El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

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anche i pidocchi emigrano

adrian n. bravi

Tutti gli esseri viventi esistono perché emigrano, dalle rondini ai pidocchi, dai pidocchi all’uomo. Se gli esseri viventi non si spostassero morirebbero. Dal punto di vista tassonomico l’uomo andrebbe annoverato tra le specie migratorie. Vivere significa migrare. Il concetto di “terra straniera” non è una realtà oggettiva, ma solo una costruzione mentale. Anche il paese d’origine spesso può diventare una “terra straniera”, sia per chi è partito sia per chi è rimasto. L’intera società è un’interazione tra individui, un cambiare posto continuamente. Le logiche della fluidità sociali e del caos ci aiutano a pensare la complessità del reale. L’essere di Nietzsche è un essere sradicato, di passaggio: “Ciò che è grande nell’uomo è l’essere un ponte,” dice in Così parlò Zarathustra. I testi fondamentali della storia, dall’Antico Testamento all’Odissea, dalle Chansons de geste al Mio Cid, dalla Divina Commedia a Moby Dick, la letteratura ha sempre parlato d’esilio, d’erranze e spostamenti. Anche i morti emigrano. Quando è morta Evita Perón nel 1952 il suo corpo è stato imbalsamato ed esposto fino al golpe militare del 1955. Suo marito è andato in esilio e il corpo impagliato di Evita ha cominciato a girovagare per il mondo. Alla fine, nel 1974, è tornato in patria e tuttora riposa sereno nel cimitero della Recoleta. Persino le cose che apparentemente non si spostano, emigrano. La Santa Casa di Loreto, per esempio, nel 1291 è stata trasportata dagli angeli dalla Palestina in Dalmazia, tre anni dopo se la ripresero e la portarono in Ancona e infine, l’anno dopo, a Loreto. Benjamin invece, la notte tra il 25 e il 26 settembre 1940, ferma la sua emigrazione col suicidio, a Port Bou, sotto i Pirenei, dopo la minaccia della polizia spagnola di riconsegnarlo all’autorità francese. Anche il mito di Caino e Abele può leggersi come la storia di un esilio, non dalla polis o dalla civitas, ma da Dio stesso. L’uno, come tutti sappiamo, era pastore di greggi, l’altro, invece, coltivava la terra. A un certo punto, il sedentario, dopo aver ucciso il nomade, viene a sua volta cacciato: «Ramingo e fuggiasco sarai sulla terra» è stata la condanna di Dio1. Tutta la storia dell’umanità può essere letta attraverso questa cacciata, che aveva senso perché Caino era un agricoltore sedentario, altrimenti il “fuori di qui”, a cui rimanda il significato della parola exilium, non avrebbe senso in una società nomade come quella di Abele. Dio ama l’esodo e l’erranza. Nella Bibbia la salvezza è legata sia all’esilio sia alla condanna: essere banditi dalla comunità, perdere i diritti e la propria famiglia per essere consegnato all’ignoto. In fondo, si potrebbe dire, l’esilio è drammatico perché ci allontana dalle nostre tombe.
Alonso de Ercilla è stato un poeta spagnolo che si è lasciato alle spalle le tombe di un intero popolo. Dopo aver viaggiato per l’Europa con Filippo II è partito per il Cile dove si è trattenuto, tra 1557 e 1559, a combattere gli araucani (popolo mapuche che non voleva sottomettersi all’invasione spagnola ed è riuscito a resistere a lungo ai colonizzatori spagnoli guidati da Lautaro). In battaglia ha cominciato a scrivere il miglior poema epico dell’epoca, La Araucana (uno dei libri salvati dal rogo nel sesto capitolo del Don Chisciotte). In questo poema, che tenta di affrontare i temi legati alla realtà del nuovo mondo e che cerca di catturare il punto di vista degli indigeni, secondo i dettami dell’epica classica e rinascimentale, ha ritratto alcuni conquistatori (Valdivia, Villagrán, ecc.) e i capi araucani (Colocolo, Rengo