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sogno meduse

félix bruzzone

Mia nonna Rita diceva che quando l'avevano chiamata per dirle di mamma e papà il cielo era sereno e la luce del sole, forte e calda perché era estate, si era trasformata in una specie di medusa che aveva cominciato a sbattere contro i vetri fino a disfarsi in meduse più piccole o in pezzi di meduse che prima passavano attraverso le finestre e poi rimbalzavano contro il pavimento e i mobili e tutto il resto, come una pioggia debole ma insistente, e viscosa, che non lasciava pensare. Molto tempo dopo, quando Rita morì e io riguardai i giornali di quel periodo per sapere com'era stato il giorno in cui mamma e papà erano scomparsi, vidi che in realtà il tempo era stato instabile e che erano persino caduti degli acquazzoni in buona parte dell'area cittadina. Sicché pensai che mia nonna, per qualche ragione, avesse scambiato le cose: l'acqua era fuori, la luce dentro, e lei, per spingere la luce fuori dalla finestra, aveva fatto entrare tutta l'acqua. Poi pensai anche che, quel giorno, lei fosse uscita a piangere in cortile.
Comunque, questo fatto delle meduse è sempre stato importante. Mi accompagnano in incubi persecutori e in fantasie di liberazione. A volte sono scure, intrise di nero di seppia, altre volte brillano: dune di sabbia a mezzogiorno, muri imbiancati di fresco, occhiali da sole al sole. E sempre, in un modo o nell'altro, pungono, irritano, stordiscono; tanto che a volte ho voglia che se ne vadano, ma visto che tornano sempre sarà meglio così. Un ricordo necessario di mia nonna, e di papà, e di mamma.
La prima volta che parlai delle meduse fu a una riunione di HIJOS . Romina aveva insistito perché ci andassi, e io gliel'avevo promesso tante di quelle volte che alla fine fui costretto a farlo. Per paura di perderla o di mostrarmi troppo autosufficiente, immagino. Eravamo stati vicini di casa a Moreno, avevamo fatto le elementari insieme e ci eravamo rincontrati a una cena di classe. Dopo di che cominciammo a uscire con dei comuni amici, e nel giro di poco fummo inseparabili. Io avevo in mente di studiare gastronomia e di proseguire l'attività di mia nonna, pasticcera, e Romina mi diceva sempre che, quando ci saremmo sposati, i suoi genitori avrebbero potuto aprirci un ristorante come regalo di nozze.
Era un'ottima idea: avremmo persino potuto fare lì la festa. Ma prima di tutto ciò mia nonna cominciò a soffrire di problemi respiratori, che si rivelarono essere conseguenza di un danno cardiaco. Un giorno riuscii a portarla da un chirurgo che le consigliò di operarsi il prima possibile e io le dissi capito, il prima possibile. E quello aveva ragione: la settimana dopo, mentre Rita usciva dalla tintoria dopo averci lasciato i vestiti invernali (all'inizio dell'estate portava sempre a lavare tutta la roba invernale per metterla via fino all'anno successivo), morì.
Le cose tristi sono più tristi quando si potevano evitare. Dopo il funerale e un breve lutto che mi isolò in casa per qualche giorno, andai a prendere i vestiti alla tintoria. Non avevo il tagliando di ritorno perché qualcuno aveva rubato la borsa a Rita mentre giaceva morta per la strada, ma il signor Lee mi conosceva. I vestiti non c'erano, comunque. Suppongo che la stessa persona che aveva rubato la borsa avesse ritirato i vestiti il giorno prima e una commessa nuova, senza sapere che quelli erano i vestiti che Rita portava ogni anno, glieli aveva dati. Il signor Lee mi chiese scusa, si stringeva la testa tra le mani e indicava l'impiegata chiedendomi di scusare anche lei, era nuova, come poteva sapere, e si offrì persino di risarcirmi, in qualche maniera, tutta la roba rubata. Se ben ricordo arrivò perfino alle lacrime e mi disse, nella sua lingua, quanto gli dispiaceva per mia nonna. Mentre me ne andavo continuava ancora a dire dispiace molto molto, no no, scusa, signore, scusa; e la ragazza nuova, appoggiata all'altro capo del banco, non sapeva che fare.
