Nota biografica | Versione lettura |
Vent’anni e sembra ieri. Forse è solo un modo di dire per non sentirsi invecchiati. Forse è un modo di dire, neppure banale, che testimonia la rapidità dei cambiamenti: salto di secolo, salto di millennio, dagli Ottanta craxiani, dal crollo del muro di Berlino e dalla nostra tangentopoli, che sconquassa il sistema politico, all’avvio del ventennio berlusconiano (prima culturale che politico), persino alla presidenza Obama. In questi vent’anni abbiamo assistito ad una infinità di altre trasformazioni, in Italia e altrove, abbiamo fatto esperienza di tante novità. Cito, per esempio, le nuove tecnologie (anche per comunicare), il tramonto della grande industria (pensiamo a Milano, a Torino…), l’immigrazione, che era all’inizio, qui da noi, qualche cosa di marginale, di piccoli numeri, qualcosa che è cresciuto anche attraverso tragedie che hanno colpito l’immaginazione nostra (vedi le navi degli albanesi e a proposito di “immaginazione” penso al film di Amelio, Lamerica, dove si racconta l’Albania in senso inverso), qualcosa che ha conquistato senso di stabilità. Senso di stabilità che ti fa dire: è così e non si torna indietro.
Vent’anni fa mi è capitato di scrivere attraverso il racconto di Pap Khouma il primo o uno dei primi libri sull’immigrazione, “Io, venditore di elefanti” (il titolo era stato dettato da Livio Garzanti, l’editore). Il libro nacque per curiosità, giornalistica, ma anche per dar concretezza a un bisogno di solidarietà. E’ un primato che mi ha reso orgoglioso, anche se poi non mi va di stabilire classifiche: allora, ricordo, vennero pubblicati più o meno negli stessi tempi i libri dei carissimi Micheletti e Saidou Moussa Ba (“La promessa di Hamadi”), di Mario Fortunato e di Salah Methnani (“Immigrato”), di Mohamed Bouchane, con Carla De Girolamo e Daniele Miccione (“Chiamatemi Ali”). Ne seguirono ovviamente altri. Libri di immigrati e di italiani insieme: dar la parola a chi non l’ha (citazione da Walter Benjamin, che immaginava questo fosse il compito dello scrittore). Erano testimonianze di vita vissuta, ma nella maggior parte dei casi si pendeva già verso il romanzo, non so se per inclinazione degli autori italiani soltanto (ci sarebbe da riflettere su questa vocazione al romanzo piuttosto che al reportage o all’inchiesta, come se non si potessero scrivere splendide no-fiction novel, alla Truman Capote, come se per accedere ai premi e ai piani alti della letteratura si dovessero per forza scrivere romanzi). “Io, venditore di elefanti” si presentava con una prosa semplice semplice, cercando un ritmo possibilmente vivace (dicevo sempre che mi sentivo, mentre scrivevo, le canzoni delle rockstar africane). Era anche un’affermazione d’orgoglio con quell’incipit sonoro: “Vengo dal Senegal. Ho fatto il venditore di elefanti e vi racconto che cosa mi è successo. E’ un mestiere difficile…”(citazione della quarta o quinta riga di un romanzo sperimentale di un certo americano, Rick Bass, “Diario di un cercatore di petrolio”, riga che diceva: “Io so come si fa a trovare il petrolio…”). Il libro venne molto apprezzato dai critici. Goffredo Fofi mi disse che gli sembrava un racconto d’avventura per bambini. Credo che un complimento più bello non potesse farcelo. In fondo anche l’”Isola del tesoro” viene considerato alla stregua di un libro d’avventura per bambini. “Io, venditore di elefanti” venne letto (e forse viene ancora letto) moltissimo nelle scuole. Credo, rileggendolo ora, che contenesse per quei tempi elementi di conoscenza non banali. Ricordo una lunga e curiosa recensione su Tuttolibri, in cui Renzo Ciafaloni chiamava ripetutamente “Io, venditore di elefanti” a conferma dei risultati delle sue accuratissime e lunghe indagini sociologiche (condotte a Torino).
