Nota biografica | Versione lettura |
Relazione tenuta al convegno sui 20 anni della Letteratura della migrazione, organizzato dal Centro Culturale Multietnico La Tenda presso la Biblioteca Dergano-Bovisa Milano il 12 febbraio 2011
Prima di iniziare, ringrazio Raffaele Taddeo per avermi invitato a partecipare a questo convegno. E ringrazio Francesco Cosenza che ci accoglie nella Biblioteca Dergano-Borvisa, ambiente più che adatto per parlare dell’argomento che ci raduna qui.
Dopo un libro come Nuovo Planetario Italiano, curato da Armando Gnisci, dopo Nuovo Immaginario Italiano, scritto da Maria Cristina Mauceri e Maria Grazia Negro, e dopo Letteratura nascente di Raffaele Taddeo, è difficile dire qualcosa di nuovo su letteratura e migrazione. Bisognerebbe considerare le opere sorte a partire dalla pubblicazione di questi tre libri, cosa alla quale penseranno gli stessi autori dei libri citati.
Io, qui, cercherò di dare una testimonianza in quanto scrittrice migrante considerando insieme a voi alcuni cambiamenti che vedo dopo i vent’anni della letteratura della migrazione in Italia.
Due scrittori contemporanei, a loro insaputa, mi hanno aiutato nelle riflessioni che adesso vi proporrò.
Il primo è l’austriaco Peter Handke che con il concetto di durata mi ha dato l’occasione di riflettere sulla letteratura. L’opera di Handke a cui mi riferisco è appunto il Canto alla durata.
Che cos’è la durata? È una profonda intuizione che ci fa entrare nel mistero dell’esistenza, un’intuizione che dà un senso al vivere quotidiano. La durata si avvicina a quell’esperienza che lo psicologo Abraham Maslow ha chiamato di “peak experience”, che aiuta l’autorealizzazione e che comunica pace e armonia interiore.
Handke parla dei “luoghi della durata” come quei posti dove avviene questa intuizione, luoghi a noi cari che fanno vibrare la nostra sensibilità e lasciano in noi una traccia.
Ognuno di noi ha i suoi “luoghi della durata”.
In Brasile, da ragazza, passavo gennaio, febbraio e l’inizio di marzo, i mesi delle vacanze estive, in una casa di campagna a un centinaio di chilometri da Rio de Janeiro. Lì, in un bosco, restavo ad ascoltare gli uccellini, le cicale, il vento che agitava le foglie, i piccoli scricchiolii degli alberi. Senza che io allora lo sapessi, quel bosco è stato il mio primo “luogo della durata”. Improvvisamente, si attenuavano i sottili rumori del pulsare della vita: uccellini e cicale si zittivano e lo spazio del bosco si trasformava in un gran silenzio. Quel silenzio ha lasciato un’impronta in me. La casa delle vacanze è stata venduta. Non sono più in Brasile. Essere migrante è parte del mio destino. Per una serie di circostanze, la mia vita è stata sempre caratterizzata da spostamenti e traslochi. Costruivo il mio mondo in un paese per poi abbandonare quel paese. È successo varie volte. Oltre al Brasile e all’Italia, ho vissuto negli Stati Uniti, in Argentina e in Austria.
L’Austria mi riporta a Handke. Con questi costanti spostamenti ho imparato a cercare la durata dentro di me. La scrittura è diventata il mio “luogo della durata”, quello spazio in cui il silenzio si trasforma in parole ed è comunicato agli altri.
Oggi, è come se tutti i miei “luoghi della durata” potessero nel silenzio echeggiare dentro di me.
Poeti e scrittori parlano sempre agli altri del proprio silenzio trasformato.
Letteratura è per me la condivisione di una Weltanschauung ossia della propria visione del mondo che nasce dall’intuizione della durata..
In base al concetto di durata di Peter Handke, ho fatto una riflessione su cosa sia per me la letteratura.
Adesso, la MIGRAZIONE.
