola non indagò a fondo sulla provenienza del papillon. Comunque tutto questo poteva avere delle conseguenze. Misi la mano in tasca per toccare l’orologio. Bert si allontanò di nuovo. Disse che si doveva informare sul conto di quel Segretario su chi fosse, sulle sue conoscenze, ecc. Nei giorni seguenti la parola “papillon” non fu più nominata. Le facce di Eddy e Bert erano distese, forse un po’ stanche. Ebbi l’impressione che la faccenda si fosse risolta, come spesso in questi casi, con forti e ripetute offerte di rakì al compagno Segretario, o al padre del ragazzo, o a entrambi.
Così come il nostro gruppo aveva affrontato bene la tempesta del Plenum, altrettanto male si comportò durante i preparativi per i festeggiamenti del 35° Anniversario della Liberazione. «Ci siamo occupati un po’ troppo di Platone ultimamente» avrebbe commentato il Maestro questa disattenzione che, lo posso dire, diede il colpo di grazia al nostro bel vestiario invernale. Dalla produzione di una serie di pellicole con soggetti di attualità, ispirati alla vita della classe operaia che compiva atti eroici senza pari, dalla gioventù cittadina che s’innamorava come sempre durante lo svolgimento del lavoro “volontario” per la costruzione di strade e ferrovie; o dal soggetto, ormai consunto, della collettivizzazione delle terre e altre proprietà dei contadini (per questi film i costumi erano secondari e la sartoria insieme ai ciabattini degli Studi soddisfaceva facilmente qualche ordine speciale), i cineasti, un po’ per spinta, un po’ per un riflesso condizionato, spostarono l’attenzione verso soggetti sulla guerra per la liberazione, o sui primi anni dell’instaurazione del potere popolare, cioè in quel periodo dove ai personaggi servivano i costumi e gli oggetti che noi avevamo. Entrò in gioco anche la Radiotelevisione con le sue produzioni, che chiese aiuto agli Studi Cinematografici per i costumi. Man mano che mettevano su i set Eddy ci chiedeva (con il passare del tempo queste richieste diventarono delle preghiere disperate) di consegnargli i vestiti poiché gli attori avevano già iniziato a provare nelle varie location. Pareva facile? Lo stesso Bert, il suo più intimo amico, mentre avanzava verso l’armadio per prendere il maglione che il Commissario Memo aveva indossato prima di lui nel film omonimo, «Dio» ripeteva, «Dio, fa’ che mio fratello non l’abbia messo» e constatò che, ovviamente, come aveva presagito, il maglione era ormai stato indossato da suo fratello (in quel momento in gita con la classe, quindi irreperibile per le successive 48 ore), Bert allora si mise le mani nei capelli ed era sul punto di piangere, perché l’ultima cosa che avrebbe voluto che succedesse era di complicare la vita all’amico. (L’autista della corriera di linea Tirana – Berat riuscì poi a far arrivare in extremis il pacco con dentro il maglione, che il comunista di turno, come abbiamo avuto occasione di accertare sullo schermo, indossò regolarmente in alcune scene chiave del nuovo film Gli illegali).
