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Relazione tenuta al convegno sui 20 anni della Letteratura della migrazione, organizzato dal Centro Culturale Multietnico La Tenda presso la Biblioteca Dergano-Bovisa Milano il 12 febbraio 2011
La scelta del titolo vuole essere un richiamo all’omonimo libro a cura di Alberto Ibba e Raffaele Taddeo pubblicato nel 1999 da Leoncavallo Libri con testi di: Abdel Malek Smari, Saidou Moussa Ba, Hossein Hosseinzadek, Marcelo Vega, Said Sahm e del sottoscritto dove a proposito della lingua e dello “strappo” Alberto Ibba scriveva nell’introduzione: “è il libro della lingua che non c’è più e della lingua che ancora deve arrivare. È il libro dello strappo dalle radici, della propria terra, dalla propria lingua. Ma è anche e soprattutto il libro de la "lingua strappata". La lingua “strappata”-non “strapazzata” (come vorrebbero taluni), lingua conquistata.
La lingua italiana è il punto comune che lega e caratterizza questa “letteratura nascente” come è stata definita da La Tenda. Anche se già Taddeo specificava che “la conoscenza della lingua è sì importante, ma non è la conditio sine qua non per la creazione di un testo letterario” e le Prof. Serge Vanvolsen –docente di linguistica italiana all’università di Lovanio, scomparso da pochi giorni e così ne vogliamo onorare la memoria- affermava: “…scrivere ha senso solo quando si ha qualcosa da dire e si sa come esprimerlo; solo il secondo si può in parte imparare…” Taddeo completa: “…lo si sa esprimere ritrovando energie e capacità dalla lingua interiore, vera maestra che adegua forma e contenuto.”
Il migrante, colui che travasa un’anima da un corpo in un altro- per parafrasare Clementina Sandra Ammendola - porta una lingua interiore, paesaggi interiori in cerca di “ospitalità”. Per me la lingua italiana è stato una lingua ospitale.
Il migrante, anima traslocante, lascia tre madri dice Christiana de Caldas Brito: la madre terra, la madre genitrice e la madre lingua. Come “partire è un pò morire”, rinascere in un'altra lingua diventa essenziale. Cito a memoria di nuovo Christiane : il migrante è come un uccello migratorio che parte all’avventura, vola e percorre miglia e miglia poi atterrisce in terra Italia, sfinito e spennacchiato, rinascere in un'altra lingua è come farsi ricrescere nuovi ali per tornare a volare e planare…
Questa lingua è alla volta un ospite che accoglie ed è “accolto”. L’uso della lingua italiana è dettata certo da un imperativa contingente di comunicazione: si vuole comunicare con gli italiani, urlare la propria esistenza (ci sono anch’io sono un essere pensante, non sono solo la mano d’opera, non sono un cittadino di seconda classe, ho sentimenti e provo emozioni, esisto non sono il signor nessuno, non sono invisibile come Dio). Quale migliore modo per comunicare con i nativi se non nella loro lingua? Ma allo stesso tempo è una scelta. Per Tahar Lamri è una “lingua neutra”-non gravata, per la maggior parte di noi, dai retaggi del colonialismo. Di questa lingua non si potrà dire come diceva Ngugi: fu la lingua del colonizzatore a dire ciò che era letteratura o meno e permetteva, dava legittimità.
Per l’amico Yousef Wakkas è una “lingua franca”. Una lingua franca che fa parlare il mondo intero, i migranti africani, asiatici, est europei, latino-americani ecc… fra di loro e con gli italiani. Una vera “geo grafia” dice Vera Lucia de Oliveira
La lingua italiana per me è, come per Julio Monteiro la lingua dell’amore, quella con cui comunico con i miei affetti, mia dolce meta, i miei figli. Per julio è la lingua del quotidiano e anche della professione quindi la sua scelta di scrivere in italiano gli permette di “diventare, nella dimensione letteraria del suo essere, italiano” e la sua lingua materna è diventata la lingua della memoria. La lingua italiana di fatto non contiene la mia infanzia ne la mia adolescenza ma ospita la mia matura età e la mia nostalgia: scrivere in italiano assume un valore taumaturgico, perché mi permette di guarire dalla nostalgia.
Scrive Gezim Hajdari: “scrivo questi versi in italiano e mi tormento in albanese”.
Impararla non è stato facile. Alcuni, anche fra di noi dubitano che noi scriviamo direttamente in italiano e che i nostri scritti non sono altro che “traduzioni mentali” di cose pensate nelle nostre lingue.
Impararla non è stato facile e ancora oggi dobbiamo ringraziare la correzione automatica del computer.
