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mediomio: una coperta tra occidente e medioriente

raffaella bianchi

“Sangue, o barbari, bramate, ed il sangue scorrerà” (I Capuleti e i Montecchi, atto 1).

“You think you're so smart with that blanket. What are you going to do with it when you grow up?” (Lucy Van Pelt, Peanuts).

Con Abolobinda ci eravamo conosciuti in Inghilterra. Stanca di quella pioggia grigia e delle case da studenti mal riscaldate, mi sembrava di aver ritrovato nell’espressività dei suoi occhi marroni un calore famigliare come di castagne. Indossava un completo elegante, sembrava appena uscito da una boutique romana. Da buon cittadino middle class di Tripoli adorava e odiava l’Italia. Quando c’incontrammo, dopo le usuali schermaglie stereotipate delle chiacchere tra stranieri, e che nello specifico riguardavano il figlio di Gheddaffi calciatore di una squadra del centro Italia, mi trovai di fronte per la prima volta a discorsi politici sul nostro passato coloniale fatti da un cittadino di paese colonizzato dal mio che mi guardava con profondi occhi scuri. Non contava che fossi di sinistra, che avessi militato in movimenti alternativi, che credessi nell’internazionalismo e che stessi studiando relazioni internazionali. Lì, in quel momento, ero solo una figlia dell’Italia che aveva massacrato i suoi padri. Ma i suoi occhi ridevano anche di un piacere speciale nel parlare con me e dopo mesi di occhi azzurri gelidi che sfuggono gli sguardi, quella pienezza di colore mediterraneo mi confortava, era un caldo abbraccio in un mondo più umano. Una coperta di cachemire bruna come la terra e calda di sole Mediterraneo.

Quest’uomo pelato con i baffi che parla di democrazia in Turchia e in Medioriente sembra non dover finire mai. Sarà anche interessante, ma io la lingua turca non la capisco. Lavoro qui da ottobre e vigliacco se riesco ad esprimermi correttamente o a capire di cosa parla la gente. Forse ho seguito la voglia di sentire i miei sguardi ricambiati, di vedere quegli occhi neri dal sapor mediorientale, nel cercare un’alternativa al mondo che conosco, anche politica. Ma ora mi sembra inutile. Colgo parole qua e là, ho imparato a ordinare il te e il kebap, ma discorsi politici non riesco a farli. Peccato perché sono tempi davvero interessanti e io dovrei insegnare proprio scienze politiche. Spero che il baffo finisca presto dato che le cinque pagine che avevo programmato di leggere sulla storia delle emozioni che mi mancavano per finire quest’articolo le ho già finite da un bel po’ e non mi resta che fissare le cravatte o le scarpe impossibili di certe studentesse, unica ribellione a un dressing code soffocante anche per me. Sarebbe bello capirci qualcosa di quello che stanno dicendo, ma non mi è richiesto di capire. Per questo non è previsto un corso di lingue vero e proprio per noi docenti stranieri. Gli basta che siediamo vestiti eleganti in questi eventi e incontriamo le delegazioni diplomatiche, testimoniando con la nostra presenza l’esistenza di un paese multiculturale che guarda al futuro e investe nell’educazione. Che poi non ci siano libri nella biblioteca, questo non si vede.

In fondo sono una donna italiana, quindi dovrei solo vestirmi in maniera elegante e sorridere ammiccando professionalmente. L’Italia mi manca in maniera dolorosa, più qui che quando studiavo in Inghilterra. Ieri ho parlato con mia madre via Skype. È dimagrita e non volevo vedesse la mia espressione stanca, ma forse non ha capito quanto il solito uomo raccontaballe mi abbia fatto soffrire. Questo qui aveva proprio capito i miei punti deboli. Il bisogno di affetto, la solitudine della mia casa vuota la sera, il desiderio di visitare i siti archeologici in zone non proprio raccomandabili a una donna sola, la voglia di avere qualcuno da presentare alla mia famiglia quando torno in Italia e da mostrare agli amici quando andrò alla graduation per il mio dottorato in Inghilterra la prossima estate. Mi sento una curiosità esotica al contrario, un caso di occidentalizzazione, peccato che non ci sia un grande come Said che teorizzi l’occidentalizzazione. Ma spero che dal video non si veda troppo che ho pianto. Vorrà dire che alla graduation ci andrò con la mia mamma. Ha persino preso la decisione di prendere il suo primo aereo per venire con me.

