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pesci tropicali

doreen baingana

Peter si accasciava sempre sul mio corpo con un tonfo sordo dopo essere venuto, il fiato corto e affannato, come se avesse appena attraversato a nuoto il lago Victoria. La mia paura che stesse per morire veniva subito scacciata dal suo intenso russare, pochi istanti dopo che mi si era scrollato di dosso. Restavo a chiedermi cosa ci facevo esattamente in quel posto, nel cuore della notte, accanto a un uomo bianco che russava. E com’era che gli uomini si addormentavano con tanta facilità, così profondamente, dopo averti sbuffato e ansimato addosso? Eccomi lì, sveglia, sola con i miei pensieri, che mi urlavano in testa incessanti, come in un tunnel degli orrori. Il sesso era come lo studio, una cosa che facevo e basta. Voglio dire, volevo farla eccome. Me l’ero cercata, nessuno mi aveva costretto.

A dire il vero Peter era rosa, non bianco, capelli a parte, i pochi che gli restavano. Avevano cambiato colore all’improvviso, per via dello stress dei primi, difficili anni in Uganda, quando cercava di avviare il suo giro di esportazione di pesci. Aveva solo trentacinque anni, ma per me che ne avevo venti, era vecchissimo. Nudo, però, ne dimostrava quattordici. Aveva una rotondità adolescenziale, un corpo morbido, quasi effeminato, con gambe pallide e flosce. La sua pelle al tatto era come la mia. Ci eravamo conosciuti tramite Zac, un amico dell’università che in più lavorava per la ditta di Peter. Peter esportava pesci tropicali comprati in tutto il paese: lago Victoria, Albert, Kyoga e Nilo. Pagava quasi niente i pescatori locali, poi spediva il pesce in carichi di vasche ai negozi di animali in Gran Bretagna. Con ottimi profitti.

Io e Zac frequentavamo la Makerere University, quella che una volta era considerata «l’Harvard dell’Africa», a sud del Sahara, senza contare il Sudafrica, il che non lasciava grandi alternative. Ma questo succedeva negli anni Sessanta, prima che Big Daddy, Idi Amin, cercasse di uccidere quanti più professori possibile. La maggior parte fuggì in esilio e la «guerra economica» fece il resto. Ma non ci lamentavamo, eravamo fortunati a essere lì.

Una sera bevevo waragi nella stanza di Zac, quando entrò Peter. Zac mi piaceva perché sapeva che non sarebbe mai diventato un pezzo grosso e perciò nemmeno ci provava. A quanto pare riforniva Peter di marijuana. Allenata da una vita nella cattura di un buon partito, non appena Peter entrò mi ritrovai subito a interpretare la dolce e leziosa versione di me che riservo agli uomini. Mi allontano da me stessa, dietro a un sorriso meccanico, da bambolina. Peter parve divertito dallo squallore della stanza. Osservò come un turista stupefatto l’intonaco crepato che si sfaldava, l’unica lampadina spoglia, un poster sbrindellato di Bob Marley sul muro, la lunga fila sghemba di classici Penguin dalle orecchie arricciate sulla scrivania, le pile disordinate di appunti. Zac stava per laurearsi in letteratura.

Zac saltò subito giù dalla sedia e la offrì a Peter: “Ehi, grande!”. Si era autoconvinto di essere afroamericano. Lo prendevamo in giro per la parlata nasale, lo slang del cinema, l’andatura spavalda che, data la bassa statura, lo faceva sembrare un leopardo storpio. Continuavo a dirglielo: “Piantala, Zac, non ci casca nessuno”, ma quelli erano i suoi modi.

Peter rifiutò la sedia e si sistemò con circospezione sul lettino di Zac, che era coperto con un fine panno marrone. Il muzungu voleva fare il tour degli slum con tutti i crismi. Io sedevo dall’altro capo del letto. Quando si sedette lui, le molle sfiancate cigolarono e nel mezzo si creò un buco profondo. Mi sentii ripiegarmi in avanti e quasi cadere nel buco, troppo vicino a Peter, nel suo caldo spazio personale. Scivolai indietro e mi tirai su a sedere sul cuscino, rannicchiando le gambe. Pensava che non volessi sedermi troppo vicina a lui, un uomo bianco? Ci fu un breve silenzio, imbarazzante. Ma con due uomini intorno, non dovevo essere io a cominciare la conversazione.