Per fare i nostri primi passi abbiamo preso la lingua in affitto come nei testi scritti a quattro mani di Pap e Pivetta o di Saidou e Micheletti. Poi tanti hanno fatto il mutuo e pian piano lo stanno riscattando, estinguendo un pò alla volta. Infine si sono fatti strada coloro che sono stati direttamente…allattati dalla lupa.
Cosa ci riserva il futuro?
Un timore: la conoscenza e il possesso della lingua di Dante, segno di inclusione nella cultura italiana “non sconfinerà nell’assimilazione acritica, nella perdita del segno riconoscibile e raccontabile, nella cristallizzazione rabbiosa della propria identità?”. Ci auguriamo di Non!
Dice Taddeo: “ Nella letteratura, la lingua diventa martello e incudine perché quel linguaggio che si è conosciuto deve essere forgiato, adattato, costruito, modellato. Per uno straniero scrivere in italiano, avendo acquisito la lingua da adulto, non in maniera accademica…è sempre un’ardua impresa. Ritornano strutture linguistiche del linguaggio materno che si inseriscono, si attorcigliano alla nuova lingua.”
Sul discorso del linguaggio, sì, i primi che hanno scritto a quattro mani perché non avevano questo possesso della lingua tale da potersi esprimere da soli il loro linguaggio era standard, standardizzato da chi li aiutava a scrivere. Oggi molti hanno scelto il linguaggio corrente, vedo nei testi di Igiaba Scego e vedo nei testi di Amara Lakhous. Alcuni hanno incrociato la lingua italiana col dialetto italiano oltre che con la proprio lingua.
L'esperienza di Tahar Lamri è fantastica in quel senso in cui lui ha intarsiato nell'italiano insieme ai dialetti romagnolo, veneto, l'arabo che da al tutto una sonorità molto particolare. Ho visto, per esempio, Barbara Serdakowski fare la scelta multilingua nelle sue poesie addirittura ogni rima con una lingua diversa, le ho detto che fa strano perché uno deve avere la conoscenza di molte lingue per poter leggere la poesia e lei disse che per lei era importante il discorso della sonorità della lingua e scrivendo una poesia in diverse lingue sono le varie sonorità ad essere messe in risalto. Ho visto il linguaggio di Jadelin Gangbo: usa il linguaggio dei giovani di oggi, il linguaggio della strada, dei rapper nello scrivere. E poi c'è questa esperienza che stiamo provando io e Gabriella Ghermanti di riportare l'oralità nella scrittura. L'avevo tradotto, usando un termine degli scrittori caraibici, come "oralitura", proprio per spiegare meglio cosa intendevo quando cercavo di trasportare elementi della mia cultura di origine dentro la scrittura corrente. Poi ci sono scrittori che hanno un linguaggio molto più affermato, intendo scrittori come Julio Monteiro Martins, Ron Kubati, Christiane De Caldas Brito, Jarmila Ockayova che secondo me è legato al fatto che loro non sono migranti scrittori, ma sono secondo la definizione di Monteiro “scrittori migranti”.
Sul discorso dell'oralità mi piace riportare qui un'introduzione di Armando Gnisci ad un testo di Mbacke Gadji che dice:
"Ci sono due modi nuovi attraverso i quali gli scrittori della migrazione stanno proponendo negli ultimi tempi una nuova forma di inserimento spirituale nella scrittura letteraria africana. il rinnovamento linguistico che ci appare oggi ci sorprende su due vie: una si apre nel passaggio all'italiano letterario attraverso i dialetti d'Italia; le mezze-lingue di mezzo, le lingue prossime, del prossimo, le più vicine a chi parla e vive in una contrada del mondo; lingue-zie, familiari e amichevoli. L'altra passa attraverso l'insufflamento dell'oralità nella scrittura. L'oralità suprema del griot, quella rapsodica del cantastorie che viene da lontano, da una profondità cava che noi italiani ignoriamo. Su questa strada misteriosa incontriamo Gadji e capiamo, leggendo questa ultima narrazione, che si è fermato ad aspettarci."
La scrittura migrante ha creato uno spazio linguistico nuovo per una lingua ibrida, una lingua meticcia da alcuni chiamata interlingua.
Di sicuro la letteratura migrante potrà arricchire la letteratura italiana proiettandola in una dimensione transnazionale verso la “letteratura mondo”. C’è chi parla di “figli africani di Dante”, di “dolce stile… nero”.
1Alberto Ibba e Raffaele Taddeo (A cura di); La Lingua strappata-testimonianze e letteratura migranti-Leoncavallo Libri 1999