Tucapel e sopratutto Caupolicán, giustiziato atrocemente dagli spagnoli). Tornato a Madrid nel 1562, nel 1569 ha completato la prima parte di La Araucana. Nel 1589, dopo vent’anni, ha scritto la terza e l’ultima parte. Sembra che dopo il suo ritorno in patria Alonso de Ercilla non abbia mai smesso di pensare al Cile e che abbia vissuto il suo ritorno come un esilio dalla sua vera patria che era rimasta laggiù sotto le Ande, in mano agli spagnoli. Anche Alonso de Ercilla, come tanti esuli o semplici migranti, ha messo in discussione col suo poema la sua appartenenza geografica.
Le migrazioni spesso sono imprevedibili e non seguono il tempo del pensiero, che ha un processo di elaborazione molto più lento. L’idea di radice unica, per esempio, atavica, che sprofonda nei tempi, esiste solo come ideologia. Ogni società si configura come relazione: “L’identità propria, concepita come proprietà di un gruppo esclusivo, sarebbe inerziale, poiché non essere che se stesso, identico a ciò che si era ieri, immutabile e immobile, è non essere, o piuttosto non essere più, come un morto. Essere è essere con, essere insieme, condividere - la maggior parte delle volte conflittualmente - l’esistenza. Privati del rapporto con gli altri, siamo privati dell’identità, ovvero spinti all’autismo mediante l’autosufficienza e il narcisismo”2.
Le culture, qualsiasi esse siano, sono sempre rizomatiche, con tante radici che si intersecano tra di loro; eppure il pensiero non riesce ad accettare questo fatto; non si ha la capacità di mettere in gioco le proprie radici. Lo scrittore e poeta Edouard Glissant, nato nella Martinica nel 1928, tra i maggiori etnografi contemporanei, riporta la distinzione, fatta da Deleuze e Guattari, tra la nozione di radice e quella di rizoma: “La radice unica,” scrive Glissant, “è quella che uccide tutto intorno a sé, mentre il rizoma è la radice che si estende verso l’incontro con le altre radici”3. Il concetto d’identità, che spesso suscita tante perplessità e disappunti, va pensato, secondo Glissant, come un rizoma di culture composite, una “poetica della relazione” secondo la quale ogni identità si estende in un rapporto con l’altro. Il rizoma non è una radice totalitaria, è una “radice demoltiplicata che si estende in reticoli nella terra e nell’aria, senza che intervenga alcun irrimediabile ceppo predatore” (Deleuze e Guattari). La nostra società presuppone l’incontro col diverso da sé. Anzi, è a partire da quest’incontro che si creano le nostre appartenenze. Dice ancora Glissant: “si può morire per la propria identità-radice unica, ma non si può morire per la creolizzazione [che ha una connotazione tipicamente rizomatica]. Non ci si può sacrificare per la creolizzazione, mentre ci si può fare la guerra per la propria identità-radice unica”4. Allora, c’è da chiedersi: come affermare la propria identità senza chiudersi agli altri e come aprirsi agli altri senza perdere la propria identità? Se le culture non si devono annullare o diluire, ma devono convivere, in che modo si possono relazionare tra di loro?
A una domanda di Claudio Magris sulla Poetica del diverso risponde Glissant: “L’ossessiva difesa, la muraglia è prigione dell’identità; quella cinese è stata costruita non solo per impedire agli invasori di entrare, ma anche per impedire ai cinesi di uscire, come dice quella mirabile storia del generale cinese che sorveglia la frontiera e, vedendo un’apertura fra due alte montagne lontane, dice ai suoi ufficiali: la c’è il mondo e noi non ci andiamo. Chiudersi in se stessi è terribile quanto essere conquistati dall’altro o conquistarlo”5.
