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Ce l’hanno ripetuto all’infinito: i vecchi sono enciclopedie viventi, vere e proprie biblioteche che bruciano quando passano a miglior vita, pozzi di scienza riempiti con la sabbia della negligenza, granello dopo granello. Il fatto è che conservano, alla rinfusa, in fondo alla loro memoria, vaghe fisionomie e false citazioni, film-fiume che continuano a rivivere ininterrottamente senza che ce ne si stanchi, alcuni profumi fuori moda, una decina di ricette inimitabili e, poi, antichi veleni e amori segreti, canzoni troncate e belle storie di tradizioni sorprendenti. Ah, e anche liste – lunghe liste – di persone, di spese inevitabili, di cose fatte o da fare, persino di scadenze! (Sì, i vecchi hanno strani conflitti col tempo).
Ma chi, tra i loro cari, si sognerebbe di scavare in questo guazzabuglio, in questa manna? Chi si sognerebbe di porre domande precise? Chi vorrebbe annotarne le risposte, le elusioni e i silenzi? Chi si prenderebbe la briga di guidarli nei loro stessi labirinti, affinché non vi si smarriscano e non ne emergano, atterriti, con tre aneddoti insignificanti che reciteranno ogni volta alla stessa maniera, di fronte ad un pubblico che non se ne cura? Non certo gli adulti, presi come sono dalla quotidianità e ossessionati da onnivore ambizioni. E nemmeno i giovani, che non osano o ancora non sanno giungere all’essenziale, molto più affascinati dalla tecnologia che non dall’arte lentamente acquisita di unire certe storie da un capo all’altro, tessendone una trama e restituendo quella vita al vento.
– Ah sì, ma intervistarli così, su cose personali, è un po’… no? Non vi pare…?
Si tratta forse, effettivamente, di una questione di linguaggio. O anche di sguardo, poiché i vecchi fanno impressione con le loro pupille lente dai contorni bluastri, che d’un sol colpo possono penetrare nelle tue sei vite precedenti per poi tornare ad arenarsi, sfinite, su un dettaglio della tua persona fino a poco prima insignificante – un sopracciglio, un filo che pende dalla manica, un neo.
– E poi a noi, ci hanno insegnato a non squadrare la gente.
Che Angelica – Nonnina Angelica, ci rimproverava nostra madre, spingendo col suo indice teso la fronte del figlio più vicino, poiché sfrontati lo eravamo – avesse tappezzato di cartoline i muri della camera che occupava in casa nostra, non ci riguardava particolarmente. All’epoca, intendo. Tecnicamente prozia, lei era nostra nonna secondo la tradizione regionale; godeva del privilegio di dormire sotto il nostro tetto, di mangiare a tavola con noi, di far lavare gli indumenti a Astou, la cameriera, e di guardare la televisione senza dover precisare né quando se ne sarebbe andata, né essendo tenuta a rendersi utile con dei lavoretti. Le asprezze che la sua presenza poteva creare restavano segreti d’alcova: la nostra famiglia, globale e alla moda, ma nondimeno preoccupata del ‘cosa dirà la gente’, si faceva un punto d’onore nel rispettare un’accozzaglia di tradizioni inoffensive, tra cui troneggiava l’arte di scegliere il soprannome appropriato ad ogni persona del nostro ambiente familiare (Nonnina, Zietto, Figlio Mio, Astou-ma-dove-cavolo-è-finita-quella, ecc.) e di dosare il rispetto che era dovuto loro in funzione di una griglia accettata da tutti. Così, dal momento che la presenza di Angelica in casa era diventata per noi una consuetudine, vivevamo in sintonia con il quartiere, malgrado il nostro gusto particolare per l’ostentazione e le cose occidentali.
Alla fin fine non avremmo neanche più fatto caso a tutte quelle cartoline, ai loro svariati soggetti o al contrasto dei colori, se non fosse stato per l’impegno di Angelica nell’invertirle, spostarle o ravvivarle. Per farne nuove disposizioni, migliori teorie e inedite armonie cromatiche. A intervalli regolari, sebbene secondo un calendario che ci sfuggiva. Furtivamente, probabilmente di notte. Ancor più di frequente quando finirono le sue escursioni in città, che le consentivano di procurarsene di nuove. Resta il fatto che noi non l’abbiamo mai sorpresa a staccare, appuntare, lasciar cadere, attaccare con il nastro adesivo e nemmeno a far caso ad alcun frammento di questo mosaico in perpetuo movimento. La trovavamo, il più delle volte, seduta in una poltrona di giunco che scricchiolava penosamente, con la schiena rivolta a quel muro variopinto e la fronte a quella porta che spingevamo brutalmente, dopo aver sì bussato, ma per pura formalità. Preparavamo l’entrata facendo apposta abbastanza rumore per non suscitare in lei il minimo sospetto di volerla sorprendere, ma tuttavia troppo poco perché potesse avere davvero il tempo di prepararsi. In lei, dunque, una finta indifferenza, che oscillava fra gli scricchiolii del vimine torturato; in noi, la visione.