L’esperienza migratoria offre a chi la vive, grandi temi letterari, come la partenza, il distacco, il viaggio, l’avventura, l’ignoto, le trasformazioni per adattarsi al nuovo, l’isolamento linguistico e i vari conflitti tra un qui e un là, tra un prima e un dopo.
Che grandi temi letterari siano presenti nell’atto del migrare, non rende automaticamente scrittrici o scrittori quelli che migrano.
In realtà, non c’è neanche il bisogno di essere un migrante per avere l’esperienza dei grandi temi letterari presenti nella migrazione. È curioso osservare che le polarità esistenziali presenti nella esperienza del migrare sono anche le dicotomie che in una terapia psicologica vengono elaborate dai pazienti, persino da pazienti che non hanno mai lasciato il proprio paese. E queste dicotomie sono: nuovo-vecchio / aprirsi – chiudersi / speranza – disperazione / lasciare- prendere / accettare-rifiutare.
E adesso chiamo in causa il secondo scrittore che mi ha fornito del materiale per riflettere sugli scrittori migranti. È il mio connazionale Julio Monteiro Martins, scrittore migrante anche lui, che abita a Lucca. Nel 2008, nel 7° Convegno di Ferrara su “Culture e letteratura della migrazione” affermava: “Quando si parla di scrittori migranti bisogna parlare di più delle loro opere e meno della loro condizione di migranti, fare più attenzione ai libri che scrivono, ai loro personaggi, alle loro tematiche, al loro stile.”
All’inizio della letteratura della migrazione, da parte degli studiosi del fenomeno c’è stata molta attenzione sulle esperienze di vita dei migranti. Sono passati vent’anni, abbiamo messo le nostre radici in questo paese. Sto parlando degli scrittori che non sono alle prime pubblicazioni. È cambiata l’Italia e siamo cambiati anche noi. Vivere significa evolvere. Il nostro “prima” è adesso il nostro “dopo”.
Indubbiamente la storia di ognuno di noi è importante e influenza in vari modi quello che scriviamo ma vogliamo essere visti non come protagonisti di un’avventura migratoria, ma come scrittori. Vogliamo che la nostra letteratura sia apprezzata per i suo valore intrinseco.
Con i miei racconti ho toccato molti argomenti legati alla migrazione: la condizione dei lavavetri, l’identità non riconosciuta, problemi creati dalla Legge Bossi-Fini, le difficoltà di comunicazione, la clandestinità e così via. Ma ho dedicato la mia attenzione anche ad altri temi. Per darvi un’idea: nel mio primo libro sulle donne, Amanda Olinda Azzurra e le altre, su tredici racconti, solo quattro sono storie di immigrate. Qui e là la mia seconda raccolta di racconti, su venticinque racconti, tre parlano della migrazione. Con le mie storie non ho raccontato la mia storia, anzi, ho dato voce a chi voce non aveva. Nonostante ciò, le mie storie sono quasi tutte viste come autobiografiche. Basato sul mio racconto “Camuamu” (persino il nome è inventato) qualcuno ha detto che da ragazza avevo lavorato nella campagna brasiliana e che dopo i lavori sentivo le storie di una nonna contadina. A volte, la fantasia dei critici supera quella degli autori criticati … Maroggia e Sylvinha con la Ypsilon, altri due personaggi, sono state viste come immigrate. Nel primo racconto dicevo chiaramente che Maroggia aveva sempre vissuto a San Vito lo Capo, quindi era siciliana, e vari indizi di Sylvinha con la Ypsilon permettevano ai lettori di dedurre che Sylvinha viveva e lavorava a San Paolo del Brasile. Tutte e due, Maroggia e Sylvinha sono state considerate immigrate.
Un giorno, ho addirittura ricevuto a casa una telefonata di una giornalista che voleva parlare con Ana de Jesus. Ho iniziato a ridere al telefono pensando da parte di quale amica potesse venire quello scherzo perché Ana de Jesus è un mio personaggio. Ma la giornalista era in perfetta buona fede. Mi sono ricordata di Flaubert che diceva “Madame Bovary c’est moi!” e mi è venuto spontaneo affermare: “Ana de Jesus c’est moi!” Chiarito il malinteso con la giornalista, ci siamo messe a ridere tutte e due.