Quella fu la prima conseguenza della morte di Rita. Due settimane dopo, non di più, abbandonai la mia carriera di chef. E come se non bastasse, in quei giorni Romina venne da me e mi raccontò che la fabbrica di giocattoli del padre era andata in bancarotta. Non passò molto tempo prima che tutto il patrimonio familiare si riducesse alla casa dove vivevano – bene di famiglia – e all'auto della madre, che siccome era intestata a un fratello di lei non andò all'asta, e così il padre cominciò a usarla per lavorare come tassista.
Adesso che ci penso, cambiò tutto così velocemente che fu come andare a letto felici dopo aver dato da bere alle piante per poi svegliarsi nel bel mezzo di un'alluvione. Comunque, siccome non riuscivo bene a capire da dove cominciare a deprimermi, tirai avanti. Mia nonna mi aveva sempre detto: tu, piccolo, con tutto quello che hai passato, devi sempre guardare avanti. Perciò per sopravvivere mi dedicai a ciò che avevo più a portata di mano: tenere i clienti di mia nonna. Avevo la sua agenda di lavoro, i suoi utensili, sapevo usare le tasche, infarinare gli stampi, preparare le miscele, il marzapane e la glassa, tempi di cottura, forno al minimo, al massimo, mi mancava solo di andare nelle pasticcerie dove lei consegnava gli ordini, presentarmi, dire sono il figlio di Rita, quella delle torte, e pace. Non fu difficile.
Anche Romina stava maluccio. Ci vedevamo poco. Un giorno che ne parlavamo lei mi disse che voleva aiutarmi, che aiutare me era aiutare noi. Mi disse così: ti aiuterò per aiutarci. Questa faccenda di tua nonna ti fa star male, disse, sei molto solo, andrà meglio, vedrai. E il giorno seguente mi portò carte e libri e mi disse che aveva cominciato a militare in HIJOS. È per te, perché ti amo, disse, e mentre ci spogliavamo io pensavo si può fare, sì, si può fare, ma in realtà l'unica cosa che volevo era stare da solo con lei, insieme per sempre. Lei, io, i miei pasticcini. I nostri pasticcini. La nostra pasticceria che avrebbe potuto chiamarsi così: “I nostri pasticcini”. Solo che il giorno dopo, quando ci svegliammo e lei mi preparò la colazione, pane tostato caldo che all'inizio scottava e poi no, fu ovvio che per Romina, se si doveva andare avanti, era necessario condividere qualcosa di più.
Mi diceva: loro ti aiuteranno, dammi retta, sono buoni, perché credi che ci vada, io?, per aiutarti, non capisci? Ed era vero: Romina mi amava talmente che, pur avendo dei genitori a cui voleva bene, militava in un'organizzazione di orfani. Non è cosa da poco, chiaramente. A casa sua, con tutti i problemi che avevano, la notizia doveva essere stata accolta abbastanza male. E anche se lei lo negava, credo che buona parte della sua decisione di andare a vivere con Ludo, la sua migliore amica in HIJOS, avesse a che fare con questo. O magari no. Il papà di Romina, dopo aver fatto un po' di avanti e indietro col suo taxi, si stufò e, quasi senza preavviso, se ne andò a Miami. Per la mamma di Romina, quando lui la chiamò dall'aeroporto di Ezeiza, era già morto. Per Romina non tanto. Non me lo disse mai, ma io me lo immagino: lui, per lei, era come un altro desaparecido, e forse avrebbero dovuto aggiungerlo all'elenco degli scomparsi.