Al centro dell’affresco o poco più in là, alcuni baobab, sì!, in posizione rovesciata nella polvere salmastra del deserto del Ferlo. Vibrano ancora come meteore appena arenatesi. Si lamentano invano, tendendo una miriade di fiori bianchi verso il cielo, loro patria lontana. Ma le nubi passano, trascinando altrove il loro carico di piogge.
A destra o a sinistra, il palmo aperto di un bambino con la mappa dei suoi futuri itinerari: più delicati di ciglia, ecco il cammino scosceso della sua vita e i meandri della sua strada verso la felicità; lì, il bivio del suo destino. A mo’ di viatico, un amuleto di cuoio è appeso al polso minuto per mezzo di una cordicella intrecciata. Per dimensioni e emozione, la manina poggia sul palmo della mano di un adulto come un minuscolo feudo che si affida al proprio signore.
In alto o in basso, un pulmino Car-Rapide azzurro dal tetto giallo, la cui carrozzeria porta diverse scritte, lodi all’Onnipotente e l’inquietante motto “La fortuna aiuta gli audaci”. L’inevitabile Raccolta del Vino di Palma rappresenta un giovane muscoloso, ma senza volto, che, legato al tronco per la sola grazia di una cintura, ha appena posato quattro bottiglie al collo dell’albero per raccogliere il succo che cola dalle sue giugulari. E naturalmente, le Lavandaie sulla riva di un corso d’acqua, stoiche davanti al mucchio di biancheria: per questa foto senza pretese è stato consentito loro di tenere ben in vista le bacinelle di plastica arancione.
Ve ne sono decine di altre, come lo schizzo umoristico dello stesso Car Rapide rappresentato, questa volta, come un bolide malandato che crolla sotto il peso dei passeggeri e dei bagagli e sormontato dalla scritta “Tutto passa, grazie a Dio”. O le immagini religiose in stile deliziosamente naif – “Il Battesimo del Precursore”, “La Visitazione” – stampate su carta di grossa grana da un’abbazia del Sud, alcune vedute di una moschea color ocra, costruita in stile sahelo-sudanese, e due o tre riproduzioni di quadri su temi storici, fra cui la battaglia di Krina. Senza contare il ritratto di Samori prima dell’esilio. Ma sorvoliamo.
A noi, l’affresco ricordava soprattutto di elemosinare qualche soldo a Nonnina Angelica, il cui soprannome, in tali circostanze, ci veniva facilmente. Infatti sapevamo, pur senza conoscerne tutti i dettagli, che una cartolina l’aveva resa ricca, immensamente! Di solito, senza farsi pregare troppo, frugava nelle tasche del suo grembiulone a quadretti blu o nel nodo del pagne per estrarne qualche moneta, non tanto per viziarci, quanto per avere il tempo di tornare più in fretta alle sue fantasticherie.
– Non illudetevi bambini, i danni e gli interessi non li ho mai riscossi… beh, solo una piccola parte, e mi sono stancata presto delle pratiche infinite da sbrigare per reclamare la totalità del mio dovuto. Una volta pagato l’avvocato, ho comprato anche una macchina fotografica, ma con gli occhi così malandati…
Detto ciò brancolava alla ricerca degli occhiali che smarriva di continuo. Per noi le sue tribolazioni avevano poca importanza. In realtà, ci piaceva di più senza storia, seduta in camera sua, alla portata dei nostri giochi e delle nostre esigenze.
Oggi le domanderemmo sicuramente di parlarci di quella famosa cartolina che aveva sistemato in una scatola di scarpe (ci ho frugato) dove riponeva vergogne e doppioni. Ma forse siamo interessati alla sua versione dei fatti più per le lacune della documentazione ufficiale su di essi, o per la nostalgia che accompagna la perdita irrimediabile di una voce di cui avevamo sottovalutato le vibrazioni segrete. In quella scatola un po’ umida, lei aveva custodito alcuni ritagli di giornale su un affare poco noto ad un pubblico la cui attenzione era, a quel tempo, rivolta tutta alle opportunità offerte dalla rivoluzione tranquilla e dallo sviluppo del turismo.