È opportuno notare che la parola “identità” non ha plurale nella lingua italiana: “Se lo avesse, tutto sarebbe più semplice, invece questa lacuna fa sì che quando si parla di identità si finisca per pensare a una sola identità, che in genere coincide con quella etnia o quella nazione”6. Inoltre, non avendo plurale è difficile coniugare l’identità o declinarla in termini di multidentità. L’Italia è sempre stato un paese di grandi viaggiatori e di emigranti, che ha dato ricchezza e lustro a tanti paesi, ma negli ultimi anni è diventato un paese poco propenso all’ospitalità. Prima ci si preoccupava per le conseguenze dell’emigrazione, adesso invece ci si preoccupa per le conseguenze dell’immigrazione senza tener conto del passato, anzi certe volte il passato stesso viene manipolato per giustificare la propria identità al fine di assolverla a funzioni del presente. Insomma, non possono esistere filiazioni inverse per cui sono i figli che generano i propri padri e non viceversa.
Percorrendo alcuni tratti dell’opera di Edouard Glissant che riflette, appunto, sull’estetica della relazione, mi soffermo su quelle che lui chiama “le poetiche del caos”, vale a dire, tutte le forme di relazione, siano esse di convivenze, opposizioni o conflitti tra le diverse culture che si incontrano. E mi vorrei soffermare sul problema della lingua che genera “le poetiche del caos”. Secondo Glissant non si può difendere una lingua dall’intrusione di altre che la attraversano. Una lingua, sostiene lo scrittore caraibico, non è una norma applicabile alla comunità dei parlanti, quindi non si impone ai parlanti come una regola. Non si può nemmeno salvaguardarla come una specie protetta senza tenere conto della sua relazione. Una lingua è anche e sopratutto ospitalità e l’ospitalità, dice Antonio Prete in un saggio sulla traduzione, “è l’esperienza di una cultura che riconosce l’altro senza sottrarre all’altro la sua alterità o diversità, la sua identità di cultura e sapere e costume, e nello stesso tempo pone colui che ospita nella condizione di non dover rinunciare alla sua singolarità, alla sua identità”. L’esilio e la migrazione presuppongono l’incontro delle lingue. Le biografie e le scritture di tanti autori sono attraversate dal problema della lingua, ad esempio dai conflitti tra una lingua di appartenenza e una lingua di adozione (si pensi a Conrad, a Nabokov o a Beckett, tanto per citare alcuni degli autori più noti). Si scrive in una lingua pensando in un’altra o si fa parlare il proprio passato in una lingua straniera. Sono questi i paradossi a cui si va incontro quando si passa da una lingua all’altra.
Oggi scriviamo e parliamo in presenza di tante lingue, questo però non vuol dire conoscerle tutte (io, per esempio, mi muovo con grandissima difficoltà se esco dalle due lingue che conosco di più, lo spagnolo, che ormai parlo con poche persone e che non scrivo da una diecina d’anni, e l’italiano, che uso nella vita quotidiana e con la quale scrivo ogni giorno): “Vuol dire,” dice Glissant, “che la mia lingua la dirotto e la sovverto non operando attraverso sintesi, ma attraverso aperture linguistiche che mi permettano di pensare i rapporti delle lingue fra di loro”7. Scrivere in presenza di tutte le lingue del mondo, pur senza conoscerle, è questa la poetica della relazione e il senso della lingua. Infatti, il multilinguismo “non presuppone la coesistenza delle lingue, né la conoscenza di molte lingue, ma la presenza delle lingue del mondo nella pratica della propria”8. E questo lo ritengo un punto fondamentale per riflettere sul problema che pongono le lingue dei parlanti. Se è vero che ogni lingua presuppone un suo modo di vedere le cose, essere in presenza di tutte le lingue significa portare la scrittura sulle pieghe più nascoste della lingua e aprirla ad ogni possibilità. Oggi