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Cari lettori,
la nostra rivista ha una vocazione letteraria, ma non può disinteressarsi delle disgrazie che colpiscono regolarmente varie parti del mondo. Attualmente è in corso la legittima “Primavera araba”, esplosa senza preavviso in diversi paesi del nord Africa e del Medio Oriente (dal Marocco allo Yemen alla Sira), dopo che Mohamed Bouazizi, tunisino di 26 anni, si era immolato col fuoco il 17 dicembre 2010. Mohamed Bouazizi era diplomato ma, paradossalmente, era disoccupato come la maggioranza dei suoi coetanei che vivono persino in ricchissimi paesi del mondo arabo. Faceva il venditore ambulante di frutta e verdura per mantenere sé e la propria famiglia ma le forze dell’ordine del suo paese sequestravano ripetutamente la sua merce. Questo giovane tunisino non poteva e sicuramente prevedere l’esito storico del suo estremo gesto di protesta contro i prepotenti del suo paese. I giovani di Tunisia e d’Egitto sono scesi per strada, mettendo a rischio la propria vita, trascinando il resto della popolazione. Hanno sfidato e sono riusciti a mettere fine e a cacciare via dai rispettivi paesi, despoti dallo spessore di Ben Ali, Hosni Moubarak, le loro famiglie e potenti cortigiani composti da marioli, prepotenti, assassini. Prima del gesto di Bouazizi, Ben Ali e Hosni Mubarak, che hanno regnato e soggiogato per decenni i loro cittadini, erano considerati dei moderati, cioè degli stimati democratici, da tutti i paesi occidentali. I loro regimi erano fortemente sostenuti da Usa, Inghilterra, Francia, Germania, Italia, Paesi Nordici e persino dai governi di sinistra e di destra d’Israele. Oggi questi paesi, eccetto lo stato di Israele forse per delicati ragioni geopolitiche, da un lato plaudono spudoratamente il coraggio e il sacrificio delle giovani popolazioni arabe che si sono liberate da sole dai loro dittatori e dall’altro si stanno riqualificando in missionari umanitari (bombardando la Libia dall’alto dei cieli) dopo la ribellione popolare scoppiata contro il più violento dittatore del mondo arabo: il colonnello Muammar Gheddafi, venerato amico dell’attuale governo italiano!
Non dimentichiamo neppure la tragedia che stanno vivendo le popolazioni giapponesi, dopo un recente e terribile terremoto seguito da uno tsunami. La tragedia giapponese ci richiama alle nostre responsabilità di esseri umani impotenti di fronte agli imprevedibili cataclismi naturali e ci ricorda quanto le centrali nucleari sono e rimarranno pericolose per i giapponesi e per tutte le popolazioni del resto del mondo.
I testi che seguono illustrano il contributo dello studioso Francesco Cosenza, che, ancora una volta, con le sue rigorose riflessioni –anche attraverso le poesie di visionari: il brasiliano Murilo Mendes, Erri de Luca, Pier Paolo Pasolini-, ci riporta con i piedi per terra e con la mente lucida nelle nostre realtà quotidiane.
Quale filo lega il cataclisma nucleare giapponese alla catastrofe politico-umanitaria che investe il nord Africa? Sorprendentemente vogliamo rispondere: la poesia.
Tra i tanti scrittori della diaspora planetaria troviamo Murilo Mendes (1901-1977) brasiliano trapiantato in Italia (a Roma a insegnare letteratura brasiliana alla facoltà di lettere) che ha composto nel 1968 le Ipotesi poetiche stampate da Guanda nel 1997 (riedite nel 2004 da Zone Editrice). El ghibli ha pubblicato nella rubrica delle recensioni (n. 5, settembre 2004) l’introduzione di Luciana Stegagno Picchio, curatrice del volume. Tra le poesie ne troviamo una che sembra scritta oggi per Fukushima o ieri per Cernobyl e invece è rispettivamente di 40 e 20 anni precedente ai due disastri. Eccola la catastrofe secondo Murilo Mendes:
La catastrofe
La catastrofe sa travestirsi in figure ammirevoli
La catastrofe può essere
paziente / persuasiva
scaltra / sinuosa
La catastrofe ha artigli di velluto ali d’alcedine
una pettinatura ispirata alla regina Nefertiti
talvolta si presenta in calzamaglia
conosce bene le regole del galateo bellico
sa usare dispositivi sottili o violenti.