Zac chiese: “Cosa bevi, capo? Peter, questa è Christine, la più bellissima del campus”. Voleva fare il galante, ma la frase suonò più simile a una battuta. Risi come una sciocca.

Peter si girò e mi restituì il sorriso: “Piacere, Christine”. Non si vedeva neanche un dente, soltanto la piccola ombra grigia della bocca. Misi una mano molle in quella che lui mi tese. La strinse forte, come una punizione. Aveva la pelle calda. Balbettai qualcosa in risposta, sempre ridendo per nulla, poi diedi una lunga sorsata al mio drink, tenendo la faccia puntata sul bicchiere.

Zac si avvicinò a un mobiletto scuro. Dentro c’erano due piatti di plastica rossa, che sembravano unti, una tazza di plastica verde, un bicchiere impolverato con dentro due o tre forchette e cucchiai, un barattolo di sale e un altro di Kimbo, un grasso per cucinare. Prese il bicchiere, tolse le posate e ci soffiò dentro. Con un dito, sfregò via l’ala appiccicata di un insetto. “È da lavare. Torno subito” e mi lasciò sola nella stanzetta senza ombre, con Peter. Era la prima volta che restavo da sola con un bianco. Il silenzio era teso, illuminato dalla lampadina spoglia.

Con un evidente sorrisetto compiaciuto, Peter si voltò a contemplare la pochezza di quell’unica scrivania, unica sedia, unica stanza. Avrei voluto aprire la finestra e lasciare entrare la frescura serale. Ma non volevo muovermi e in un attimo le zanzare sarebbero entrate a ronzare. Fuori piovigginava, un picchiettio sul vetro faceva scintillare i piccoli riquadri luminosi del caseggiato accanto, come una tenda nera e gialla, lontana e inaccessibile. Ciuffi di capelli bianchi ricadevano sparsi sul colletto di Peter. Quando si rivolse a me, il bagliore della luce si spostò sul nudo cucuzzolo rosato della sua testa.

“Allora, vai a scuola anche tu?”

“Sì”. Con voce bassa e banale.

“Ah sì? E cosa studi, Christine?”, come uno zio gentile con una bambina di cinque anni.

“Sociologia”.

“Sociolo-giia?” allungò la parola, senza nascondere un tono divertito. “Notevole. Devi essere una ragazza molto intelligente”. Aveva un sorriso gentile, ma in modo diabolico, con quella bocca cavernosa. Gli restituii il sorriso, per dimostrargli che io, almeno, avevo denti grandi e smaglianti. Ecco. Non credo che se ne accorse.

Per fortuna Zac tornò in quell’istante. Ingollai in fretta il resto del mio drink e me ne andai. Nella serata calda e fresca di pioggia, l’erba bagnata e la terra fradicia profumavano di fertilità. Sul marciapiede scheggiato, schivavo le pozzanghere, vivide per i riflessi dei lampioni. Non che ci facessi davvero caso, impegnata com’ero a prendermela con me stessa. Stupida tutta sorrisi, perché non hai detto qualcosa di intelligente? Per poco non superai il mio palazzo e mi chiesi perché fossi così turbata, affascinata persino.

Quel sabato Zac mi disse che Peter voleva che andassimo a trovarlo a casa sua, a Tank Hill.

“Io? E perché?”

“Al muzungu gli piaci”. Ridacchiò secco, pungente.

“Non fare lo scemo. Io non ci vengo”.

“Eddai, che ci divertiamo. Ci sarà un sacco di roba da bere, da mangiare, e anche dei film. Porta Miriam se vuoi”.

