Nota biografica | Versione lettura |
3 Agosto 2009
Quando e come è stata travolta dalla passione per la scrittura ? Da dove trae ispirazione ?
Mio padre è nato in Senegal e mia madre è francese. Io sono nata a Parigi durante la guerra d’Algeria, ossia nel momento in cui l’impero coloniale francese cominciava a crollare. Per una sorta di logica compensatoria, man mano che i Paesi africani conquistavano la loro indipendenza, le manifestazioni di razzismo si moltiplicavano nella metropoli. Ed è proprio in mezzo a queste tensioni che sono cresciuta. Rifuggendo l’ostilità dei luoghi pubblici (soprattutto i giardinetti dove giocavano i bambini) mi sono rifugiata nella lettura, quasi fino all’introversione – come ho già scritto in Lagon, lagunes. Cercavo testi che, oltre al piacere della lettura, avvalorassero la mia esperienza meticcia nella Francia postcoloniale. Fortunatamente, nella biblioteca dei miei genitori trovai la Storia dell’Africa nera di Joseph Ki-Zerbo, l’Antologia negro-africana di Lilyan Kesteloot, il Diario del ritorno al paese natale di Aimé Césaire, alcune raccolte poetiche di Léopold Sédar Senghor, il romanzo di Richard Wright Black Boy e alcuni numeri della rivista Présence Africaine. Devo molto a queste opere: sono convinta che tutto il mio successivo percorso intellettuale sia contenuto in nuce in queste prime letture. Ma soprattutto, mi hanno in parte guarita dall’ansia che mi divorava, istruendomi sui rapporti tra Africa ed Europa e sulle conseguenze della lunga storia della mia periferia. Mi hanno altresì permesso di resistere al quotidiano tormento del razzismo. Detto ciò, né nell’opera di Baudelaire che avevo letto assiduamente, né nei testi di letteratura africana, caraibica o afro-americana a cui mi sono poi appassionata, ho trovato – a quei tempi -riferimenti specifici al mio status di insider/outsider in una società a vocazione sì universalistica, ma che preferiva ignorare il proprio multiculturalismo e soffriva la mia presenza fin troppo indefinibile. E’ questo il motivo per cui ho voluto scrivere: si trattava, come dicono i rapper, di “rappresentare”. Riconquistare pienamente il diritto all’esistenza. Raccontare la mia esperienza in quanto punto di riferimento per la rivolta di coloro che vengono chiamati impropriamente “immigrati della seconda generazione” (del resto, scoppiata nel 2005) e per la creazione di una società veramente post-razziale, la più grande utopia del Ventunesimo secolo.
Quali sono le letture o gli scrittori che hanno segnato la sua vita ?
Il primo libro che ha dato innegabilmente voce al mio vissuto è il romanzo di Marie Ndiaye, In famiglia (1991). Mi ha sconvolta per la finezza dell’analisi del razzismo provinciale e il ritratto di un personaggio femminile centrale, la cui ricerca – forsennata, mortifera – di integrazione nella sua famiglia francese trasforma e distrugge. Per ricambiare ho dedicato il mio Lagon, lagunes proprio a Marie Ndiaye. Gli studi degli antropologi Paul Mercier e Jean-Loup Amselle riguardanti la rimessa in questione dell’etnia, così come quelli di Edouard Glissant sulla creolizzazione, mi hanno aiutata a uscire dagli schemi teorici sull’origine, l’appartenenza e la comunità. Con la sua visione del “Tout-Monde” – la straordinaria nebulosa fatta di culture e di gente in movimento, impegnata per di più in una molteplicità di scambi il cui risultato appare tanto instabile quanto imprevedibile – Glissant ha voluto sostituire alla metafora dell’albero genealogico quella del rizoma. Ha osato affermare che il meticciato, lungi dal risultare solamente dalle migrazioni relativamente recenti della modernità, è “sempre già” stato lì, per così dire. Gli sono infinitamente grata per aver accettato di scrivere una postfazione a Lagon, lagunes, a condizione, mi ha detto, di continuare a scrivere. Con Mississippi, Glissant mi ha condotta verso l’opera torbida (e alquanto affascinante) dello scrittore del sud degli Stati Uniti William Faulkner. In Luce d’Agosto, Assalonne, Assalonne! e Scendi, Mosé ho scoperto una perfetta