Invece, i dodici cappotti borghesi, i sette completi doppiopetto e altre chincaglierie, mio orologio compreso, Eddy si mise a raccoglierli in una notte piena di tuoni e rovesci di pioggia, sotto una coltre di nuvole basse, con la città di Tirana in blackout elettrico e, praticamente, forzata a letto. Andava di porta in porta con una lanterna in mano e con addosso il cappotto di uno dei “cappuccioni neri” dal film L’emblema antico. La lista si bagnava quando aggiungeva un appunto o metteva la croce sopra un nome. Una volta preso possesso del vestito se lo infilava in un grosso sacco di plastica. Tutto veniva poi caricato su una carriola di quelle utilizzate nei film (tanti) che glorificavano il lavoro “volontario”. Così la sua faccia, un po’ smarrita, ci apparve alla porta d’ingresso in quell’ora di notte fonda. Ancora oggi mia madre è convinta che l’infarto che avrebbe colpito mio padre di lì a cinque anni sia stato causato da ciò. A causa della semioscurità e dal gioco di ombre cinesi che produceva la luce della lanterna, sbagliò la distanza dalla porta e così i colpi che risuonarono furono fortissimi, pugni poderosi. Come in un film a rallentatore, mio padre avanzò per aprire. Stava cercando di fare mente locale su cosa potesse esserci di compromettente a casa: qualche libro o rivista proibita che, disgraziatamente, avevamo preso per leggere. Mentre, riguardo al ritratto del Grande Timoniere e a proposito del fatto che delle sue Opere Complete possedessimo soltanto il primo, il diciannovesimo e il centodiciassettesimo volume, non c’era più nulla da fare. Dopo l’attimo di esitazione, il riconoscimento e la reciproca esultanza, io uscii a malincuore per consegnare il mio orologio a cipolla.
«Ti ho forse dato anche due paia di calze di lana con decorazioni della regione di Kukës?» disse Eddy con ammirevole naturalezza. Feci “no” con la testa, deluso per non avere mai ricevuto quelle calze.
«Ma a chi diavolo le ho date?» si chiese grattandosi la nuca. «Una madre eroica le deve regalare al commissario. C’è scritto nella sceneggiatura, compagno Spiro...» sorrise a mio padre.
Si sentiva il cigolio della porta dal piano di sotto. Il vicino stava cercando di origliare.
«Besmir» disse ancora Eddy. «Secondo te cosa avrò scritto qua?» Mi mise sotto il naso una lista ormai tutta bagnata, piena di correzioni (frecce che andavano su e giù, probabilmente vestiti passati da uno all’altro, scarpe che a uno stavano larghe e a qualcun altro strette). Feci le mie supposizioni. Dopo dieci secondi mi sussurrò all’orecchio:
«Sono sette Borsalino che non riesco a recuperare. Chi può con questa pioggia? Avete, per caso, qualche vecchio Borsalino a casa? Uno vale l’altro...»
Alzai le spalle. Mi terrorizzava il vicino, che continuava ad avvicinarsi (la sua ombra stava salendo le scale). Mio padre tossì e l’ombra si ritirò.
Non ero l’unico ad aver chiesto qualcosa per pura vanità dai magazzini degli Studi Cinematografici. Un ragazzo di poche parole di nome Jovan, pittore dilettante, aveva chiesto a Eddy un paio di occhiali che assomigliassero agli occhiali di John Lennon e... fu ricompensato con gli occhiali del personaggio di Qemal Stafa2. So dire che in quella sua corsa per riprendersi i materiali del guardaroba, questi occhiali furono tra le poche cose che a Eddy furono restituite immediatamente (tanto il loro posto era o sugli occhi di Jovan oppure, quando dormiva, sul suo comodino). Soltanto che erano inutilizzabili: lui li aveva oscurati secondo l’ultima moda lennoniana, ma non aveva trovato di meglio che annerirli con dell’inchiostro. Con quegli occhiali potevi cadere da un momento all’altro e lo stesso Jovan, infatti, li teneva sopra il naso, ma guardava al di sopra. Più tardi seppi che per girare il film, questa volta con la scusa che si sarebbe trattato di un film biografico su Qemal Stafa, fu chiesto al Museo della Guerra di Liberazione di permettere l’utilizzo degli occhiali originali dell’eroe.