La catastrofe coltiva ottime relazioni con Wall Street
con molti personaggi del set internazionale
soggiorna qualche volta in un maniero
dove i lupi si nutrono di neve
e note attrici
fanno lo spogliarello per fantasmi scelti.
La catastrofe è anche còlta
discorre di Heidegger / Husserl / Foucault
aderisce al gruppo strutturalista
ma quel che più le piace
è la fisica nucleare.
La catastrofe si insinua nelle nostre arterie
ma prima – dama educatissima -
bussa alla porta
perché si abbia il tempo di forgiare l’arma
che lei da molto aspetta.
La catastrofe infine
è quasi reversibile.
(Ipotesi, Guanda 1997, p. 11-12)
Forse se avesse dato ascolto alle parole poetico-profetiche di Mendes l’uomo avrebbe costruito qualche centrale in meno e sviluppato maggiormente le fonti alternative. La terra ci suggerisce ripetutamente segnali forti per politiche più rispettose della natura e dell’equilibrio complessivo del pianeta. Ma cosa ha voluto dirci il poeta brasiliano e un poco italiano con l’ultimo distico? Forse comunicarci uno spiraglio di speranza? o non ha avuto l’ardire di concludere la poesia con due versi molto più forti come:
La catastrofe infine
è quasi irreversibile
Troppo forte, troppo ineluttabilmente pessimista, sarebbe questo finale ma sicuramente più vicino a ciò che sta avvenendo sotto i nostri occhi attoniti.
La prima catastrofe è dovuta non solo alla realtà intrinseca della terra - ancora giovane e calda puledra, che scalcia e si imbizzarrisce coi suoi moti tellurici e le sue onde terrifiche – ma anche alla dissennata corsa all’insediamento urbano anche là dove sarebbe sommamente sconsigliato dalle condizioni geologiche. E invece vi si costruisce anche delle centrali nucleari!
La seconda catastrofe è tutta e solamente imputabile alla specie umana, anzi alle classi dirigenti dei vari paesi in corsa per il profitto ad ogni costo, lasciando nella miseria le classi subalterne. Il divario, la forbice, tra i ricchi e i poveri continua ad allargarsi a tal punto che le rivolte sono innanzitutto per il pane e solo in seguito per la libertà e per l’abbattimento dei tiranni.
In un’altra poesia Mendes se la prende con Il mare nemico riuscendo nella grandiosa impresa di unire negli stessi versi il dramma giapponese e quello mediterraneo:
Il mare nemico
Il mare (dal cattivo alito)
possiede uno stock inesauribile di radar/televisori.
Il mare pubblica centomila edizioni di arie del suo rotocalco
mentre montagne di onde brontolano si disfano
dinanzi agli spettatori
ignari di Moby Dick.
Andare al mare fa malissimo al fegato
anche perché esso eccita i nervi stanchi
il mare a volte sembra calmo verde blu viola
invece pianifica
imboscate ai pescatori / marinai / turisti
ai gabbiani portando la veste nuziale
anche ai pesci più piccoli di francobolli.
Attualmente si fabbricano in Giappone
petroliere di 500.000 tonnellate.
Spero che il mare le distrugga senza pietà:
paralizzate tutte le automobili
ormai torneremo a camminare in pace.
Le Nazioni Disunite
ordineranno un anti-monumento di schiuma e merda
al mare nostro benefattore
che pur risparmia sempre
il Pentagono e tutti gli eserciti-robot.
(Ipotesi, Guanda 1997, p. 110)
La catastrofe dei popoli della sponda settentrionale dell’Africa si riversa nelle sponde meridionali della opulenta Europa con le sue giovani genti alla ricerca di una vita migliore. Troppo spesso si traduce in annegati da aggiungere alle già migliaia di morti che nel fondo del mare giacciono a causa delle tragiche traversate e per le sciagurate politiche di disumano respingimento dell’Europa.
Questo mare da Omero in poi ha ispirato innumerevoli autori. Giornalisti, saggisti, narratori e poeti l’hanno descritto, radiografato, scandagliato, navigato, attraversato, storicizzato, inneggiato.