È strano come delle madri si parli poco in queste occasioni. La patria sarà anche madre, ma nella parola stessa ha la radice paterna e figurarsi in società patriarcali come quelle dall’altra parte del mediterraneo. Le madri stiano tranquille a casa a cucire le camicie rosse, servono a generare dei legittimi figli della patria e devono essere difese. È per questo che si va alla guerra? Per dare alle nostre madri una carta di credito in mano per comprare vestiti che le renda simili a barbie? Il modello barbie è bipartisan. Le donne turche che mi circondano in facoltà e per le strade appena appena facoltose si tingono i capelli di biondo e hanno tutte le unghie pittate. Ho smesso di andare a farmi la manicure per non vedere gli sguardi di disapprovazione sullo stato delle mie unghie mangiucchiate lanciato dai vari coiffeur di quartiere in questa citta’ del sud della Turchia dove sono finita a vivere. Cercavo più calore e sono finita sotto ad una coperta bagnata.

E qui esiste lo stesso odio amore che ho visto nei discorsi di Abdolobinda, ma nei confronti degli Stati Uniti. Non parlo dei kemalisti, i sostenitori del partito di Ataturk sono di certo più vicini agli americani, ma sono gli altri che mi affascinano in questo odio-amore. Sono le donne che si mettono una biancheria intima che mi fa arrossire sotto lunghi impermeabili. Qui non piove mai, ma l’impermeabile è un oggetto molto venduto. Le donne “scelgono” di non lavorare e nei villaggi alcune di loro vengono ancora fatte sposare a dieci anni. E questo è un paese modello per la democrazia del Medioriente. Guardo negli occhi l’ennesimo studente che cerca di trattarmi come sua sorella minore e mi preparo per l’ennesimo round di dimostrazione di autorevolezza. Quello del rispetto della dignità delle donne è un nodo che non riesco a sciogliere e che è fondamentale anche nella mia posizione politica in questa ribellione contro le dittature. I giovani popoli del Mediterraneo si stanno sollevando contro dittatori vecchi e inadeguati.

In prima fila c’erano gli studenti siriani, quando, a un paio di settimane dalla scoppio della rivolta egiziana, ho organizzato una tavola rotonda sul tema per il nostro centro di studi mediorientali. In Egitto c’è anche Michael, lui è partito un anno prima, senza finire il dottorato e insegna da qualche parte in un’Universita’ vicino al Cairo. Alcuni colleghi mi hanno spedito una mail con un articolo da un giornale locale del Leicestershire, un daily mercury qualsiasi che riporta il racconto del mio amico sulla vita di esplosioni che improvvisamente gli e’ scoppiata sotto casa, a lui che e’ sempre vissuto nella campagna inglese. Avevo introdotto la tavola rotonda citando Alain Badiou che ha scritto sulla rivolta tunisina http://wrongarithmetic.wordpress.com/2011/02/02/alain-badiou-on-tunisia-riots-revolution/ “... dice che la teoria della fine della storia, della fine delle grandi narrazioni non è più valida, abbiamo di fronte una grande narrazione”. Gli studenti sbattono gli occhi, le teorie non sono il loro forte, come si dice, vengo e mi spiego..., Alper fa un’introduzione storica variegata e Gökhan parla di come l’esercito in Egitto funzioni come un’istituzione sui generis, Bezen cita l’effetto domino. Tutti ci guardano negli occhi, si aspettano da noi di sapere cosa succederà, fare il prof vuol anche dire essere Cassandra. Nessuno dei colleghi è venuto a discutere, solo studenti. Ma ecco che Gökhan interviene: “Se i governi europei sono razzisti, allora noi possiamo avere governi islamici”, legge dai miei appunti gli insulti a Sarkozy deridendolo, “Badiou”, che Gökhan non sa bene chi sia, “dice che Sarkozy è un ipocrita e un codardo”. Gli studenti sospirano di sorpresa, basiti. Io chiudo dicendo che Badiou può dirlo in Francia, “è possibile dire queste cose qui?”. Il gelo.

