El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

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migranze

gregorio carbonero

Poter parlare del passato come fu e non come non è più
Paul Ricoeur

La migranza parte da un “progetto” individuale, necessario, trascendente; concepisce la possibilità di superare un limite, qualunque esso sia: cultura, circostanze individuali, circostanze sociali gravi ecc. Concepisce la possibilità di un’altra vita, o di iniziare un’alta vita, ed è nelle situazioni più disperate che il progetto acquisisce un valore più alto, essenziale e significativo.
Emigrare è un diritto, è inevitabile e naturale, pensare i movimenti migranti come motivati solo da cause estreme, povertà o guerre, rischia di essere riduttivo e fuorviante nei migliori dei casi, ipocrita e buonista nei peggiori.
Ed è fare un passo irreversibile; salvo eccezioni, non si torna indietro, e nel caso si decida di tornare indietro non è un tornare ma una sorta di emigrazione all’inversa, affrontare un distacco non meno difficile dell’anteriore, affrontare un senso di sradicamento, di interruzione, di estraneità e di inappartenenza non meno faticoso e rischioso dell’altro.
Radicarsi però è necessario per elaborare un’idea di futuro e in essa ripensare o far defluire il proprio passato, il senso del proprio passato o forse il ricordo di “un nuovo passato” un passato accogliente, permeabile, suscettibile di essere ricordato in un altro idioma, in una nuova altra vita e cultura.
L’idea stessa del dover riappropriarsi del proprio passato nasconde un’insidia: l’incertezza della decisione presa, la fragilità etica dell’idea della partenza, dell’espatrio, del venir meno dei patti raggiunti con la vita di prima, con le proprie radici, il senso di colpa a causa del “tradimento” e dell’abbandono di ciò che fino al quel momento costituiva le proprie convinzioni e speranze. L’apparire di un senso di vulnerabilità, di permeabilità s’inizia a percepire quando l’impulso iniziale del distacco si affievolisce e il progetto iniziale viene disarticolato e inizia il costruirsi normale della nuova vita nella nuova società.
La scrittura in certi casi è un setaccio di questo transito, di queste trasformazioni, porta a problematizzare il senso di inadeguatezza, di incompiutezza dell’esperienza, le lacune di significato nel costruire un nuovo presente. Fa salire alla consapevolezza le fratture causate dalla violenza della trasformazione, gli attriti, le zone opache, i silenzi in tumulto o meglio il rischio del solipsismo per sovrabbondanza. E’ una sorta di mettere le cose per iscritto, rileggere, ravvedersi o correggere gli eccessi che deviano, svelare i controsensi a causa dell’eccesso di senso, le inibizioni a causa del pudore del racconto intimo, confessionale, le false scorciatoie e gli inganni dove la verità rischia di essere elusa o raggirata. Spinge verso altre verità fin quel momento inavvertite, che non sono altro che una rilettura delle anteriori. Offre e coglie la mutevolezza dell’esperienza e indica il bisogno delle “riletture” e delle “traduzioni”.
La scrittura, o l’opera però, per forza deve “desiderare” radicarsi, essere apprezzata o contrastata, capita. Attecchire in quell’altro idioma che diviene il proprio, in un’altra cultura che inizia a permeare la propria e a attraversarla, non senza conflitti, contraddizioni, sofferenze. Ovviamente si parla di letteratura migrante, non di opere migranti.
La migranza in certo senso sembra alludere a un fatto privato, vissuto nell’intimità e nelle evenienze sociali di chi emigra. Nell’intimità della propria vita quotidiana la migranza è qualcosa come una corrente interna che scorre distaccata tra le altre, è la parte più fragile e privata di se stesso ed è allo stesso tempo un’intrinseca realtà che pervade ogni cosa: decisioni, attese, speranze, tentativi, convincimenti, frustrazioni e successi sono visti e soppesati da un punto d’osservazione che è mediato da un senso di alterità. Un luogo d’osservazione che è po’ più in là, più lontano o a fianco o leggermente spostato, che fa confronti e paragoni, che è colmo di speranze e attese o forse pronto a deludersi, che arriva in anticipo in virtù della particolarità della sua visione distante o in ritardo perché non afferra il senso dei taciti accordi degli “altri”.
Suscita anche una certa diffidenza la parola migranza, sembra camuffare, ovviare che un migrante è allo stesso tempo un emigrato e un immigrato, e che si possono usare altre parole: esule, espatriato, nomade o straniero, o figlio di stranieri (con tutte le implicazioni negative che il termine straniero si trascina dietro di se), sembra voler cercare un alibi, un posto accanto, uno spazio alternativo, ibrido e che rimarrà indeterminato o in attesa, attesa che può sembrare feconda, piena di prerogative, propizia al lavoro intellettivo o a liberare doti creative ma che in realtà è difficile, sofferta, ha un senso di urgenza, d’immediatezza ed è essenzialmente ingiusta.
L’uso divenuto frequente e indifferenziato nei media, della parola “migrante” da una parte con riferimento a persone la cui condizione sociale non può essere definita in un altro modo che di estrema fragilità, come i nomadi o quelle che sbarcano sulle coste europee e dall’altra a eventi che affermano la presenza e i valori morali e estetici dei “nuovi cittadini” di condizione meno fragile, come la “ letteratura migrante”, cela un problema di cattiva digestione (e coscienza), occulta, forse, una resistenza, un’”inerzialità” che guarda verso un momento anteriore, appena ieri o l’altro ieri in cui “il resto del mondo” “le periferie” non erano tanto vicine e incombenti nella vita dell’occidente, colonialista e terra di emigranti in passato, e ora edonista, consumista, e impaurito e maldestro nel gestire la realtà palese e irreversibile dell’immigrazione. Una resistenza che di fronte all’incertezza del futuro volta lo sguardo indietro, quando, appena un momento fa, l’occidente non si accorgeva ancora della possibilità di perdere la prerogativa di centro privilegiato di cultura, civiltà e benessere, e oggetto del desiderio degli altri: il “resto del mondo”, ” il terzo o quarto mondo”, i paesi “in via di sviluppo” e altri modi di denominare in modo astratto e riduttivo le singolarità e la storia di altre culture. E mostra il timore e l’incapacità di capire l’irreversibilità dei cambiamenti, l’essenziale senso di estraneità del presente, e crede così di trovare spazio a un’”ingenua” speranza, fraudolenta, che sia possibile tornare indietro.
Nel nostro presente si parla del senso di solitudine, smarrimento, solipsismo, di identità vulnerabile, permeabile, provvisoria, lo straniero, il migrante è immaginato in modo contorto, un modello, uno stereotipo che, pero, rende evidente l’angoscia che tali idee e prospettive destano, e che in ogni modo sono un prodotto dell’occidente stesso.

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Anno 7, Numero 30
December 2010

 

 

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