Nota biografica | Versione lettura |
Ho avuto l’avventura di scrivere, 21 anni fa, nel 1990 assieme a Pap Khouma Io venditore di elefanti. E’ stato uno dei primi libri scritto a quattro mani, un italiano con un immigrato, forse il primo. Quasi contemporaneamente vennero pubblicati alcuni altri libri, tra i quali ricordo Immigrato di Salah Methnani scritto con Mario Fortunato, libro più letterario perché Mario Fortunato era già romanziere per conto proprio, mentre io ero giornalista e avevo un interesse soprattutto documentario, non narrativo. Ricordo La promessa di Hamadi scritto da Alessandro Micheletti e Saidou Moussa Ba e ricordo Chiamatemi Alì di Mohamed Bouchane con Carla De Girolamo e Daniele Miccione. Ne seguirono molti altri.
In vent’anni è cambiato tutto. Vent’anni fa eravamo appena dopo il crollo del muro di Berlino. A Milano e in Italia non sospettavamo ancora o facevamo finta di non sospettare l’esistenza di tangentopoli. Berlusconi non era ancora sceso in campo per salvare l’Italia, come dice lui, ma forse ci stava già pensando. C’era ancora la Dc e c’era il Pci, il partito comunista. Quando venne pubblicato Io, venditore di elefanti al governo sedeva Andreotti. Era il penultimo governo Andreotti, poi venne l’ultimo nel ‘92, poi venne Amato e nel ‘94 ci toccò Berlusconi. Il libro ebbe un notevole successo, soprattutto per l’interesse che aveva suscitato in luoghi come questa biblioteca pubblica e nelle scuole, dove io e Pap andavamo a presentarlo e dove una delle domande più frequenti che ci facevano alla fine della presentazione era se l’Italia fosse un paese razzista. Pap molto intelligentemente faceva notare che nel nostro libro non era presente la parola razzismo. Raccontavamo una storia e non facevamo dell’ideologia. Io rispondevo citando un libro che era uscito, in quel periodo, il lavoro di due sociologi, Laura Balbo e Luigi Manconi, un breve saggio a proposito di immigrazione e di razzismo, dove si proponeva una tesi molto semplice, quasi ovvia, si diceva che noi italiani il nostro razzismo lo avevamo conosciuto perché siamo stati fautori delle leggi razziali, che avevano contribuito alla deportazione di ebrei nei campi di sterminio, che noi italiani siamo razzisti perché siamo maschilisti, che siamo razzisti perché abbiamo avuto e continuiamo ad avere un atteggiamento pregiudiziale nei confronti del diverso, nei confronti ad esempio del cosiddetto “ matto”, rinchiuso nel manicomio, legato e privato dei suoi diritti, almeno fino agli anni ’90. La legge 180, la legge Basaglia, venne approvata nel 1978, un decennio prima dell’uscita del nostro libro.
Dicevano ancora Balbo e Manconi che per lo meno in quel momento al nostro razzismo latente, perché assumesse una dimensione pubblica, mancava un imprenditore politico. Non ci siamo lasciati mancare neppure questo, un imprenditore politico del razzismo. Bisognerebbe ricordare che di questi tempi, quando la letteratura della migrazione compie vent’anni, ricorre anche il ventennale del congresso di fondazione della Lega Nord.
Ho citato poche cose, dal muro di Berlino ad Andreotti, da tangentopoli alla nascita della Lega, per ricordare i caratteri della società che in Italia vide nascere, vent’anni fa, la letteratura dell’immigrazione, una letteratura che naturalmente è cresciuta, è cambiata, è maturata.
Nelle nostre presentazioni di Io, venditore di elefanti, chiudevo sempre leggendo una frase che era proprio l’ultima frase del libro, una frase che ogni volta mi commuoveva un poco. Il libro finiva con una pagina in cui si raccontava delle avventure sentimentali dei ragazzi senegalesi, ventenni o poco più, che incontravano ragazze, andavano a ballare, si sposavano, qualcuno viveva felicemente con queste ragazze, altri divorziavano ecc. ecc. Le ultime due parole erano: “nascono bambini”. In quelle due parole si racchiudeva tutto il profondo cambiamento che stava vivendo la società italiana: nel momento in cui nascono bambini, figli di immigrati, magari sposati con italiane, o viceversa naturalmente, vuol dire che strutturalmente una società cambia. Sicuramente sono nati tanti bambini: ci veniva ricordato prima che sono nati duecentotrenta mila bambini da stranieri residenti in Italia. Ormai saranno arrivati anche i nipoti. Si diceva, in quella frase, “nascono bambini”, che l’immigrazione era una questione strutturale anche se veniva affrontata in modo emergenziale, come continua ad essere affrontata in modo emergenziale. Basterebbe che qualcuno raccontasse la fatica per ottenere un permesso di soggiorno, basterebbe ricordare ciò che è successo in tanti luoghi, basterebbe ricordare gli operai sulla gru a Brescia o a Milano in via Imbonati sulla ciminiera, basterebbe ricordare anche gli ultimi sbarchi in Sicilia.