Alla fine ci andammo, ovvio, perché Peter abita in cima a Tank Hill, uno dei sette colli di Kampala, come a Roma. Lassù, le enormi ville residenziali dei diplomatici si nascondono dietro alte mura di cemento, sulla cui cima stanno ben allineate schegge di vetro taglienti. L’affitto si paga solo in dollari. Piscine, guardiani. E lui voleva me. Non sarebbe successo niente se ci fossi andata con Zac e Miriam, la mia altissima amica tutsi, che Peter avrebbe preferito comunque, mi dissi. Era il tipo che piace ai bianchi: magrissima, mascelle e zigomi alti e pronunciati, grandi occhi a mandorla. Ed era così audace, faceva quello che voleva, con uno sguardo sfacciato e una risata prorompente. I sorrisini affettati non erano roba per lei. Addirittura fumava in pubblico. Quindi ero al sicuro.

Fu divertente, più o meno. Peter era fin troppo premuroso, serviva da bere, ravvivava i cuscini, faceva domande. Mangiammo più portate, servite dal cameriere Deogracias, un vecchio con le gambe affusolate e deformi attaccate a piedoni scalzi, grossi come barche. Nero su rosa acceso. Deo ci parlava in luganda, a Peter no, ovvio. Come se fossimo al suo livello di cameriere. In seguito dissi a Zac e Miriam che avevo trovato la confidenza di Deo vagamente offensiva, come se volesse dirci: “Ne ho già visti della vostra razza passare da questa casa”. La buttarono sul ridere: “Christine, esageri. Che male c’è a essere amichevoli?”

Peter scelse Karate Kid da farci vedere, disse che era il nostro tipo di film. Come faceva a saperlo? Mi concentrai sui gin-tonic. Era tutto un altro mondo rispetto a casa mia, all’università. La casa, dipinta con colori vivaci e con grandi finestre, odorava di antizanzare che usciva da spirali color smeraldo che facevano un fumo discreto in ogni stanza. C’erano batik che spiccavano sulle pareti bianche e pulite, mobili con vetrine splendenti piene di cose da bere e porcellane. Funzionava tutto: il telefono, i rubinetti dell’acqua calda, una pattumiera che si apriva con il piede. Senza bisogno di sfiorarla. Quando la corrente andò via, si accese automaticamente un generatore, con un ronzio sommesso e rassicurante.

Spegnemmo le luci per vedere il film e Peter in qualche modo si rannicchiò accanto a me. Fingevo di non accorgermene, mentre mi abbandonavo, compiaciuta di avere tutti i miei bisogni soddisfatti. Niente di cui doversi preoccupare. I drink mi mettevano a mio agio. Quando il film finì, le luci rimasero spente. Peter preparò una canna e a tutti venne la ridarella. Ogni cosa rallentava piacevolmente il suo ritmo. Si avvicinò e cominciò a carezzarmi le cosce da sopra i pantaloni, su e giù, su e giù, delicato, con fare distratto. Era rilassante. Rimasi seduta, immobile. Non c’era nulla che dovessi fare.

Zac salmodiava monotono sui tesori nascosti dell’Egitto, la saggezza esoterica che Aristotele aveva rubato, o era stato Platone, e poi gli Egiziani si erano scordati di tutto. Peter chiese: “Perché non se l’erano scritto?” e tutti scoppiammo in una risata. Miriam si alzò e si mise a gironzolare per la stanza, si teneva la testa e diceva: “Che sballo. Proprio uno sballo, sì”. Lo ripeteva all’infinito, ridacchiando. Peter l’accompagnò nella camera degli ospiti che era già pronta con lenzuola pulite, luci soffuse e un bagno privato pieno di specchi. Portò a Zac una coperta per il divano, poi mi condusse nella sua stanza, come se fosse la cosa più normale e pratica da fare. Mi sembrò una specie di privilegio. La camera più grande.

In bagno mi diede uno spazzolino nuovo, tirandolo fuori da un pacchetto già aperto che ne conteneva almeno venti. “Hai molti ospiti?” chiesi a voce alta. Rise e mi baciò sulla bocca. “Donne?” farfugliai, mentre mi mordicchiava le labbra. Pensavo alla confezione: plastica colorata blu su una scatola di cartone, ogni spazzolino avvolto nella plastica e disteso in una piccola bara di cartoncino. Volevo tenere la confezione, ma non osai chiederlo. Avrebbe riso di me un’altra volta.