A cinquant’anni e senza professione, Angelica N. si è assunta la responsabilità di chiedere alla giustizia il risarcimento per “furto di immagine” perpetrato, circa venticinque anni prima, – ha dichiarato – da un fotografo di fama, A.D., vissuto a lungo nel nostro paese. La vittima ha fatto presente che la pubblicazione della sua foto sotto forma di cartolina e la conseguente inclusione in un opuscolo turistico avevano rovinato il suo matrimonio e reso precarie le opportunità di una nuova unione uxoria e di maternità. Inoltre, sarebbe stata bandita dal quartiere per l’ostilità del vicinato e sarebbe sopravvissuta esclusivamente grazie all’ospitalità e al rispetto dei legami familiari, manifestati da una nipote che l’ha accolta. Sulla base di lavori scientifici – riassunti dall’avvocato di parte civile –, che dimostrano quanto le cartoline, sebbene spesso di notevole interesse storico ed etnografico, possano essere veicolo di trasmissione di un discorso coloniale, razzista e maschilista, il Tribunale ha concesso….
Nostra madre non ci ha aiutati affatto. Della fine del processo ci dice solo questo: che quel giorno, avendo dimenticato di essersi messa – per obbligo delle circostanze – un vestito, Zietta si era portata di riflesso le mani alla vita per sistemarsi il pagne. Che accorgendosi dell’errore, aveva tirato fuori dalla tasca un gran fazzoletto a quadretti con l’idea di pulirsi gli occhiali. Che attraverso le lenti appannate aveva scorto la mano offertale dall’avvocato e vi si era aggrappata come uno che affoga. Apparentemente un po’ esasperato, lui le aveva indicato l’uscita del tribunale con un ampio movimento del braccio, aggiungendo che l’avrebbe ricontattata successivamente per “finalizzare i dettagli”. Lei aveva ubbidito. Con un passo ben deciso, l’altro più incerto e un’occhiata all’indietro. Che lei (nostra madre) aveva lasciato scivolare il braccio sotto il suo, adattando l’andatura alla sua e sorreggendola. Che avevano camminato lentamente, nella penombra del corridoio, ed erano emerse al sole. Che essendo così vicina, aveva sentito contorcersi nel corpo della zia un grido che non avrebbe mai trovato sfogo. Ricordava, inoltre, che, all’uscita, Angelica era stata avvicinata da alcuni curiosi e da giornalisti che tentarono di fotografarla, prima di infilarsi in un taxi.
– Hai più memoria di me, Ragazza mia. Io, è tanto se adesso ricordo il mio matrimonio e la messa celebrata da padre Favrin in persona, e poi i cori accompagnati dal tam-tam: sai, all’epoca, era bellissimo. Insomma, ero al settimo cielo.
Perché all’inizio… così giovani, si ha un po’ l’impressione di recitare una parte, senza sapere davvero come fare l’entrata, la propria, nella propria storia…
La suoneria del telefono aveva poi ingarbugliato il filo dei suoi pensieri, incitandola a saltare di palo in frasca. Rivide la partecipazione scritta in bella calligrafia, che le annunciava il decesso dell’ex marito. Leggendola, aveva ingoiato tre volte la saliva, tutto qui. Fu quel giorno che si mise il cuore in pace: forse lui aveva solo avuto bisogno di un pretesto.
Di ritorno dalla chiesa, aveva infilato un vestito a vita bassa e annodato un fazzoletto in testa per far cominciare la festa, come si suol dire. Ma no, non a lungo, quel giorno non glielo avrebbero permesso. Il nuovo sposo, sempre con il cappello a cilindro – da chi aveva poi preso in prestito quell’antichità? – l’aveva raggiunta un istante per sussurrarle qualcosa di tenero. Questo se lo ricorda bene, poiché ha rivissuto la scena per diversi anni di fila, così come ricorda l’occhiolino che l’altro le aveva fatto, quando si era voltata, raggiante, verso il cortile dove gli invitati si affollavano rumorosi. Lui, affiancato da due assistenti, era vestito interamente di bianco, con quella dannata macchina fotografica a tracolla, e la guardava. Del resto della giornata non ha più alcun ricordo, inutile insistere.
– Che senso ha avuto invitarlo? Aveva detto lui con voce rotta. (Come se occorresse un invito ufficiale per assistere ai nostri matrimoni. Come se lui avesse intravisto quell’occhiolino.)
La vicina si era arrabbiata:
– Perché ridicolizzarci così ? Quanto vi hanno pagato per questo lavoro ?
– Ecco l’immagine che avranno di noi. Completamente artefatta, si era indignata una cugina. Gli altri non avevano detto nulla. Avevano sputato per terra o fatto schioccare la lingua. Lui, dopo qualche mese, aveva finito per dirsi annientato dal ridicolo e aveva scelto l’anonimato di una capitale straniera.