In quei tempi si davano, in riferimento alla presenza di cittadini stranieri, dati un po’ incerti. Si diceva che la percentuale degli stranieri in Italia era molto modesta, un 3-4% sull’intera popolazione. Oggi, se si fanno i conti, si arriva intorno all’8, 9%. Si sottolineava che quel 3-4% era ben poca cosa rispetto ai numeri che caratterizzavano la presenza di immigrati in altri paesi d’Europa, come la Germania, l’Inghilterra, la Francia e si spiegava questo con il passato coloniale di quei paesi. Si ricordava la loro lunga storia di migrazione, mentre noi italiani potevamo documentare solo storie di emigrazione o di migrazione interna, dal sud o dal Veneto verso il nord, verso Milano, verso Torino. A questo proposito vorrei citare un altro anniversario perchè da pochi mesi è stato ripubblicato dalla casa editrice Donzelli un libro di 50 anni fa che era appunto un documento di grande spessore o di grande interesse sul movimento migratorio in Italia, era “Milano, Corea”, una inchiesta sugli immigrati, appunto, un libro di Danilo Montaldi e Franco Alasia. Fra l’altro in questo libro si rifletteva su queste periferie, la periferia in cui ci troviamo noi adesso; libro criticabile per tanti aspetti ma molto molto interessante.
Vi ho fatto questo raccontino di vent’anni, così molto sommario dicendo cose che sicuramente sapete per dire che cos’è la società italiana d’oggi e per dire che in questa società fra le tante cose c’è Pomigliano, c’è Mirafiori, c’è il Nord-Est, c’è quell’autobus che io cito metaforicamente che è la circonvallazione 90-91 che conoscete perché passa qua vicino e che rappresenta emblematicamente il mutamento di questa società. Perché sulla 90-91, come molti di voi sapranno, gli “italiani italiani”, diciamo così, sono quasi sempre una minoranza rispetto agli immigrati. Cito ancora un altro autobus che mi compete di più perché passa vicino a casa mia, è la 49, è un autobus che parte da piazzale Lotto e attraversa i quartieri popolari, di San Siro, quartieri che vennero edificati in periodo fascista e vennero terminati poco prima che si entrasse in guerra. Sarebbe bello esaminare questo segmento urbano con gli strumenti di un archeologo, perché quei quartieri sembrano rappresentare una sorta di stratificazione dell’immigrazione e della società italiana. I primi occupanti furono i milanesi della provincia, che venivano dalla campagna milanese, poi vennero gli immigrati dalle province lombarde, da Bergamo, dalla Valtellina, dalle campagne mantovane, poi vennero gli immigrati dal Veneto e dal Sud. Adesso le case popolari di San Siro sono diventate un quartiere di immigrati nordafricani e di tanti paesi. Le scuole di quel quartiere sono frequentate da bambini italiani e da quelli provenienti da tanti paesi di tutto il mondo, in maggioranza in alcune situazioni.
Da questi segni, molto concreti, direi proprio materiali, si ricostruisce la trasformazione di una società e sarebbe bello che la letteratura seguisse la trasformazione della società.
Abbiamo potuto leggere oggi una recensione comparsa su una rivista culturale, Lo straniero, rivista diretta da Goffredo Fofi . Il titolo Lo straniero è una citazione da Camus, grande intellettuale, singolare personaggio dal punto di vista dell’origine e della vicenda, perché Albert Camus era un francese, figlio di genitori francesi nato però in Algeria e vissuto in Algeria in condizioni di povertà. La recensione incominciava così: “Il nuovo romanzo della scrittrice romana...”. Ho continuato a leggere, scoprendo che la scrittrice romana, che voi sicuramente conoscete, si chiama Igiaba Scego ed è figlia di immigrati somali, immigrati somali altolocati perché a quanto mi risulta il nonno faceva il ministro (peraltro, sarebbe interessante studiare dal punto di vista sociologico i profili dei migranti scrittori, perché non sono tutti uguali i migranti scrittori e la questione di classe si pone anche per loro). Mi interessa che in questa sede Igiaba Scego sia definita scrittrice romana, quindi italiana. Non è una scrittrice immigrata o figlia di immigrati, non è una scrittrice dell’immigrazione. E’ una scrittrice italiana. L’importante è che la sua vicenda non si smarrisca e che lei consapevolmente abbia uno sguardo suo della vicenda italiana e della società italiana, quindi arricchisca la nostra lettura della storia proponendo un punto di vista diverso, nuovo ai fini della nostra comprensione. Qui mi piacerebbe citare un grande storico dell’antichità, Erodoto, la cui originalità, rivoluzionaria per i tempi, stava nel raccontare la storia dell’antica Grecia, di luoghi allora, assolutamente sconosciuti, migrando anche lui di paese in paese, girando moltissimo, raccontandoci tutte le versioni possibili, moltiplicando i punti di vista, perchè tutti quelli che incontrava erano per lui testimoni di una loro storia, che poteva essere sempre diversa. Il rapimento di Elena, ad esempio, in quanti modi si può raccontare? Non si può dire solo che era fuggita perché innamorata di Paride, chissà quante altre storie ci sono dietro. Questo era il modo di fare storia, utilizzando fonti diverse, osservando il mondo secondo angoli differenti, non privilegiandone uno per logiche nazionaliste, di appartenenza culturale, di comunanza di lingua, eccetera eccetera. Credo che appunto una letteratura straniera in Italia ci possa aiutare a scoprire il nostro paese mettendoci a disposizione altri punti di vista. Io, prima o poi, vorrei poter definire Pap Khouma, mio socio in quell’impresa fortunata che fu Io, venditore di elefanti, come scrittore milanese, non perché si metta a parlare in milanese, come neppure io saprei fare perché sono anch’io figlio di immigrati, ma perché è qui che ha messo radici e vorrei che lui raccontasse secondo il suo punto di vista questa città. Sicuramente mi aiuterebbe a conoscere in modo diverso, sicuramente mi aiuterebbe a superare certi pregiudizi che io col tempo da milanese ho accumulato. Come fece quello storico inglese, John Foot, che fra l’altro abitava in questa zona, che partendo dalla Bovisa ci raccontò secondo la sua visione questa città.