Speriamo che lo sia presto. Ma queste del Medioriente sono sollevazioni di uomini che instaureranno società più eque per gli uomini. E io come donna che insegna in un’università dove ci sono solo altre cinque donne docenti, sono molto delusa. Ero venuta qui con tanta voglia di contribuire a un modello di democrazia partecipativo alternativo a quello statunitense e ora che vivo alle porte del Medioriente ho tanta voglia di andare negli Stati Uniti. Infatti sono stata invitata. Ma l’invito ha l’aspetto di una carta di credito macchiata di sangue. E’ l’ennesima riunione a cui devo partecipare con i miei vestiti occidentali sfoggiando il mio dottorato di ricerca inglese, il mio sorriso italiano e l’abitudine a conversare che mi viene da anni di militanza politica partecipativa. Prendo l’ascensore con le pareti trasparenti che porta al quarto piano dove la rotonda panza del rettore ci presenterà gli ospiti di oggi. “Free lunch” è la cosa che ci interessa di più. Da buoni intellettuali organici a un progetto politico che non ci è stato spiegato noi docenti stranieri della facoltà del rettore dobbiamo ravvivare momenti di quella che mi piace chiamare “eating fruit diplomacy”. Non veniamo mai messi a conoscenza di chi andremo ad incontrare in anticipo, si tratta di improvvisare. Esiste una gerarchia d’importanza dei nostri ospiti basata sul tipo di accoglienza che viene loro offerto. Per gli ospiti basic c’è il solito té dentro bicchierini tipo limoncello, leggermente più ampi e svasati in alto che permettono di bere comodamente ai nasi come il mio. Agli ospiti intermediate viene aggiunto anche un piattino di pistacchi e noci varie, al quale segue un piatto di frutta affettata. Tra questi ospiti intermediate si annoverano gli ambasciatori di paesi europei. Il pranzo è un’occasione speciale. Ne ricordo solo un altro in questi quattro mesi. Entra una delegazione statunitense, si sente da come camminano e dal modo in cui abbracciano lo spazio prima ancora che dai loro accenti. Le donne sono tre. Una guida la delegazione ha una cinquantina d’anni, capello corto con piega a bigodini, completo gonna e giacca blu. Fa domande a tutti e cerca di coinvolgere anche Alper. Il nostro vero esperto di Medioriente è concentrato sul cibo. Non ha voglia di fornire spiegazioni agli yankee e guarda con soddisfazione i piatti davanti a lui. Ci sorridiamo. Mi vengono in mente gli intellettuali delle corti del Rinascimento. Qui abbiamo la stessa funzione e ci consoliamo con questi piatti di magnifiche melanzane ripiene di riso. Suggerisco alla seconda signora presente, una giovane donna con qualche anno più di me di assaggiare alcuni intrugli tipici di qui. E le spiego che sì, quella è minestra di yougurt, ceci e menta, autenticamente local. Ci scambiamo sorrisi e biglietti da visita. Sul suo leggo “Senior Advisor for National Security”. E mi vengono i brividi. L’insurrezione in Egitto è in atto, da un po’ in Siria si sentono delle voci che iniziano a mormorare,... la Siria è a due ore di auto da qui. Cosa vogliono questi amerikani?

La sua vicina è la donna più rampante e alla ricerca di una promozione, nervoso-nevrotico, capelli neri tenuti insieme da un fermacapelli in cerca di un centro di gravità, si mette a fare domande precise sulla politica estera turca nel Medioriente. È il momento di Gökhan. Lui conosce il progetto politico su cui si basa il nostro stipendio e lo lasciamo fare. Sono costretta ad intervenire per precisare un dettaglio geo-politico: la Turchia è interessata al Medioriente, quindi Siria, Libano, i paesi con cui ha stipulato accordi commerciali aprendo le frontiere, ma la Libia è in Nord-Africa. Certo, anche l’Egitto si trova in Nord Africa o nel sud del Mediterraneo, ma l’interesse per l’Egitto è dettato dalla sua centralità nel mondo islamico, non dalla sua posizione geo-politica. Se la real-geo-politik non funziona, allora entrano in gioco le ideologie. Mi lascio cadere all’indietro sulla poltrona di pelle, capendo che abisso di comprensione separi questi advisor americani dal mondo arabo. La loro concezione del potere è basata sul denaro invisibile delle carte di credito. La concezione del potere qui è diversa e mi ci vuole tutta la mia conoscenza dei rapporti personali presente nelle clientele romane, le strutture di protezione familistica della mafia italiana, lo studio di certe strutture di organizzazione corporativista per tentare di comprenderlo, ma gli americani qui sono completamente basiti. I miei interventi servono da ponte di comprensione tra i due schieramenti. Ecco quello che dovrebbe fare l’Italia se avesse la generazione giusta al comando, sedere a tavoli come questo e tentare di tradurre concetti di potere. Ma poi sono i concetti ad interessare?