Era un gruppo di nove o dieci persone. Tutti, meno uno, parlavano abbastanza di cose organizzative. Io mi fermai a guardare quello che non parlava: aveva delle macchioline bianche nella parte bianca dell'occhio e, ogni tanto, per via della luce, le macchioline, che erano più opache del resto, si illuminavano e brillavano di più. Mi intrattenni un poco finché non mi chiesero qualcosa e la prima cosa che mi venne in mente fu la storia delle meduse. Io sogno meduse, dissi, e siccome tutti mi guardarono interessati, andai avanti. Ero misteriosamente riuscito a catturare l'attenzione, e allora parlai dei vari tipi di meduse, di come per un po' mi ero dedicato a studiarle e a differenziarle, nessuna è aggressiva, dissi, e non tutte sono velenose, ma bisogna sempre stare attenti. E nei miei sogni, ovviamente, c'erano quelle che mi inseguivano con un frastuono di ferraglia e di ossido, quelle che al toccarle mi davano nausea, quelle che mi svegliavano nel cuore della notte e mi facevano sentire dentro al sistema digestivo di una medusa, io il cibo, io l'ostaggio-cibo che correva a lavarsi la faccia e si accorgeva che l'acqua era sale, schiuma, frastuono, bruciore. Altre invece erano buone come dei delfini.
Col tempo mi resi conto che, per quanto la militanza non fosse proprio la mia passione, non mi dispiaceva neanche. Accompagnavo Romina, conoscevo gente, e a poco a poco trovai un posto in cui parlare di qualsiasi cosa – come delle meduse – senza dover dare spiegazioni. Come dicevano loro, le spiegazioni sarebbero arrivate. Ma le cose cambiarono ugualmente. Per esempio la mia relazione con Ludo, che anche lei come Romina non aveva i genitori desaparecidos ma una zia di secondo grado sì, e aveva fatto stampare una maglietta con la sua faccia. Le prime volte che la vidi, sempre colma di fede rivoluzionaria, mi divertivo a immaginarle, lei e Romina, come leader di nuove organizzazioni – NIPOTI, NUORE, che so io – nelle quali tutti indossavano magliette stampate con volti di desaparecidos che visti da così lontano sembravano stelle del rock. Ludo portava la sua maglietta con un orgoglio molto particolare, la foto era molto bella, quasi irreale, e quindi, tra quelli che la vedevano per la prima volta, certi le chiedevano chi fosse e altri le dicevano direttamente ah, sei una fan dei Nirvana. La zia aveva una certa somiglianza con Cobain. E anche se non era Cobain, Ludo aveva un atteggiamento da rockettara che a molti di noi, nonostante andassimo insieme a concerti di band che sostenevano l'organizzazione, mancava. Era questo che mi entusiasmava di lei: era rockettara e impegnata. In un certo senso, stare accanto a Ludo era come stare con la fidanzata di Cobain o con la musa di Cobain, qualcuno di molto vicino a quel cantante ispirato, a quell'artista autentico, così che tutto assumeva un'altra dimensione. Tanto che dopo un po' cominciai a vederla di nascosto da Romina.
Per fortuna non durò molto: anche se Romina aveva una certa qual ossessione per l'idea dei miei genitori desaparecidos, con Ludo era anche peggio... oppure meglio, non so, per me era peggio: dopo un po' che avevamo cominciato a vederci, mi portò a casa sua e mi mostrò una maglietta non con la faccia di sua zia ma con quelle di mamma e papà: una specie di duo Pimpinela un po' più hippie o di Sui Generis in cui si capiva facilmente chi era l'uomo e chi la donna. Dove hai pescato una foto dei miei?, le dissi. Me l'ha data Romina, disse, gliel'ho chiesta per fare un cartello per le marce, visto che tu non ne hai mai fatto uno... La guardai senza aprir bocca. Lei continuò: per farti una sorpresa. E quando si avvicinò per abbracciarmi – come faceva sempre quando mi aspettava con una della sue sorprese – la respinsi e le dissi va bene, ma io non volevo una sorpresa del genere, come ti viene in mente che io...? Dài, stupidino, topolino – mi chiamava così, lei: topolino, coniglietto, pulcino –, vieni qui. Quelle parole erano magiche. Le braccia e la bocca di Ludo, giovani, dolci. Impossibile resistervi nel pieno del pomeriggio e del caldo.