Mi stesi sul letto vestita. Peter si tolse i vestiti e li ripose ben piegati su una sedia, puntandomi addosso, nel chinarsi, un paio di chiappette pallide. Poi mi tolse la maglietta e i pantaloni, metodico, delicato, come se fosse la cosa migliore da fare, come se io fossi malata e lui un infermiere, e rimasi lì sdraiata. Con la stessa praticità si distese e mi accarezzò per qualche minuto di rito, s’infilò un preservativo, mi aprì le gambe e mi penetrò. Non riuscivo ad abbracciarlo in alcun modo convincente. Pensavo che avrei dovuto gemere e lamentarmi e muovermi convulsamente, posseduta da una qualche rabbia selvaggia, come fanno i bianchi nei film. Ma mi sentivo ben nutrita e accudita, una bambina paga di latte caldo. Un pensiero fisso mi martellava in testa, come il titolo di un quotidiano: sto facendo sesso con un bianco. Era strano perché non era strano. Finì in pochi minuti. Mi infilò sotto il braccio come una vecchia abitudine e sprofondammo nel sonno.

Peter diventò la mia confortevole abitudine. Il venerdì sera sfuggivo al solito giro di feste del campus per andare dal mio vecchio bianco; nella mia accogliente vita privata. Nessuno mi criticava, contestava le mie ragioni o mi giudicava, su a Tank Hill, tranne Deo. Lui era un silenzioso, consapevole, fastidioso monito del mondo reale e mediocre, e del posto che vi occupavo. Ma la sera, dopo che Deo aveva sparecchiato la tavola e se n’era andato a strofinarsi con una pietra gli enormi piedi-barca scalzi, ero libera di passeggiare nuda nella grande casa ariosa, con un gin-tonic a sciogliermisi in mano. Avevo l’impressione di volteggiare, come un fazzoletto pulito e spiegato in balia del vento. Non ero obbligata a comprimermi nei vestiti, tirare la pancia in dentro, costringere il petto in un reggiseno, preoccuparmi di nulla, essere qualcosa. Che importava cosa pensava Peter? Diceva cose insensate tipo: “Sei di tanti colori diversi, come mai?”

“E il tuo collo rosso allora?”

“È che sono un redneck, bella”.

“Mi pareva”.

“Vieni un po’ qui!”. E la zuffa finiva a letto.

Forse qualcuno aveva parlato di Peter alla mia sorella maggiore, Dorothy. Era una cristiana convertita, come me un tempo. «Redenta», con un senso troppo preciso e netto di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Però non mi diceva: “Piantala di vedere quel bianco”. Invece, mi raccontò di un sogno che aveva fatto: dei bianchi mi davano delle medicine. “Vogliono soltanto usarti”, mi disse. Non risposi. Cosa potevo dirle, che in realtà andava bene così? La sua rettitudine mi faceva venire voglia di tornare dritta da Peter.

Per qualche motivo gli raccontai del sogno di Dorothy. E lui scoppiò a ridere. In quella risata, percepii “neri ignoranti e superstiziosi!”. Magari non era così, ma come per la maggior parte delle cose tra noi, non intendevo spiegarglielo, quel che si può capire o leggere nei sogni. Non dico che siano veritieri. Eppure non c’era verso di scavalcare quella risata e arrivare a una qualche comprensione. O forse non volevamo provarci.

Zac mi disse che un finesettimana erano andati al Club velico di Entebbe con un’altra ragazza, una giovane cameriera ignorante, o roba del genere. “E perché me lo dici?” lo sbeffeggiai. Pensava che non conoscessi Peter? E comunque il Club velico non mi piaceva; in pratica erano tutti bianchi per via delle quote d’iscrizione carissime e delle regole selettive degli sponsor. Diventavo parecchio nera da quelle parti. Zac si sorprese del mio apparente disinteresse per le altre ragazze. Perché sprecare i sentimenti, mi dicevo. La cosa che mi seccava di più era che Peter si confondesse con delle cameriere.