– Ma, come ho detto, chissà che non fosse un pretesto. Ho venduto la fede perché le mie dita si sono ingrossate. Una ragazza in età da marito fece comunque incorniciare la cartolina e la posò sul comò come portafortuna. Esaminando la cartolina da vicino (la tengo con due dita e l’avvicino alla luce), si possono effettivamente riconoscere Angelica e l’ex marito. Lui porta un cappello di feltro, un abito preso in prestito, probabilmente noleggiato, poiché sembra ballarci un po’ dentro. Ha gli occhi socchiusi, sorride leggermente e sembra avere il doppio degli anni e del peso della fidanzata. Quanto ad Angelica, indossa un completo variopinto e il chiaro-scuro sembra disegnarle tatuaggi sulla pelle. Porta al collo una croce d’oro filigranato e una misera collanina di perle. Per il resto, ha l’espressione, a metà fra l’esaltato e il triste, di chi partecipa, da attrice, vittima o spettatrice, ad un rito sacrificale. E che dire della scritta che, sul retro della cartolina, precisa “Matrimonio di Cristiani”, seguita da poche righe esplicative sull’amuleto da cui la giovane non avrebbe mai voluto separarsi!
Per molto tempo abbiamo pensato che fosse la collera provocata da quei commenti malevoli ad aver spinto infine Angelica verso i tribunali. Tutto ciò finché non lessi più attentamente la risposta (dattilografata e piegata in fondo alla scatola) che aveva ricevuto dall’esecutore testamentario del Signor A.D., al quale, a quanto pare, lei aveva scritto un anno prima dell’inizio del processo.
In risposta alla sua richiesta del 5 corrente mese siamo spiacenti di informarla che, dato il numero dei negativi repertoriati nei nostri archivi che potrebbero corrispondere alla sua descrizione (“bambina dai 10 ai 13 anni, con le trecce legate e un grembiule color indaco, in piedi davanti a una tenda, col busto nudo e le mani sui fianchi”), è per noi materialmente impossibile identificare quello al quale lei allude.
Distinti saluti.
Col passare degli anni, ho cominciato anch’io a immagazzinare, in fondo alla memoria, vaghe fisionomie e false citazioni; riorganizzo le immagini, le inverto, nell’irrisoria speranza di controllare un po’ meglio il passato; e le scene che colleziono finiscono per convincermi, a forza di riviverle. Lo vedo ad esempio sfoderare la macchina, mirare, scattare; lanciarle un sacchetto di caramelle, una strizzatine d’occhio, richiudere bruscamente dietro di lei la porta dello studio. Vedo Kiki – così era soprannominata la piccola Angelica – in lacrime per strada: cammina in fretta, stringendo con entrambe le mani il bordo della polo a righe, e si ferma solo per asciugarsi le guance con l’angolo del pagne. Lui le aveva raccomandato di sistemarselo bene prima di spingerla fuori: “Guai se si dovesse pensare che…!”
Per l’occasione cerco, come ha fatto lei così a lungo a nostra insaputa, piena di muta vergogna, se questa foto rubata – la prima, quella di cui non ha parlato alla Corte – non sia per caso, anch’essa, venduta in serie nei chioschi, abbellita o no da una scritta, e spedita dappertutto dai vacanzieri.
Con una spinta, l’espositore girevole si mette a ruotare con il suo carico di fredde foto, prima in senso orario, poi in senso opposto. Ruota fino a prendere il volo al di sopra dell’imbarcadero e del mercato. Gira tanto da dare il capogiro. Finisce per immobilizzarsi cigolando, come se le cartoline fossero diventate improvvisamente di piombo. Non si muove più o, contro voglia, solo di mezzo centimetro, a destra, a sinistra, destra, un po’ più a sinistra, destra! Un turista si allontana con la scelta in mano: liberato, l’espositore girevole riacquista velocità. Ben presto va così veloce che le immagini si scontrano, si fondono, si sovrappongono. Ecco un termitaio davanti al Palazzo del Governo di Saint-Louis-du-Sénégal, il ponte Faidherbe in piena Casamance, c’è persino un nudo campestre in Place de l’Indépendance! Come bambini alle giostre, i passanti tendono le mani verso gli scatti mischiati per tentare di prenderne uno al volo. Le suole vanno e vengono calpestando la terra attorno all’espositore girevole. Una blatta storpia abbandona una delle sue zampine e cerca in fretta un buco dove nascondere il guscio sfondato. Il mio bastone la risparmierà.
I vecchi sono sì pozzi di scienza, ma a chi viene in mente di far loro domande?