Quella volta passammo un bel po' di tempo rinchiusi. Tanto che a un certo punto Romina entrò nell'appartamento – vivevano già insieme – e, indovinando che Ludo fosse con qualcuno, uscì. Poi ci addormentammo e io sognai le mie meduse, un sogno tranquillo che comunque mi svegliò nel cuore della notte. Ludo, ancora nuda, dormiva. All'inizio, concentrato com'ero a non essere attaccato dalle meduse, non seppi cos'era successo. Poi sì. Ludo era lì, ma non mi avrebbe stregato con i suoi trucchetti. Presi la maglietta, le mie cose, e uscii in strada. Aveva rinfrescato. Tenevo la maglietta in una mano e non sapevo se mettermela o no. Prima di buttarla via pensai che avrei anche potuto indossarla. Ma no. Dovevo buttarla. Dovevo smetterla di vedermi con Ludo.
Le cose sarebbero potute finire lì. O non esattamente lì: quello poteva essere il momento clou della fine. In un ipotetico epilogo io tornavo con Romina e lei sospettava qualcosa – o Ludo glielo raccontava – e allora mi lasciava, io me ne andavo da HIJOS, loro due litigavano e Romina – che in fondo era, come molti, una ragazza idealista – militava un altro po' di tempo e alla fine tornava dalla sua famiglia. Ma quelli di HIJOS avevano ragione. Queste cose non finiscono mai, vanno avanti sempre, basta aspettare un po' ed eccole di nuovo, come le verruche, che tornano sempre. E se non tornano, non c'è da fidarsi, salteranno fuori in un modo o nell'altro.
Il giorno dopo c'era assemblea. Avremmo screditato pubblicamente non mi ricordo chi e bisognava prendere una decisione circa alcuni dettagli. Confesso che mi venne la tentazione di parlare della meduse, paragonare il tizio che avremmo denunciato con una di esse e bla bla bla. Alla fine non dissi niente, mi astenni da tutte le votazioni e lasciai che decidessero per me. Quando uscimmo, Romina era distante. Credo che prima della riunione mi avesse visto parlare con Ludo – io avevo appena finito di dirle che non volevo più stare con lei, che Romina non lo meritava –, sicché mentre camminavamo mi guardava storto. Arrivammo al Bajo, passammo per i ristoranti che cominciavano ad aprire lungo l'argine e scendemmo fino alla Costanera. Io avevo preso a parlare del mio bisogno di lasciare HIJOS, di vedere le cose da un altro punto di vista, sperando che lei fosse in grado di capirmi. Ma per tutto il tragitto Romina si ostinò a porsi al di sopra di me, superiore, lei la mia salvatrice e io l'idiota, il cieco che negava trecento volte l'unica verità. Non saprei dire quanto impiegai ad articolare tutti quei pensieri, né come, ma di sicuro so che discutemmo di questo e che prima di arrivare alla riserva naturale fumammo, e che dopo continuammo a discutere come due adolescenti. Giungemmo al fiume. La vegetazione, il cielo che cominciava a diventare rosa, il fumo delle sigarette, l'aria fresca, i rospi, i grilli, mi facevano pensare ai campi, ai monti, a luoghi dove stare in pace e sparire tra le piante, essere foglia, stelo, acqua, pesce, paesaggio, profumo, volare nell'aria mite, radiosa, carico di acqua o di polvere, o di aria. Solo che a un certo punto la discussione si spostò su argomenti come la vita e la morte, le ragioni per vivere e per morire. Se non ci mettiamo d'accordo, dissi, qualcosa o qualcuno deve morire. Romina si offese. Non ero stato molto delicato nel porre la questione. Ma come lei si accorse che stavamo affrontando il problema di uccidere o di morire, tornò a mettersi sulla difensiva e a dirmi che dovevo farmi aiutare, che HIJOS era lì per quello e che lei era il mio angelo custode, il mio tesoro, la mia sorgente di fedeltà, fidanzamento, futuro, sogni condivisi, e poi mi baciò e io non seppi più che fare.