Deogracias lo chiamava Mr. Peter. Dopo circa due mesi, gli chiesi qual era il suo cognome. Lui disse: “Chiamami Mr. Peter” e ridacchiò. Amava la profusione di rispetto che, sapevo, non riceveva da nessuno nel suo paese. Mr. Smithson, lessi su una lettera. Che banale. Ogni volta che si lagnava per gli insetti che erano ovunque, per il gelato terribile e per l’unico ristorante cinese, avrei voluto dirgli che sapevo che era un poveraccio, un cockney, che gli andava di lusso qui, praticamente a rubare i nostri pesci, meglio di quanto gli sarebbe mai potuta andare in Gran Bretagna. E quindi avrebbe dovuto stare zitto. Ma non lo facevo, ovvio. Nostra Signora dei Sorrisi e del Corpo Spalancato.

Quando Peter chiamò un venerdì sera, mi era iniziato il ciclo. Sapevo di non doverci andare. A far che? Ma non riuscivo a dirglielo, non così di colpo. Come potevamo ammettere in modo tanto spavaldo che mi cercava per il sesso, e che lo sapevo, e che mi stava bene? E per di più al telefono? Era più facile non dire nulla, come al solito. Presi un taxi fino a casa sua, che lui pagò. Peter aveva già dato il via ai drink della serata con il muchomo, la carne arrostita, in veranda. C’era un tizio danese in visita, il classico operatore umanitario, che Peter aveva conosciuto da poco. Questi espatriati facevano amicizia in un batter d’occhio; bastava essere bianchi. Si ritrovavano ad Half London, un gruppetto di botteghe affacciate su una strada polverosa ai piedi di Tank Hill. Davanti a ogni negozio, a fondersi nella calura caliginosa, c’erano sedie di plastica sotto pacchiani ombrelloni rossi e bianchi che pubblicizzavano Coca Cola e sigarette Sportsman. Ye, Ssebo! Era tutto un bere birra e dar la caccia alle prostitute. Un covo di facciamo-finta-di-essere-del-posto da cui mi tenevo alla larga.

Continuavo a non dire a Peter del ciclo, ma mi sentivo in colpa, per qualche motivo. Alla fine, a letto e con le luci spente, mi cercò come sempre, ma mi scostai un po’. “Ho il ciclo”.

“Cosa?”. Non mi ero mai negata.

“Sai... il ciclo. Perdo san...”.

“Oh, capisco. Vabbè...”. Si buttò giù, un po’ contrariato. Ma si addormentò subito lo stesso. Invece di sollievo, provai un senso di vuoto, come una scatola piena d’aria.

Quel Natale, Peter partì per Nairobi. Se ne andò via tutto allegro, con indosso una camicia a fiori sgargiante, il sole riflesso dai radi capelli bianchi e dalla calvizie rosata. Il ritratto perfetto di un pensionato in partenza per una crociera. Partiva alla volta dei comfort relativi del Kenya, i cinema, gli hotel safari, magari un villaggio turistico sulle spiagge di Mombasa. Aveva spedito un numero cospicuo di pesci rari; era tempo di farsi una vacanza.

In città, quando Peter mi fece scendere dall’auto, mi baciò in bocca in mezzo a Luwum Street, davanti alla folla, prima di schizzare via. Rimasi nella strada polverosa e animata, a sentire gli sguardi della gente brucianti come il sole. Chi era quella ragazza che si faceva baciare in pieno giorno da un vecchio muzungu? Ah! Queste malaya diventano troppo sfrontate. Non poteva trovarsene uno più giovane allo Sheraton? Un uomo urlò a Peter, a nome della folla, in luganda: “Ti attaccherà l’AIDS. Guarda quant’è magra!”. Ridevano tutti. Un altro rispose: “Colpa loro, di questi bazungu, se gli piacciono smilze. Che si ammalino allora”. Risata generale.

Andai verso il parcheggio dei taxi, ignorandoli. Una come me non sprecava tempo in strada a litigare con i bayaye. Avevo di meglio da fare. Non a Natale no, ma lui sarebbe tornato. Mi avrebbe chiamato quando gli fossi servita e sarei fuggita nella grande casa bianca, nella vita al gin-tonic, la mia vacanza. Certo, anche il campus era una specie di vacanza prima della vita vera che mi aspettava: il lavoro, se lo trovavo, un impiego statale da fame, in un vecchio ufficio polveroso in stile coloniale, scarpe basse, una pannocchia arrostita a pranzo, debiti, figli, diventare come i miei genitori. Un’opzione era il matrimonio con qualcuno della famiglia giusta, della tribù giusta, panciuto e col portafoglio giusto, che pagasse i conti. Con la mia laurea potevo permettermi bestiame esotico, razza frisona o Jersey, non della volgare e cornuta varietà di Ankole. Ma non dovevo pensarci per altri due anni. Per ora, continuavo il mio gioco: essere un’altra, o nessuno, per qualche ora.