Ma i poeti l’hanno anche reinventato, cantato, maledetto … Ricordiamo per tutti Solo andata di Erri de Luca (Feltrinelli 2005) - recensito da Raffaele Taddeo su el ghibli - e Un canto clandestino saliva dall’abisso (Sellerio 2006) di Mimmo Sammartino. Anche quest’opera è un canto tragico (così Taddeo ha definito l’opera di Erri de Luca) e qui ne riproponiamo uno dei più intensi: Dodici su cento presente in exergo nella bibliografia Letteratura nascente e dintorni (Milano, Biblioteca Dergano-Bovisa 2011, p. 3-4).
Dodici su cento
Dodici su cento
Sono dodici su cento
i sogni migranti dei popoli erranti.
Dodici su cento
le rotte viandanti condannate al naufragio.
Dodici su cento
il prezzo dei sogni senza permesso di ingresso.
Di ogni presagio.
Dodici su cento
sono le stelle che la notte ha smarrito
fra i recinti dello stagno infinito
del firmamento.
Dodici su cento
i respiri che non trovano più fiato
e si confondono nel vento
e si concedono al fato.
Dodici su cento
sono i miraggi dei remoti deserti
per deliri di solitudini senza ombra di oasi
dove si contano i morti.
Dodici su cento
le parole rimaste senza voce
pronunciate sul legno di una nave
inchiodate al sangue di una croce.
Dodici su cento
i colori delle perdute speranze
gli occhi d'oliva e di terra di altre lontananze.
Sguardi ai quali non fu concesso riscatto
col mondo sazio che passava distratto
recitando pure il mea culpa
mantenendo comunque le dovute distanze.
Dodici barche su cento
sono quelle che non conobbero approdi.
Ma gli uomini civili trovarono i modi
di mettere a posto le proprie coscienze
non ancora provate abbastanza.
Dodici su cento
le nenie più meste
dei figli multicolori
di quella Babele Abbandonata
alla mercé delle tempeste
a un riposo senza quiete e senza fiori
alla furia dell'acqua, al ruggito del vento.
Dodici su cento
è la cifra dello scandalo
ma il dio dei mari che le vide annegare
non ebbe il tempo di soccorrere quelle dita
con la mano del suo angelo.
Anche pietà era fuggita
mentre si dibattevano le braccia
contro l'oscura minaccia
e nessuno seppe ritrovarla in tempo
- quella pietà -
dodici volte su cento
navigando controvento.
Sono dodici su cento
i naufragi dei migranti
dei popoli dispersi per destini nomadi di martiri
e santi.
Dodici su cento
quelli che mai videro la terra promessa.
Che consegnarono il sangue e la giovinezza stessa
in braccio alla corrente.
E ancora echeggiano i loro lamenti.
Senza rumore
da quando ha smesso di tremare il cuore.
Infine tutto tacque.
Anche il dolore fra le acque.
Adesso cantano con gli occhi fissi
dodici su cento
dal nero più profondo degli abissi.
Un canto clandestino saliva dall'abisso di Mimmo Sammartino (Sellerio 2006, p.16-19)
Per finire questa scorreria di denuncia dell’umana avventura sul pianeta terra proponiamo un canto del veggente Pasolini. Questa poesia è stata distribuita ai partecipanti del convegno sui Venti anni della letteratura della migrazione in Italia presso la biblioteca Dergano-Bovisa il 12 febbraio 2011. Non si è riusciti a mantenere la forma visiva della pagina originaria: una croce per ogni pagina.
La modernità di questa poesia è sconvolgente e la realtà descritta poteva essere antiveduta solo da un poeta visionario come Pier Paolo Pasolini. C’è tutta la migliore umanità del novecento in questi versi che, già nella loro disposizione grafica – tante croci che si ripetono ad ogni pagina - richiamano il dolore dell’uomo torturato sulla croce - e qui non si fa riferimento al povero Cristo ma alle migliaia di vittime di ogni regime tirannico e violento - e di ogni uomo che subisca qualsivoglia sopruso, fisico o morale che sia. Buona lettura.
In questo numero ospitiamo per la sezione "racconti e poesie": ana candida de carvalho carneiro, alexandra zambà, kossi komla ebri, candelaria romero; per la sezione "stanza degli ospiti: chiara barison, martina chiari, laura fusco, clementicna coppini; per la sezione "parole dal mondo": doreen baingana, leo lobos, makhosazana (khosi) xaba, sylvie kandé; per la sezione interventi: kossi komla ebri, christiana de caldas brito, lorenzo luatti, asli haddas, raffaele taddeo, silvia riva, francesco cosenza, michele peretti. Si ringraziano tutti quanti per la loro collaborazione.
pap khouma