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europa 2

barbara pumhösel

Un po' per nostalgia, un po' per un anniversario importante in arrivo, ma anche per il suo spirito di avventura che finalmente nella vecchiaia si era liberato di quei fili – talvolta corde, funi – che la legavano a un posto, a una responsabilità morale, affettiva o semplicemente civile, la principessa di Tiro, figlia di Telefassa e Agenore, volle finalmente intraprendere quel viaggio che allora non aveva portato a termine.
Era arrivata sull'isola, in quell’altro tempo, sul dorso del toro bianco, e il destino aveva deciso per lei. Dovette rimanere lì. Non lasciò tracce scritte dei suoi pensieri, non sappiamo se avesse avuto rimpianti, certamente fu accolta bene, l'ospitalità allora era sacra.
Aveva dato il suo nome, Europa, al continente alle spalle dell'isola, senza poter mai metterci piede. Lei aveva partorito i figli di un Dio, e per questo, anche se mortale, non lo era del tutto, poteva evadere dalla sua condizione ogni tanto.
Decise, perciò, di andare a vedere finalmente quella Terra a nord del Mediterraneo che si estendeva a est fino al fiume Tanai. Voleva incontrare i discendenti della stirpe che considerava un po' la sua. Scelse l'inizio del ventunesimo secolo, quel tempo chiamato “era globale”. La parola “globale” le suonò negli orecchi come un agevolatore, un qualcosa che avrebbe reso più facile i movimenti e i tentativi di comprendere e farsi capire. Inizialmente pensò di servirsi anche questa volta di un toro come mezzo di trasporto, ma non ne trovò uno che andava bene. Venne a sapere che da generazioni non nascevano più tori da concepimenti spontanei come al tempo dei miti. Le ultime generazioni di tori erano tutti figli degli stessi donatori non troppo volontari. Erano figli di provetta, nati da spermatozoi selezionati da animali grossi, muscolosi, ma non sempre dai più intelligenti, agili e intraprendenti. La somministrazione di antibiotici e ormoni e la condizione di incatenati aveva indebolito il loro sistema immunitario. Anche un raffreddore avrebbe potuto impedire loro di nuotare, di attraversare il mare.
Era piena di energia, Europa, ma aveva pur sempre una certa età, non voleva viaggiare sul dorso di un asino, e nemmeno su una galeotta che rischiava di fermarsi per giorni a causa di qualche fiacca improvvisa. Prese in considerazione l'aereo, ma poi si rese conto che non aveva documenti, nel senso in cui lo intendevano i mortali del ventunesimo secolo.
Guardandosi intorno, si rese conto che non era l'unica a voler raggiungere il continente. Erano tanti e, benché non avesse quelle carte plastificate con il timbro e i numeri, decise di unirsi a loro. Insieme a un centinaio di persone salì su un barcone che si muoveva grazie a una cosa chiamata motore e, alimentato con puzzo e rumore, lasciava scie inquietanti di iridescenti veli sulla superficie del mare.
Europa voleva godersi il viaggio, di vento e di schizzi, di sole, voleva inseguire i ricordi del suo mare e immaginarsi il contatto tra la terra che si chiamava come lei e l’epidermide dei suoi piedi. Ma non poté nemmeno iniziare a sognare, mancava lo spazio per stare seduti, per sdraiarsi, mancava l'acqua da bere, lavarsi non era possibile, alcuni dei passeggeri erano malati, molti avevano paura.
Europa era lì in mezzo, testimone per forza maggiore. Constatò che si era immaginata diversamente il modo di vita del ventunesimo secolo, e nella sua mente l’immagine dei suoi compagni di viaggio cominciò a confondersi con quella degli schiavi di migliaia di anni fa a Tiro e a Creta. Venne a sapere molte cose del Mediterraneo e dei popoli che abitavano intorno. Comprese che questo mare doveva – sempre di più – accogliere e celare morti, e ogni tanto portava alla luce diurna un corpo, lo sottoponeva allo sguardo del cielo, per dovere di memoria. Sembrava che le onde questa volta sapessero con chi avevano a che fare, e si mostrarono generose. Svelarono molti segreti, e resero libera la vista su relitti e cadaveri.
Europa aveva il dono di leggere le storie di vita di quei corpi ormai privi di parole, le leggeva dal silenzio, dall’aria e dall’acqua che li circondava. Ed era ormai in lutto profondo, quando una notte finalmente approdò. A lei cui l'ospitalità era sacra da sempre, a lei che aveva accolto tanti naufraghi, non venne data la possibilità di dire chi era, né il perché del suo viaggio, non ci fu nessuno che cercò di comprendere la sua lingua. Era colma di parole e dolori altrui, ma non era ancora arrivata sul continente. All’alba capì di essere di nuovo su un'isola – non la stessa – un’altra, sempre alle spalle del continente. Sentì dire da dei viaggiatori come lei, che l'Europa era circondata da fili di metallo provvisti di spine, fili che si chiamavano “sicurezza” ed erano una merce molto richiesta, non colpita da quella crisi di cui parlavano in tanti.
Le sarebbe piaciuto indagare sulle ragioni del filo, immaginarsi l’Europa e i primi passi che avrebbe fatto sul suo suolo. Non era assolutamente preparata a ciò che successe: venne rimandata indietro, indietro verso il punto di partenza, indietro senza spiegazioni. E ancora nessuno le aveva chiesto il suo nome.
Nel viaggio di ritorno pensò di essere, nonostante tutto, fortunata. Anche se nemmeno il suo secondo tentativo era andato in porto. Pensò che poteva sempre aspettare una nuova generazione di mortali europei – con addetti al filo che avessero studiato la storia, e il mito – che avrebbero compreso.
Perché non aveva scelto un presente buono. Sembrava che gli stanziali, quelli non costretti a migrare, a fuggire, a rischiare, con la rinuncia al movimento avessero perso anche la consapevolezza della propria mortalità. I suoi compagni di viaggio invece ne erano stati consapevoli in ogni momento. Andandosene portò dentro di sé – per farle rinascere un giorno – le storie raccolte, le voci silenziose di vite interrotte, quelle che non avrebbero avuto una seconda occasione.

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Anno 8, Numero 32
June 2011

 

 

 

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