Che significa tutto questo? Che le scrittrici e gli scrittori migranti debbano per forza essere legati ai temi della migrazione? Che i nostri personaggi debbano essere sempre degli immigrati? Da parte dell’editoria, magari per l’esistenza di collane già formate, esiste questa tendenza a incatenarci ai temi della migrazione.
Scrittori, migranti e autoctoni, creano delle storie Naturalmente possono anche scrivere autobiografia, ma l’importante è che facciano buona letteratura. L’unico spartiacque accettato tra scrittori è quello della qualità della loro scrittura.
Altre tematiche mi stanno a cuore e ho scritto su di esse: l’importanza della lettura nella formazione di un individuo, la presenza dell’oralità nella cultura brasiliana (oggi purtroppo molto diminuita con la televisione); il rapporto dell’essere umano con la morte; il consumismo; l’abbandono dei vecchi nella società moderna; il bisogno del silenzio (e qui ricordo una bella recensione che R.Taddeo ha fatto al mio racconto “Tre silenzi”, tre modi diversi da parte di tre donne, di reagire all’esperienza del silenzio). Ho scritto una favola per bambini e adulti che parla di ragazzi italiani con delle diversità che debbono essere rispettate. Non erano immigrati Il mio romanzo 500 Temporali si svolge prevalentemente in una favela brasiliana e racconta le storie di chi vive nel terzo mondo. Viviscrivi, verso il tuo racconto è un saggio sulla scrittura creativa.
Ogni tanto mi chiedono un racconto da pubblicare in antologie e mi dicono: “Vogliamo un racconto come “Io, polpastrello 5.423” oppure come “Ana de Jesus”. Questo significa chiudere in uno sgabuzzino l’immaginazione di una scrittrice.
Dopo vent’anni di letteratura della migrazione in Italia, scrittrici e scrittori stranieri che scrivono nella lingua italiana, debbono scrivere su temi da loro scelti.
Recentemente sono stata in Brasile, invitata dall’Istituto Italiano di Cultura di São Paulo e di Rio de Janeiro durante la X Settimana della Lingua Italiana nel mondo. Quest’anno i tema era “Italiano, lingua degli altri”. Nelle università di Rio e di S.Paulo, ho condotto dei laboratori di scrittura e ho avuto occasione di raccontare la mia esperienza come scrittrice nata in Brasile che scrive nella “lingua degli altri”.
Il Brasile comincia ad interessarsi alla letteratura dei brasiliani che vivono all’estero e scrivono in un’altra lingua, anche se non esistono ricerche concrete sul tema. Proprio per questo, c’era una grande curiosità da parte di allievi e di professori universitari che insegnano lingua e letteratura italiana.
Gli allievi volevano sapere qual era stata la mia più grossa difficoltà nello scrivere in italiano. Volete che ve la dica? Le doppie! Solo recentemente il mio orecchio comincia a sentire la differenza della pronuncia quando ci sono le lettere doppie.
La professoressa di Letteratura Comparata, Shirley Carreira, mi ha chiesto in un’intervista come riuscivo a mantenere l’identità della mia cultura di origine, vivendo in Italia e scrivendo in italiano.
Ho riflettuto e vorrei finire il mio discorso dicendovi cosa penso riguardo a questa domanda: credo che il paese in cui nasciamo sia la base dell’l’identità culturale, ma è solo un punto di partenza. L’identità culturale non deve poggiarsi sul concetto di nazione ma sull’interscambio con altre culture. L’idea è ben chiara nella massima della Filosofia Ubuntu, citata in Nuovo Immaginario Italiano: “IO SONO CIÒ CHE SONO PER MERITO DI CIÒ CHE SIAMO TUTTI.”
Grazie.