Mentre l’altro oggetto misterioso, la gabbana di lana caprina indossata dal personaggio Selam Musai3 (nel film Gabbane sui fili spinati), quella era proprio sparita. Il poeta e cantastorie K. Th. Spiri, autore di versi erotici, umoristici e dissidenti, che non so come conosceva Eddy e che gliel’aveva chiesto per placare in qualche maniera la nostalgia per la sua regione natale: la Zagoria, semplicemente non si ricordava più dove l’avesse lasciata. Le ipotesi furono tante, tra le altre quella di una semplice caduta dalle spalle durante le sue leggendarie sbornie, ma la versione più accreditata rimase l’appropriazione da parte di qualche agente del Ministero degli Interni che l’aveva forse adocchiata, quando “onorava” il poeta con le sue visite periodiche ispettivo – punitive a casa. Le gabbane andavano molto di moda nei film che narravano la guerra partigiana, ma il guardaroba degli Studi ne possedeva soltanto quattro, che venivano custoditi con cura. (Con un documento, la Direzione Generale aveva proibito severamente la requisizione e la presa in consegna di qualsiasi altra gabbana da pastori delle zone limitrofe alle location, com’era prassi in passato, cosa che aveva fatto sì che le pulci usurpassero inizialmente tutto il guardaroba, poi, grazie alla loro vitalità, ogni singolo angolo degli Studi Cinematografici, compresa la Direzione e l’ufficio stesso del Segretario del Partito dell’Istituzione. La depulcificazione del guardaroba e degli uffici si trasformò nella più grandiosa azione mai intrapresa dagli Studi in tutta la sua storia, un’azione che si prolungò per esattamente tre piani quinquennali. La lotta contro le pulci fece cadere la testa di quatro direttori generali e di sette vicedirettori e, quando finalmente il Direttore in carica ne uscì vincitore, avevamo a che fare con una vittoria di Pirro, anche se gli fu attribuito il titolo Gran Cavaliere. Potete immaginare quanti chilometri di pellicola erano andati persi perché proprio al momento clou delle riprese, ad esempio, l’attore protagonista iniziava a grattarsi come un forsennato, e solo la camicia di forza poteva fermarlo).
Arrestarono Eddy una sera alla vigilia delle feste, durante una maxioperazione che portò in prigione centinaia di persone mentre altrettante famiglie vennero espulse dalla capitale. Mentre lo braccavano, lungo il tragitto dagli Studi Cinematografici a casa, la sua somiglianza con il patriota Isa Boletini era tale che l’agente che gli mise le manette al polso gridò:
«Compagno Isa Boletini, nel nome del Popolo siete in arresto!».
Indossava i tirq, le opinga e il xhamadan di Isa (sempre dal film Il secondo Novembre). Aveva tre pistole alla cintola, cosa che costrinse gli agenti, al momento dell’arresto a puntargli il kalashnikov che uno di loro teneva nascosto sotto un abito che le malelingue sostennero fosse simile più che a un cappotto a una gabbana zagoriota fatta di lana caprina. In seguito si appurò che le armi che Eddy indossava erano ornamentali, senza perno e con la canna forata. Si disse che Eddy era conciato così solo per vincere una scommessa con Bert, ma questo non fu dimostrato dalle indagini. Se la cavò con due anni di manicomio a Valona.
Questa storia mi tornò in mente mentre leggevo una biografia di Orson Welles. Si raccontava, tra le altre cose, come avesse preparato ogni minimo dettaglio per girare il suo “Otello”. Solo che i costumi di scena non arrivavano... La troupe aspettava, bloccata nei costosi alberghi di Mogador, e il costo della produzione si gonfiava a dismisura. Finché il regista non prese una decisione: le prime scene, quelle in cui Iago inizia a dare forma al suo intrigo con Roderigo e Cassio, non le ambienta più, come aveva previsto Shakespeare, per le strade di Cipro, ma in un bagno turco, con gli attori che hanno addosso soltanto un asciugamano. Non ebbe bisogno dei costumi.
1 (1864-1916). Patriota albanese, stratega e organizzatore del Movimento per l’Indipendenza e l’Unione Nazionale.
2 (1920-1942). Uno dei fondatori del Partito Comunista Albanese e leader del Movimento Giovanile.
3 (1860-1920). Patriota albanese, caduto per liberare Valona dagli italiani nel 1920. Per avanzare verso l’artiglieria nemica e farla tacere lui e i suoi combattenti saltavano il filo spinato mettendoci sopra le proprie gabbane.