sintonia tra soggetto e forma: la tragica complessità delle genealogie viene resa mediante una scrittura velata, che è stridente come il muschio in plastica lo sarebbe nelle foreste tropicali. Ma quali che siano gli altri miei interessi, ritorno sempre a Montaigne. Mi piacciono i Saggi, per la frammentazione e la malleabilità del testo (che non intaccano minimamente la sua coerenza), e il loro autore, per la predisposizione all’auto-ironia, il distacco dalla “consuetudine” e l’originalità della lingua che recupera il linguaggio tipico della comunità rurale, espressioni medievali e comunque un pensiero moderno. Un altro testo che non mi abbandona mai è Déjà vu, una raccolta di poesie di N.X. Ebony, giornalista e uomo di lettere ivoriano, scomparso troppo presto. Mi capita spesso di citarlo, meravigliata dalla ricercatezza e dalla folgorazione dei suoi versi. Conservo inoltre una sua novella, Nina M’Amante pubblicata nel 1987 sulla rivista Présence Africaine, che mi accompagna nei miei viaggi. Aspetto impaziente la pubblicazione (postuma, logicamente) del suo romanzo Les Masques. Nel novero dei miei “bagagli personali” (come affermava Césaire) figurano, inoltre, Pigments di Léon Gontran Damas, L’Amante di Marguerite Duras, Toiles d’Araignées di Ibrahima Ly, Le jeu de la Mer di Khady Sylla, The Known World di Edwards P. Jones e The Star-Apple Kingdom di Dereck Walcott. E poi anche dei racconti, come La Nera di Ousmane Sembène, L’ultimo viaggio del vascello fantasma di Gabriel Garcia Marquez e Cuando las mujeres quieren a los ombre di Rosario Ferré.
La novella riveste un ruolo importante nelle letterature africane. Cosa ne pensa? Perché preferirla ad altri generi ?
La novella africana francofona è stata onorata da scrittori di talento come Birago Diop, Tchicaya U’Tamsi, Cheikh C. Sow, Fatou Diome e molti altri. Emerge negli anni 40 e negli anni 70-90 conosce uno sviluppo spettacolare, che provoca la scomparsa progressiva delle case editrici in Africa. Se da un lato la novella resta, ancora oggi, in voga tra gli scrittori africani, dall’altro soffre comunque dell’indifferenza della critica: il suo pieno riconoscimento risulta ostacolato dalla mancanza di testi esplicativi. Tra l’altro, in virtù della gerarchia dei generi sul mercato letterario, si sa che uno scrittore arriverà al pubblico più rapidamente con un romanzo, anche se ha già pubblicato delle novelle. Per quanto mi riguarda, ne ho pubblicate alcune, tra cui “Trajet” nella rivista Europe, “Eliza” in Callaloo, “I love Harlem” in Bananafish (per la quale ho ottenuto il primo premio, con un racconto fantasy breve), “Dans ce sacré foutu pays” in La Nouvelle Revue Française, di cui esiste anche la versione in inglese “In this Goddam Messed-up Land”, inserita nell’antologia Picador Book of African Stories.
A parer mio, nella novella, esiste come nel tipo di prosa poetica che ho creato per Lagon, lagunes la stessa estetica del frammento. In effetti, adesso che il sospetto pesa (e a giusto titolo direi) sulla somma, la totalità e il monumentale, il frammento permette di accostarsi a un argomento mediante metonimia o, volendo, sineddoche. Consente di gestire gli spazi vuoti e, delle lacune tra stralci di rivelazioni, di dissimularvi le emozioni e confondere la casualità e ogni logica lineare. Altra attrattiva della novella: nella sua brevità riposa, come del resto anche nella poesia, l’infittirsi della scrittura, che privilegia l’ellissi. Un tratto basta quindi a dipingere un affresco e l’intrigo devia nei meandri, ma poco. Poi, l’elemento di sorpresa, quasi obbligatorio nella conclusione, incita praticamente il lettore a rivisitare il testo dall’incipit e a scoprirne i segni precursori, le polisemie e le trappole.
“Quando in Africa muore un vecchio, è una biblioteca che brucia”. Questa frase di Amadou Hampaté Bâ rivive nella sua novella, anche se in altri termini. Qual è la sua opinione al riguardo ? Ritiene che questo sia un fenomeno tipico delle culture africane, dove l’oralità costituisce una fonte inesauribile di conoscenza ?