Da Nairobi Peter mi portò del bagnoschiuma perché gli avevo detto che non l’avevo mai usato. Mi preparò un bagno. L’acqua sgorgava dai due rubinetti senza sosta. Abbondanza, il lusso dello spreco. Chi non è mai andato a prendersi l’acqua, chi non sa quanto pesanti possano essere le taniche, quanto preziosa sia ogni singola goccia, non può apprezzare fino in fondo un bagno con la schiuma. Crogiolarsi in un’intera vasca piena d’acqua, tutta per te. La gradevole, calda spuma verde che ti accarezza tutto il corpo.

Peter si spogliò e mi raggiunse, il pene timidamente inarcato tra i rossastri peli pubici. Mi allargò con delicatezza le gambe e giocò con le mie labbra. Abbassai gli occhi, chiudendo fuori il mondo intero, tranne il suo tocco delicato, esperto. E affondai, affondai in quel piacere. L’acqua calda sprizzava tutto intorno, schizzando il bianco tappetino e gli specchi lustri. Peter mi salì sopra e mi penetrò con lentezza, e pensai che forse gli volevo bene, che forse l’amore era tutto lì. Un tenero, rilassato, discendere dentro di me.

Scoprii di essere incinta. Il più delle volte usavamo il preservativo. Quando non lo facevamo non dicevo nulla. I seni mi si gonfiarono e il cuore si fece sospetto, come se la pancia gli avesse trasmesso il messaggio in segreto. Quando superai i dodici giorni di ritardo, lo dissi a Miriam. Non potevo dirlo a Peter. Non sembrava essere un suo problema, non faceva parte del nostro tacito patto sessuale. Era una faccenda personale. La sorella di Miriam, Margaret, faceva l’infermiera in una clinica privata in città. Nessuno mi fermò, sapevano tutti che andava fatto. Cercai di non pensarci. Alla clinica, l’anestesista biascicò qualcosa con voce profonda e gentile mentre mi faceva un’iniezione. Dato che non perdevo subito coscienza, mi chiese con un sorrisetto malizioso se bevevo parecchio. Sarei rimasta sveglia, ma non avrei sentito nulla, disse. Come nella vita. Il dottore indossava guanti di gomma color crema, era efficiente e gentile, come Peter. Caddi in un piacevole stato di vaghezza. Perché mi sembrava di stare sempre a gambe aperte davanti a uomini gentili che mi ficcavano dentro delle cose? Li lasciai fare.

Alla clinica, lessi un articolo su tutte le specie di pesci che spariscono dai fiumi e dai laghi d’acqua dolce a causa del pesce persico del Nilo. Fu introdotto dal Dipartimento per lo Sviluppo della Pesca del governo coloniale negli anni Cinquanta. Il pesce persico del Nilo è brutto e insapore, ma è enorme, e offre molto più cibo alla popolazione. Si stava sbaffando tutti i pesci tropicali più piccoli, rari, dai colori splendidi. Molte di queste rarissime specie non erano state ancora classificate, men che meno scoperte, ed erano già scomparse. Ogni giorno, da qualche parte nel blu profondo, era troppo tardi.

Margaret mi diede degli antibiotici e una scorta di pillole per circa due anni, aggiungendo secca: “Spero di non rivederti più qui”. Ma io ero preoccupata, perché il medico mi aveva impedito di avere rapporti per un paio di settimane, come minimo. Cos’avrei detto a Peter se mi avesse chiamata? Forse dovevo raccontargli cosa era successo. Ora che avevo eliminato il problema, non lo avrei disturbato. Volevo solo dirglielo.