viviamo e costatiamo la nascita di tante comunità diverse, di tanti arcipelaghi che dialogano sempre più tra di loro. Volente o nolente, le frontiere cominciano a sgretolarsi sempre di più, nonostante l’accanimento di alcuni per conservarle e preservarle dall’intrusione straniera. C’è anche una solidarietà maggiore tra le lingue, un’ospitalità, dicevamo, che nulla sottrae alla diversità dell’altro. Lentamente stiamo costatando che l’integrazione non riguarda solo l’immigrato, ma riguarda soprattutto chi lo accoglie. L’atto dell’accoglienza (dell’ospitalità, direbbe Edmund Jabès) non significa accogliere o ospitare l’immigrato in quanto visitatore, è un’integrazione reciproca. La relazione di una convivenza. Quando in Europa si arresta il fenomeno dell’espansione migratoria inizia un processo inverso d’immigrazione da parte di molti paesi stranieri che aprono l’italiano verso nuovi orizzonti linguistici. Tutte le comunità, in un modo o l’altro, si sono costituite nella propria lingua. Il poeta per eccellenza è colui che afferma l’unicità della comunità. L’identità di un paese, se mi si concede questa parola, prima che politica è un’identità linguistica. Eppure, possiamo chiederci: in quale momento il latino parlato nelle strade di Roma antica diviene la lingua moderna che chiamiamo “italiano”? In che momento l’ebraico diviene aramaico?9 È chiaro, non c’è un momento preciso in cui nasce o muore una lingua, piuttosto c’è un passaggio graduale di cambiamento in cui una lingua entra in un’altra e la trasforma dall’interno. Nessuna lingua, nemmeno quella considerata sacra, può sottrarsi alla propria caducità. Sono le “poetiche del caos”, i flussi migratori o le invasioni a sovvertire le lingue, a declinarle e ad arricchirle. Forse è qui il segreto della lingua, nel piegarsi alle altre fino a tramutarsi, nel diventare rizoma.
C’è un passo noto in I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift che mi piace ricordare e con il quale vorrei concludere: “Apprendo che alcuni dei nostri yahoo di mare trovano a ridire per il mio linguaggio marinaresco, definendolo non adeguato in molti luoghi, né corrente al giorno d’oggi. Non so che farci. Nei miei primi viaggi, quand’ero giovane, fui istruito dai più vecchi marinai, e appresi a parlare come loro. Ma in seguito ho scoperto che anche gli yahoo di mare, non meno che quelli di terra, inclinano a introdurre modifiche nelle loro parole (i secondi le cambiano addirittura ogni anno); al punto che ricordo come, a ogni ritorno nel mio paese, il loro antico idioma era così cambiato, che a stento capivo il nuovo. E osservo che ogniqualvolta uno yahoo viene da Londra a farmi visita in casa mia, spinto dalla curiosità, nessuno di noi è in grado di esprimere i suoi concetti in modo intelligibile all’altro”.

N.B. Questo articolo in forma più ridotta è apparso nella rivista sotto indicata.
Prisma (Rivista dell’Ires Marche, ed. Franco Angeli), n. 2, 2010, pp. 13-16. Titolo del numero monografico della rivista: Immigrazione ed identità.

1 H. Magnus Enzensberger, La grande migrazione, Einaudi, 1993, p. 4.
2 F. Laplantine e A. Nouss, Il pensiero meticcio, Elèuthera, 2006, p. 61.
3 É. Glissant, Poetica del diverso, Meltemi, 2004, p. 45.
4 Ivi, p. 74
5 Vivere significa migrare: ogni identità è una relazione. Conversazione di C. Magris con É. Glissant in “Corriere della sera”, 1 ottobre 2009, pp. 50-51.
6 M. Aime, Il primo libro di antropologia, Bruno Mondadori, 2008, p. 191.
7 É. Glissant, Poetica del diverso, p. 32.
8 Ivi, p. 33.
9 D. Heller-Roazen, Ecolalie, Quodlibet, 2007, p. 61.

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Anno 8, Numero 32
June 2011

 

 

 

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