Un’altra questione ancora riferendomi a Io, venditore di elefanti. Quando ci presentammo per la pubblicazione, l’editore Livio Garzanti (fra l’altro il titolo del libro fu suo) mi obiettò in modo molto brusco “Ma perché non l’avete scritto in francese”. Per poi tradurlo, naturalmente. Considerazione prevedibile , perché ovviamente Pap parlava in wolof, lingua senegalese, ma anche in francese contaminato dal wolof, il francese lingua del colonialismo. Sul momento rimasi lì, un po’ imbarazzato, non risposi. Ci pensai e conclusi che era giusto così, farlo in italiano quel racconto, perché l’italiano era la lingua dell’esperienza di Pap in Italia, della sua dura lotta per l’esistenza in Italia e lui racconta di quest’esperienza, non di altro, racconta del suo arrivo in Italia, racconta della sua carriera di venditore di elefanti, della sua scoperta di questo paese. Non usammo però nel nostro lavoro un metodo antropologico, non ci mettemmo col magnetofono trascrivendo parola per parola. Trascrivemmo, però mantenemmo quella semplicità del linguaggio, mantenemmo la rapidità del ritmo legato alla condizione di clandestino che scappa, corre, si deve nascondere.
Sarebbe interessante fare un bilancio. Credo che molti passi avanti siano stati compiuti, che questi anni non siano passati inutilmente, mi verrebbe da dire che tutto il mondo è paese, così dico questo paese è tutto il mondo specchio di tante lingue e culture, di tante tradizioni, rappresentato da tante esperienze, da tanti punti di vista, come dicevo prima, diversi. Per questo non mi interessa poi tanto rispondere alla domanda, che un tempo mi ponevano ripetutamente: nascerà un grande scrittore senegalese in Italia? Francamente non mi interessa. Mi interessa questa libertà, questa ricchezza di voci.
Credo che molti conoscano Tahar Ben Jelloun. E’ un marocchino, professore, insegna all’Università. Ha scritto molti romanzi in francese perfetto perché ha studiato sui classici. Ha scritto sul problema dello sdoppiamento. Lui marocchino vissuto lì, in Francia. Però di Ben Jelloun ricordo due libri, uno L’estrema solitudine e l’altro Le pareti della solitudine, uno pubblicato da una piccolissima casa editrice, il secondo da Einaudi. Erano due testi sociologici in cui veniva trattata la posizione di un nordafricano in Francia. Sarebbe bello se si scrivessero molti romanzi e si raccontasse così la propria esperienza. Prima col professor Cacciatori citavo Truman Capote e parlavamo del romanzo della realtà, la cosiddetta no fiction novel: narrare, indagando il presente.
Ultimissima considerazione. Camus, che ho appena citato, diceva: “Mi rivolto, dunque siamo”, cioè la mia ribellione è qualcosa che riguarda me stesso, la mia individualità, ma è nella rivolta che ritrovo gli altri, la comunità, la collettività, l’umanità: è così che mi sottraggo all’isolamento, spiegava. “Dunque siamo”. Dice ancora Camus , cito fra virgolette: “Che cos’è un uomo in rivolta? Un uomo che dice no , ma se rifiuta non rinuncia al mutamento. E’ anche un uomo che dice di sì fin dal suo primo muoversi”. Perché comunque il suo è anche un aprirsi agli altri e la sua rivolta è cercare di capirsi diversi, capirsi diversi, come in questo luogo stiamo cercando di fare ancora.