Mi guardo le mani che tremano, Abolobinda! Chissà dov’è? Qui quando si parla di un possibile attacco alla Libia si sente lo spettro della guerra in Iraq. Nessuno ne parla, ma lo leggo negli sguardi verso il pavimento di Bezen, nell’irritazione paciosa di Alper e nella verbosità di Gökhan. Siamo a pochi chilometri dal confine con l’Iraq. Sono giunti molti profughi gli anni passati. E poi finalmente, siccome con gli occidentali devono essere più diretti che tra di loro, qualcuno glielo dice. “La Turchia aspira a un ruolo di leadership nel Medioriente e avrebbe difficoltà a spiegare ai suoi alleati una scesa in campo di questo tipo”. Sì vogliono bombardare la Libia. L’ho saputo tre giorni prima che le operazioni militari iniziassero. Tre giorni prima che Abolobinda iniziasse a postare sulla sua pagina facebook comunicati, video e immagini che scaturiscono dal profondo delle sue paure. Ma io ho dovuto di nuovo prendere le distanze dal suo odio-amore: “Non condivido i motivi di questo conflitto, ma non mi piacciono nè Mr.Berlusconi, nè Mr.Qaddaffi”. L’ho ferito di nuovo. Come quando capii che nonostante l’attrazione reciproca i nostri mondi affettivi erano troppo diversi per stare insieme, il suo calore si scioglieva quasi in furore violento nell’intimità, un’intimità che conosceva solo per sentito dire, per averla vista in cassetta. E io mi spaventai. Quando c’incontrammo in Inghilterra, Abolobinda applicò su di me gli stessi sentimenti di odio e adorazione che aveva per l’Italia. Io sentivo un profondo senso di colpa. I discorsi sul colonialismo straccione di cui sono pieni i nostri libri di scuola mi apparvero per la prima volta sotto una diversa luce. Nel nostro dipingerci come incapaci macchiette coloniali rendiamo il nostro delitto meno grave. Vorrei riscrivere quei libri di scuola e parlare dei nostri trofei di caccia e del numero dei morti e dire che non c’è niente di straccione. Forse faccio questo lavoro anche per questo. Ma per ora non riesco a pubblicare granché. Chissà cosa ci faccio qui con il passaporto sempre in borsa. A volte voglio la mamma,... altro che patria dei padri!

Lo scorso fine settimana abbiamo fatto un pic-nic con quelli dello stabile dove vivo. Una bella gita fuori porta con barbecue e musica dal vivo, alcuni studenti del conservatorio suonavano musica classica turca. Due foto mostrano gli eventi, in una tutti gli uomini sono allineati davanti alla pineta, l’altra che ho dovuto richiedere espressamente, ritrae le donne che erano sedute a un altro tavolo. La mia infiammazione al nervo sciatico mi ha impedito di sedermi ai tavoli e mi sono seduta a terra su una coperta. Tutti sono stati molto gentili, ma i tavoli separati mi hanno fatto sentire proprio fuori posto, quello stare su una coperta mi è parso anche simbolico. A che tavolo appartengo se non so neanche attaccarmi un bottone o stirarmi le camicie di seta? In un posto recondito della mia mente c’è quella voce che suggerisce: “Come to DC”. E invece di Washington, a me viene in mente la Democrazia Cristiana e come il partito islamico turco mi ricordi la nostra vecchia DC. Alla fine ha ragione Said, noi occidentali possiamo solo avere un’esperienza di comprensione orientalista del Medioriente, paragonando quello che stiamo vivendo a un momento del passato della nostra cultura. A me questa città pare un’immaginaria Pescara negli anni ’50 ma più industriale. Ma poi che ne so io degli anni Cinquanta? Mentre mi perdo nella mia confusione di parte politica, di spazi, di storie, di lingua e di genere piovono bombe sulla Libia e ho rifiutato l’opportunità di andare a Washington per rimanere a lavorare in un’Università autoritaria e senza libri. Posto la rosa verde che Abolobinda ha messo sul suo profilo di facebook e penso che anche se noi ci sentiamo assolti siamo lo stesso coinvolti. Ho la nausea che si sente in una nave che ha perso la Trebisonda e la mia coperta è piena di sabbia.

Questa mattina ero in ritardo e ho preso l’autobus degli studenti per venire in Università. “La temperatura si sta’ riscaldando” dico a due dei miei studenti che aspettano con me. Parlare del tempo e’ un’abitudine inglese che mi porto dietro. “Si’ mi sembra di essere a casa in Ghana” sorride soddisfatto Jalil, “...uff basta dormire con sopra una coperta”. “Non si dorme con le coperte in Africa?” chiede con uno sguardo divertito il suo compagno Wazir. “Se sei sdraiato con sopra una coperta pensano che tu sia morto”.

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Anno 8, Numero 32
June 2011

 

 

 

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