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considerazioni sulla novella "cartoline"

silvia riva

Se c’è una frase nota, anche a chi poco sa di Africa, è quella del grande tradizionalista maliano Amadou Hampaté Bâ, che osò ammonire, poco dopo le Indipendenze e dalle tribune dell’Unesco, il rischio della perdita del patrimonio orale africano, il suo vero tesoro, la sua grande ricchezza: « Quando in Africa un vecchio muore, è come se un’intera biblioteca bruciasse ».
A cinquant’anni dalle Indipendenze, la scrittrice franco-senegalese Sylvie Kandé riprende questa frase nella novella Cartoline (Cartes postales nell’originale francese, tradotta in italiano da Michele Peretti e rivista da chi sta scrivendo), la rielabora e ne ricava altri insegnamenti, non meno carichi di conseguenze. Il vecchio di cui si parla in Cartoline non è un sapiente e non è nemmeno un uomo.
Angelica (detta anche Kiki, Zietta, poi Nonnina) è una donna. E una donna piuttosto semplice : si dimentica di non indossare il suo solito pagne (il telo di cotone che le donne africane si annodano in vita) nell’unico giorno in cui si è messa un vestito vero, in occasione di un’udienza in tribunale ; non ha figli a cui trasmettere qualcosa ; la sua principale occupazione è quella di comporre grandi affreschi, pannelli fatti di cartoline postali coloratissime (soprattutto del suo Senegal natale), che continuamente riordina e sposta, per poi tornare a riordinare e ricomporre. E’ una specie di mania.
Qual è, allora, l’insegnamento di Angelica ? Cosa potrà mai tramandare ai suoi nipoti una donna così ? Perché è rischioso che il suo bagaglio esperienziale vada perso? Angelica ha un segreto, anzi due.
Se non ha figli, se non è più sposata (e lo aveva fatto quando aveva solo tredici anni) è perché qualcuno, incurante del rispetto non già (non solo) delle tradizioni, ma dell’intimità della sfera privata della gente, ha scattato una foto di troppo, compromettendo il futuro della giovanissima neo-sposa. Catturando una tranche de vie in più - da aggiungere alle tante in bianco e nero, raccolte in epoca coloniale per dare a vedere ai Francesi metropolitani, pochissimo convinti dell’ingente sforzo militare per estendere nel mondo una ‘plus grande France’, quali fossero i ‘momenti salienti’ della vita nelle colonie e le mirabilia esotiche (i termitai, i baobab) e tecnologiche (i ponti, i palazzi) -, il fotografo A.D. ha inconsapevolmente rovinato una giovinetta che si stava affacciando alla nuova vita di coppia. Con il suo sguardo ammiccante (e ignorante) e con l’obbiettivo della camera, il fotografo le ha rubato non già l’anima, ma lo sguardo e, con esso, il rispetto, di sé, del marito e della comunità tutta, che, da quel momento preciso in poi, la ostracizza. Noi incontriamo Angelica già vecchia, che vive presso la nipote, chiusa nel suo bizzarro segreto in una stanza tappezzata di clichés, fra le voci e le risa sciocche dei nipotini che vorrebbero sorprenderla a farci qualcosa con quelle immagini che continuamente riorganizza, ma che non riescono mai a cogliere in flagrante, con una cartolina in mano.
Se A.D. ha ‘bruciato’ un’immagine, Angelica, per tutta la sua esistenza da paria, cercherà di ricostituirla: certo, attraverso il puzzle che continua, indefessamente, a risistemare e anche attraverso i continui acquisti di riproduzioni fotografiche, scelte ai distributori rotanti; ma soprattutto, attraverso i mezzi legislativi che ha a disposizione. Quello della “frode d’immagine” è un reato sanzionato dalla legge e la donna riuscirà ad ottenere dal tribunale senegalese (non francese) un risarcimento (che ha per lei valore più morale che altro, visto che non andrà mai a riscuotere tutti i denari che le sono dovuti).
Ecco il primo insegnamento di questa donna semplice, al positivo: occorre uno sguardo, portato in modo rispettoso e degno sull’Africa e sugli Africani, perché l’intero quadro dell’Africa e degli Africani sia ricomposto e risplenda di tutti i suoi colori.
Il secondo insegnamento riguarda la parola di chi ha ormai fatto il più del suo cammino. Come afferma Sylvie Kandé nella bella intervista a cura di M. Peretti (alla quale si rimanda anche per le informazioni bio-bibliografiche sull’Autrice), “per rispetto o disinteresse, persino i parenti degli anziani non sempre li sollecitano a raccontare storie che, tuttavia, potrebbero contenere la chiave del mistero di un individuo o di un’epoca”.
Noi siamo, infatti, costituiti non solo di apparenze, che possono essere colte attraverso lo specchio dello sguardo altrui, ma anche di storie, di narrazioni (vere o vagheggiate) che concorrono alla costruzione dell’io, individuale e collettivo.
È perciò importante porsi all’ascolto di chi ha vissuto più di noi, anche se è una persona semplice come Angelica, perché chiunque ha qualcosa da insegnarci, cavandola dalla propria esperienza.
Ecco perché la figura del narratore di Cartoline, che all’inizio s’interroga sul senso di intervistare i vecchi, così precisi e, allo stesso tempo, vaghi nei loro ricordi, alla fine della novella fonde i suoi passi con quelli di Angelica e va a sua volta, anche se col bastone perché ormai anche lui è invecchiato, a cospetto del distributore rotante di cartoline in vendita, ad assistere alla strana danza dei turisti che lottano per accaparrarsi l’immagine più stralunata. Sì, perché, con una grande ironia che sottolinea, in realtà, un orribile e pericolosissimo vuoto culturale, le cartoline negli espositori sono vere e proprie costruzioni di stereotipi: sotto all’immagine della Gouvernance, un palazzo che sorge sui resti di un forte coloniale nel bel mezzo di Saint-Louis-du-Sénégal, c’è scritto ‘termitaio’ ; in Place de l’Indépendance si mette in scena un ‘nudo campestre’. Veramente le legende, con una sola ‘g’, si trasformano in leggende. È un mondo alla rovescia, un mondo confuso che deve essere, ogni volta, riordinato. L’impresa di Angelica è, in questo senso, titanica e degna di un eroe : si tratta di ridare un senso a un mondo che vacilla, così come vacilla la “blatta storpia” della conclusione. E il narratore, ormai vecchio, decide alla fine di non schiacciarla, ma di lasciare che la bestiola viva e cammini, affinché possa trovare, in fretta, un buco dove mettere al riparo il suo “guscio sfondato”.
Ora, questo guscio sfondato può essere forse assimilato ai danni che la confisca dell’immagine dell’Africa e la profusione dei falsi discorsi (folklorici e apocalittici) su di essa hanno provocato. Ognuno, nel suo piccolo, faccia qualcosa perché possa non essere più così. Con questa novella – un genere raffinatissimo che l’autrice, grazie anche al suo stile di scrittura, sa magnificamente interpretare nei suoi tratti caratteristici di compiutezza, circolarità e lievità -, Sylvie Kandé riesce così a rinnovare il monito di Hampaté Bâ, traducendolo con parole più adatte all’oggi. Non si tratta più, infatti, di porre l’accento sulla differenza della cultura africana al fine di preservare la dignità della società che la esprimeva, ma di restituire ascolto e sguardo, parola e immagine alle singole persone, anche alle più umili. Solo allora le iridi bluastre degli anziani torneranno a sorridere e i fiori dei baobab del deserto del Ferlo a tendere le loro braccia fiorite dritte verso il cielo.

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Anno 7, Numero 31
March 2011

 

 

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