La cosa che più ammiro di Amadou Hampaté Bâ è il suo immenso sforzo di sincretismo. Grande esperto delle culture peule e malinké, egli si è dedicato allo studio delle varie tradizioni culturali dell’Africa dell’Ovest con cui veniva a contatto durante le sue missioni – e questo, a partire dal periodo coloniale. Supportato da queste conoscenze, ha voluto spiegare al mondo ciò che all’epoca si chiamava “la saggezza africana”, di cui d’altronde egli era percepito come l’incarnazione. Inoltre, si è impegnato a mostrare la parentela tra Cristianesimo e Islam, ossia le due religioni più diffuse oggi in Africa. Infine, ha avuto immediatamente l’intuizione che la biblioteca orale africana avrebbe avuto vita breve se non fosse stata impressa mediante la registrazione e la trascrizione sulla pagina. Ne è testimone l’urgenza dell’appello che egli ha lanciato alle istituzioni internazionali, e soprattutto all’UNESCO, per la codificazione delle lingue africane e l’archiviazione dei saperi custoditi tra l’altro dagli anziani.
In modo quanto mai evidente, questa volontà di proteggere la memoria e raccogliere dei racconti eminentemente perituri anima la novella dal titolo Cartoline. Tengo a precisare, tuttavia, che una certa coscienza del tempo che passa, della finitudine di cose e persone, e dell’intreccio tra realtà e immaginazione – in altre parole, una certa maturità – sono indispensabili per apprezzare i racconti dei “vecchi”. Ora, per rispetto o disinteresse, persino i parenti degli anziani non sempre li sollecitano a raccontare storie che, tuttavia, potrebbero contenere la chiave del mistero di un individuo o di un’epoca. Ne deriva l’ironia nel tono del narratore nell’introduzione di Cartoline, poi la quasi fusione dei suoi ricordi con quelli di Angelica, quando anche lui invecchia.
L’idea parallela, che volevo evocare in questa novella, è che tutti noi siamo fatti di testi. Quando questi testi, essenziali per la nostra identità, non vengono trasmessi, quando le immagini essenziali alla costruzione dell’Io individuale e collettivo ci vengono sottratte, allora tutto vacilla, come la “blatta storpia” della conclusione.
E’ facile notare come certe problematiche non si limitano all’Africa e alle società orali o semi-orali: semplicemente, riguardano le persone.
Lei è sia scrittrice che esperta di studi africani. Qual è il suo rapporto con l’Africa ?
Il mio rapporto con l’Africa è complesso, costante e insieme instabile. Ho, in retaggio con il resto della Diaspora, un’immagine dell’Africa scandita dal desiderio e dalla distanza. Nelle circostanze in cui sono cresciuta, l’idea (l’illusione forse) di avere un altrove che sento come casa mia mi ha dato la forza di affrontare l’ostilità generale. Tale impressione non è stata smentita dai primi viaggi che ho fatto in Senegal, all’età di dodici e sedici anni. Solo in seguito ho capito che, non parlando la lingua wolof e avendo delle abitudini europee, non ero percepita ovunque come una parente o una compatriota; che per molti ero una Toubab1. Posso affermare quindi che è stata l’Africa a provocare in me una vera e propria crisi d’identità (di cui ho parlato in Lagon, lagunes). Poiché quando i bambini del mio quartiere nella periferia di Parigi mi urlavano: “Torna al tuo paese”, io sapevo di averne uno a Sud della mia vita quotidiana e una grande famiglia di cui portavo il nome. Ma le distanze, che talvolta ho percepito laggiù, hanno fatto crollare quel fragile edificio. In fondo, la crisi è stata salutare: mi ha insegnato a non elemosinare più un riconoscimento da nessuno, perché so bene, quanto mi sia costato il mio meticciato, affermato in contesti non in espansione. Oggi, poco preoccupata dell’etichetta (nel vero senso della parola), accetto con una serenità imperfetta la mia “differenza”; tuttavia, mi sento più capace di apprezzare la gente per quello che è, e che sarà, e le cose per come vanno. Detto ciò, ho la fortuna di conoscere in Senegal, negli Stati Uniti, in Francia, in Italia e altrove, delle persone che mi accettano incondizionatamente e che in cambio porterò sempre nel mio cuore. Un’altra fortuna eccezionale: ho potuto facilmente conciliare i miei interessi personali con il lavoro. Infatti, insegno Studi Africani e, grazie a uno stage presso il dipartimento di Arti Africane e dell’Oceania del Metropolitan Museum di New York, ho familiarizzato con la scultura, l’architettura, la bigiotteria e i tessuti dell’Africa precoloniale. In quanto specialista di letteratura francofona africana e caraibica, ci si può ben chiedere in quale misura il mio lavoro di critico influenzi la scrittura delle mie opere. Non posso negare che, quando scrivo racconti e poesie, penso alla ricezione; aggiungo, però, che la potenza del testo in evoluzione è tale che difficilmente potrei calcolare gli effetti di resa e scegliere le tecniche più appropriate allo scopo. Spesso sono dunque attonita, a volte sbalordita, dal passaggio che ho appena scritto, e la sola domanda che emerge riguarda la mia capacità di farmi carico del testo.