Mi diressi all’ufficio di Peter senza avvertirlo, e senza sapere cosa dirgli. Era a Barclay Street, dove si trovavano tutti gli uffici delle compagnie aeree e mercantili, comodo per i suoi affari. Era sorprendente quanto Peter fosse diverso sul posto di lavoro: un suo gemello, serio, perfettamente sobrio, una visione assai rara per me. Forte di un’autorevolezza che gli veniva da chissà dove diventava un capo, non più un amante ubriaco. Una volta, di notte, mi aveva confidato quanto lo preoccupasse il fatto che tutti gli operai dipendessero da lui... e se falliva? Questa conversazione, quest’ansia, mi avevano messo a disagio. Non era quella l’immagine che mi ero fatta di lui.

La prima volta che Peter mi aveva portato nel suo ufficio, mentre andavo all’Università, era venuto a trovarlo un uomo d’affari indiano. Gli asiatici ritornavano, quindici anni dopo che Amin gli aveva concesso settantadue ore di tempo per preparare armi e bagagli e lasciare il paese. Cercavano, titubanti, di reintegrarsi, cosa che non allettava granché gli imprenditori ugandesi.

Peter condusse quell’uomo basso, trafelato, con un turbante nero nel suo ufficio, dov’ero seduta. L’indiano mi gettò un’occhiata, spostò lo sguardo su Peter e trasse le debite conclusioni. Mi liquidò con un secco: “Tutto bene?” per tornare subito agli affari. Jagjit era venuto per vendere a Peter dei dollari, cosa illegale al di fuori della Banca d’Uganda, anche se lo facevano tutti comunque, tramite il magendo. Tirò fuori una busta rigonfia ed estrasse delle vecchie banconote verdi, stropicciate. Peter le passò in rassegna una per una; le sfregava tra i palmi, le osservava controluce, le rigirava e riesaminava finché non era soddisfatto. Ce ne fu una che mise da parte, poi ci tornò sopra dopo avere controllato tutte le altre. Disse: “Spiacente Jagjit, ma questa non va bene”. Era una banconota da cento dollari. Ossia un milione di scellini.

“No, no, è impossibile. Me li ha dati Sunjab Patel, lo conosci, della Zona industriale” replicò svelto, impaziente.

“Sarà, ma ti ripeto che non vale niente. Guarda qui...” e la confrontarono con un’altra, spostando il collo da un pezzo all’altro. Alla fine, Peter prese la banconota falsa e, con il suo solito ghigno, la strappò con calma in due, lo sguardo puntato sul viso di Jagjit. Lui era troppo scioccato per protestare, i grandi occhi castani fissi sulle due metà, tra le mani alzate di Peter. Poi Peter spostò i pezzi di carta sopra il cestino dei rifiuti e li lasciò planare piano piano. Rimanemmo tutti a guardare. “Devi stare attento. Tutti possono imbrogliarti da queste parti”, chiosò con un’alzata di spalle.

Si girò verso la cassaforte, sistemata in un angolo, e tirò fuori una sacca di tela, che svuotò sul tavolo. Jagjit contò i mazzetti di banconote logore. Era irrequieto; se fosse imbarazzo o fastidio non saprei dirlo. Uscì di corsa, dopo avere lanciato un’ultima occhiata alla banconota strappata, come se volesse agguantarla dalla spazzatura. Pover’uomo pensai, del resto, se lo meritava per avermi squadrato e deciso che non contavo niente.

Peter scosse la testa con lentezza. “Che bastardo”.

“Secondo me non lo sapeva”.

Peter si spostò e prese i due pezzi di carta dal cestino, ne scosse via la polvere e li dispose sul tavolo.

“Peter!”

Sorrise tra sé, e alzò lo sguardo. “E se li dessi a te?”

“Cosa? Che me ne faccio io?”

“La mia piccola Christine cristiana” e se la rise un altro po’.

Questa volta, Peter era occupato con un gruppo di uomini, impegnato a caricare un pickup in strada. Di nuovo, il suo modo di comportarsi sul lavoro mi sbigottì: inflessibile e sicuro, impartiva gli ordini a voce alta facendo grandi passi avanti e indietro. Poi mi vide.

“Che ci fai qui?”, brusco e impaziente.

“Passavo da queste parti”, mi sentii orrendamente d’impiccio.

“Ho da fare”.

“Ma... io...devo dirti una cosa...”.