Ad ogni incontro pubblico era inevitabile che qualcuno si alzasse e chiedesse una previsione sul futuro di quegli “scrittori immigrati” che si erano accompagnati a noi “scrittori italiani”. Rispondevo che sarebbe successo in Italia quello che era già accaduto in Inghilterra o in Francia e citando naturalmente Hanif Kureishi e il suo “My Beautiful Laundrette” oppure Ben Jelloun (ma per il sociologico “Le pareti della solitudine” più che il suo romanzo famoso, “Creatura d’argilla”, che mi parve geniale ma pure un po’ noioso) e ricordavo che i numeri e la storia ci condannavano all’attesa: piccola cosa ancora la presenza degli immigrati in Italia e di ben altro peso la vicenda coloniale di Inghilterra o Francia o della stessa Germania. Ora i numeri si sono un po’ riequilibrati anche se resta intatta l’altra questione, che riguarda nel bene o nel male una lunga, secolare, trafila di ingerenze e commistioni tra una cultura e l’altra, quella d’origine, quella dei conquistatori, e quella d’arrivo. Ma già allora i segni erano inequivocabili. La società italiana era ormai cambiata: di immigrati ne sarebbero arrivati ancora tanti,comunque il flusso non si sarebbe fermato, tanto forte era il richiamo dell’Occidente ricco (ancora ricco), molti sarebbero diventati italiani anche sulla carta d’identità e soprattutto “nascono bambini” (come si concludeva “Io, venditore di elefanti”: in due parole era la sintesi di tutto). Molti intrapresero la strada indicata da Pap, Methnani, Saidou. La società italiana era cambiata e la cultura, scienza o letteratura, ne fu per forza influenzata: l’immigrazione ha dato il là ad una fluviale produzione saggistica (italiana), ma s’è riflessa anche nella produzione dei romanzieri italiani, non solo evocando esperienze d’altri paesi (penso ad Antonaros), ma anche scontrandosi con una presenza nuova: cito solo due romanzi proprio di quegli anni, “Una ignota compagnia” di Giulio Angioni (è l’incontro di due immigrati a Milano, uno italiano, l’altro dall’Africa) e poi, un po’ a sorpresa, “La tempesta” di Emilio Tadini (uno degli “abitanti” del magazzino di stracci alla periferia di Milano è un senegalese, alto, fiero e silenzioso).
Vent’anni fa? Mi verrebbe da dire che era davvero un altro mondo, più sveglio, intelligente, più dinamico (per fortuna che adesso ci svegliano gli studenti). Soprattutto tutti nutrivamo molte speranze.
E adesso? Mi verrebbe da dire che il grigio dell’omologazione si stende democraticamente ovunque, senza reclamare permessi di soggiorno. Per questo ho la sensazione che se i temi restano là, sempre forti, la voce di una letteratura della migrazione rischia di affievolirsi, dentro una letteratura, quella prodotta nel nostro paese, consolatoria, mistificante, recitata secondo la lingua dei media, flebile anche nei suoi prodotti migliori. Troppo spesso riesce a scrivere chi, di prima o seconda generazione, una pace e il companatico li ha raggiunti. Il vero romanzo della migrazione ce l’hanno consegnato quelli della gru di Brescia. Ciò che dice il Censis a proposito di un paese “spento” vale per tutti, spento anche perché il conflitto ideale è assente, non solo per il declino economico. Prima di interrogarci sulla letteratura, dovremmo forse chiederci quale politica e quale cultura produca il nostro paese, se esista ancora una cultura critica o se la cultura critica novecentesca non sia stata rimpiazzata da un rimbalzo di sussurri e grida da uno schieramento all’altro.
Torniamo a vent’anni fa. L’editoria ha fatto il suo mestiere, quella piccola ha fatto il proprio mestiere anticipando, sperimentando, suggerendo. Venti (o trenta) anni fa ci erano totalmente ignote letterature, anche vicine a noi geograficamente: penso alla scoperta, proprio per merito di piccole case editrici, di autori dell’est europeo, autori di tutte le età (un esempio soltanto: Hrabal o Christa Wolf ad opera di Theoria), prima della caduta del muro, di autori cinesi (Acheng), di autori indiani, africani, persino scandinavi (e con loro si torna in Occidente). Un’impresa straordinaria, che i grandi editori hanno continuato, a successo confermato e garantito. La mia sensazione è insomma, senza dare i voti, di un lavoro condotto con onestà, in equilibrio tra il fascino della cultura e il richiamo pesante del mercato, anche se le critiche che si potrebbero immaginare sono tante (ad esempio, a proposito della disattenzione dell’editoria italiana, verso certa elaborazione culturale importante, ma minoritaria, marginale rispetto agli stereotipi del pensiero dominante e quindi delle mode). Ancora mi sembra indispensabile una piccola editoria, che per necessità e virtù scopre e sperimenta.
Le donne hanno scritto forse di più e meglio degli uomini. Non voglio inoltrarmi in distinzioni di genere. So solo che le donne straniere sono arrivate in Italia numerose, molto spesso sole, anticipando il viaggio e il ricongiungimento dei maschi, senza conoscere una parola di italiano, con ammirevole coraggio. Una delle badanti di mia madre, l’ultima, ucraina, ha tenuto il diario della sua vita italiana: quelle pagine, a saperle leggere, sicuramente rivelerebbero un tesoro. Se c’è una prevalenza femminile, questa rispecchia il diagramma dell’immigrazione. Poi c’è la seconda generazione e in questo caso non so francamente che cosa si possa dire: forse soltanto che sia ancora presto per trarre delle conclusioni.
A proposito di linguaggio e di influenze, si dovrebbe rimandare a una ricerca accurata, comparativa. Mi sono sempre augurato che nuovi scrittori rompessero gli schemi della letteratura italiana. Ho la sensazione che i nuovi scrittori abbiano soprattutto cercato di “imparare”, imponendosi modelli “italiani” e mimetizzandosi, forse ritenendo di poter essere così letterariamente meglio accolti. Questa non è una bocciatura, è riconoscere le difficoltà si incontrano a stare dalla parte di una minoranza.
Vorrei concludere semplicemente ricordando che esistono bravi o cattivi poeti, bravi o cattivi romanzieri, senza certificato di nascita e che i bravi poeti e romanzieri sanno rappresentare una condizione universale, sanno parlare a tutti.