Se le chiedessero di definirsi in tre parole, quali sceglierebbe ?
Essendo una postfemminista o in procinto di diventarlo, non ho esitazioni nel definirmi prima di tutto una madre. Ho tre figli la cui esistenza e i successi sono la mia gioia più grande. Prendo continuamente esempio da loro e, così facendo, traggo beneficio dalle loro rispettive esperienze. Sono particolarmente attenta alla qualità del legame affettivo che li unisce; così, quando è necessario, questo legame, sia carnale che astratto, si sostituisce naturalmente alla mia presenza fisica. È proprio pensando a loro che ho scritto Cartoline – un po’ frustrata forse di non avere l’occasione di condividere di più il mio passato. Ma saprei davvero interessarli con le mie storie in modo spontaneo ?
Se sono perfettamente cosciente del tempo che passa, sono altresì ossessionata dallo sguardo. Jean-Paul Sartre e Frantz Fanon hanno scritto pagine splendide sul potere di definizione dell’Altro esercitato dallo sguardo dominante. Se attribuisco un valore allo sguardo/rispetto degli altri, definisco me stessa come sguardo, capace di creare un senso a partire dai segni che leggo, che amalgamo o distinguo. Cartoline tratta, d’altronde, di una donna ridotta a un oggetto esotico tramite un doppio sguardo – l’occhio del fotografo e quello della telecamera. Ed è per il recupero della propria immagine che Angelica lotterà pubblicamente e segretamente per molti anni, trasmettendo questa ricerca in eredità al narratore.
Visto che da un bel po’ di tempo gli scrittori non sono più “impegnati”, io mi definirei ancora coinvolta nella battaglia contro l’ingiustizia, in Africa e nel resto del mondo. Sono piuttosto sensibile al ruolo della discriminazione nel mantenimento di uno status quo: allontanando l’Altro dalla comunità umana – fisicamente, istituzionalmente o simbolicamente – ci si assicura che costui/costei avrà solo un accesso limitato alle risorse comuni. È per questo che ammiro Wangari Maathai (prima Africana e prima ecologista a ricevere il Premio Nobel per la Pace), la quale ha insistito sul legame tra la degradazione dell’ambiente, la rarefazione delle risorse e la guerra, proponendo delle misure per proteggere l’ambiente, il diritto delle donne e la democrazia. Anziché piantare alberi come ha fatto lei, cerco di seminare alcune idee in quanto madre, insegnante e scrittrice.
Quali sono i suoi progetti futuri ?
Per quanto riguarda la produzione personale sto finendo di scrivere un lungo testo poetico sul viaggio e l’emigrazione, con riferimenti sia storici che letterari. Ho in cantiere anche altre poesie più brevi. Oltre a questo, non posso dir nulla di preciso. Talvolta ho elaborato validi progetti che poi non hanno avuto seguito; al contrario alcuni temi a cui avevo pensato poco mi si sono subito imposti.
I testi veri, mi sembra, si scrivono in funzione del loro movimento e non dell’intenzione di un autore o di una strategia di mercato.
Ho comunque una molteplicità di progetti di ricerca in ambito della critica letteraria. Per esempio, attualmente, sto scrivendo un saggio su un film di Joseph Gai Ramaka, Karmen Gei, una trasposizione della Carmen di Prosper Mérimée (il racconto eponimo dell’opera di Bizet), nel contesto di un Senegal contemporaneo. Sto inoltre lavorando su un attore franco-senegalese, originario come mio padre della Casamance, Bachir Touré, che avevo incontrato varie volte prima della sua scomparsa nel 2006. Il mio dispiacere più grande è di aver lasciato che questa biblioteca bruciasse, senza avere il tempo di preparare un’intervista.
1 La parola indica i Bianchi.