“E va bene. Aspetta”.

Mi fece entrare nel suo ufficio. Dopo un po’ mi raggiunse. Ma, per qualche motivo, non riuscivo a dirlo, allora gli chiesi un pezzo di carta e una penna, cosa che lo esasperò ancora di più. E scrissi: “Ho appena abortito”.

Peter prese il foglio, con un sorriso impaziente, pensando si trattasse di un gioco infantile. Per un attimo il suo abituale sorriso si paralizzò. Un cenno di una specie di rabbia guizzò sul viso da adolescente. Non mi guardò. Mi tolse la penna dalle mani, scrisse qualcosa e fece scivolare il biglietto sul tavolo. C’era scritto: “Vuoi dei soldi?”

Lessi, lo guardai veloce, di sottecchi, poi distolsi lo sguardo, imbarazzata. E tornai a quelle tre semplici parole. Feci cenno di no con la testa e guardai in basso. No, non si trattava di soldi. Non avevo niente da dire e lui non aggiunse altro. Dopo un freddo silenzio, lo stesso silenzio in cui facevamo l’amore, distanti l’uno dall’altra, mi alzai per andarmene.

“Ti chiamo, va bene?”. Gentile come sempre.

“Va bene”. Compiacente come sempre. Sì, va bene, sì.

Gli operai mi fecero largo, con l’enfatico rispetto che riservano ai bianchi, ma con il fare sarcastico con cui si rivolgono alle nere. Li ignorai, come sempre, ma mi sentii rimpicciolire quando Peter mi mollò un bacio distratto sulle labbra, davanti a loro, prima che me ne andassi.

La strada era dura e bruciava. Piena di gente che camminava risoluta incontro alla vita, avanti e indietro, con una tale padronanza. Sembravano scansarmi però. Ero strana? C’era del sangue sui miei vestiti? L’aria rovente e impolverata sollevata dal traffico intenso e frastornante mi riempì la testa come un tuono.

Volevo dei soldi? Cosa volevo? Bagnoschiuma, gin-tonic, sesso alla marijuana, la casa bianca, linda e spaziosa dove dimenticare la polvere infuocata che c’era fuori, la scuola, una vita fin troppo banale, un futuro squallido? Qualche ora di libertà da me stessa. Era tanto terribile? Avevo forse desiderato che gli importasse, proprio a lui? Cercava di essere gentile, immagino. Sono certa che a tutti gli africani che conosceva servivano soldi. Sei mesi di sesso, e io dovevo volere dei soldi? Cosa volevamo l’uno dall’altra? Non un figlio, ovvio. Niente di così definitivo. Nostro figlio. Che farsa. Avevo scaricato mio figlio come il mio corpo, in un buco di latrina brulicante di scarafaggi.

Mi feci un varco a stento tra la bolgia di taxi ed entrai in un minibus, schiacciata dappertutto da fianchi floridi, braccia calde e respiri umidi, stranamente confortanti. Il vecchio motore ruggì all’accensione, interrompendo il lamento di un pezzo soukous sparato dalla radio. L’autista avviò il motore più volte per sollecitare i passeggeri a sbrigarsi e salire, come se stessimo per partire, mentre invece restammo fermi per un altro quarto d’ora. Il bigliettaio richiamò a gran voce più gente e ci ordinò di spostarci verso il fondo, di ammassarci. Volevamo tutti andare a casa, no? I venditori ambulanti ci schiacciavano in faccia borse di plastica dai finestrini, i loro sputi ci arrivavano fin sulle guance. La voce di uno di loro perforò il rumore, pregando con insistenza, proprio me, di comprare delle gomme Orbit da portare a casa ai miei bambini. “Zietta, ricordati dei bambini! Devi essere buona con i bambini!”

Alla fine partimmo, ondeggiando e sobbalzando, su e giù a ogni buca, a ogni sterzata per schivare le macchine che arrivavano in senso contrario, dritte verso di noi come la vita. Chiusi gli occhi, desiderando che il rumore e il calore e il sudore si perdessero nel fondo della mia mente. Il sole abbagliante picchiava su tutti noi.

(traduzione di Nausikaa Angelotti)

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Anno 7, Numero 31
March 2011

 

 

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