Quella notte facemmo l'amore per ore. Romina, ogni volta che finivamo, mi diceva che ne voleva ancora, e io, che non avevo mai fatto la parte dello stallone, riuscii a soddisfare alcune delle sue richieste. Anche nei giorni successivi continuammo a fare lo stesso. Tutto quel ritorno di fiamma durò quasi una settimana nella quale non ci fu alcun tipo di recriminazione, solo parole d'amore, finché lei, a un certo punto, mi disse che mi amava profondamente. Io ero disteso sul letto, faccia in su, le lenzuola mi coprivano fin quasi al mento e le parole di Romina suonarono nitide, sì, però come in mezzo a una sorta di distorsione o interferenza, disturbate. Dopo di che si sedette. Albeggiava. Lei si girò di spalle e accese una sigaretta. Ti amo profondamente, ripeté, e a te non importa. Poi si alzò, spense la sigaretta e andò in bagno. Si fece la doccia, si lavò i denti e, uscendo, prima di cominciare a vestirsi, disse che la cosa migliore era che per un po' non ci vedessimo. Col senno di poi, credo che da quando lei mi disse che mi amava “profondamente” con quel termine così insolito mi si offrirono varie possibilità di farla tornare indietro, e che in più fu lei, in qualche modo, ad offrirmele. E forse io sospettai che potevo approfittarne, certo, ma non so perché non lo feci. Mentre lei si vestiva, per esempio, fui quasi sul punto di buttarmi giù dal letto e abbracciarla o mettermi in ginocchio davanti a lei o roba del genere, star lì ad aspettare le sue botte, sentirle dure contro le mie ossa, piangere e lasciarla piangere e tutto il resto ma invece no, lei si vestì, mise la sua roba in borsa e se ne andò.
Soltanto qualche giorno dopo mi resi conto che una come lei significava troppo per uno come me e che quindi dovevo riaverla. Ma questo fu all'inizio. Subito dopo immaginai che, per come s'erano messe le cose, io ormai non significavo più nulla per lei e che questo era quanto e non c'era più niente da fare. E passarono i giorni, non so se molti o pochi ma di certo lenti, finché un giorno Romina mi chiamò per dirmi che era incinta.
La gravidanza fece sì che ci incontrassimo di nuovo varie volte. Io passavo a prenderla dove lei mi diceva e passeggiavamo. Non so se uno dei due avesse l'illusione di tornare a stare insieme. A me sarebbe piaciuto, è ovvio, ma certe volte lei restava senza aprir bocca per interi isolati e la sua espressione diventava come di pietra, o di ferro, una specie di silenziosa recriminazione nella quale era impossibile penetrare. Quando le chiedevo della sua famiglia, di cosa ne pensavano loro, non diceva niente o diceva in quella casa sono tutti matti, non li voglio vedere mai più. Magari tutto quel tempo passato a militare per HIJOS le aveva fatto credere che anche i suoi genitori fossero dei desaparecidos o che avrebbero potuto esserlo prima o poi, pensai. Ed era così difficile fare in modo che questa nuova Romina parlasse che un giorno glielo dissi. Lei però non si difese, continuò a camminare per un altro po' e alla fine si fermò tenendosi la pancia con le mani. Mi spaventai. Lei si sedette sul cordolo del marciapiede. Mi fa male, disse prima di vomitare. E quando finii di aiutarla a ripulirsi – si era sporcata un po' i sandali – mi disse senti, voglio abortire, ho bisogno di soldi. Quella notte, nei pochi momenti in cui mi assopii, sognai varie versioni del parto. In una la pancia si apriva come un girasole di zinco e da dentro uscivano pezzi di vetro o pietra rotta che, a seconda di come li colpiva la luce proveniente da un lucernario invisibile, o da un riflettore, sembravano specchi o gocce d'acqua. In un'altra, le pietre erano cave e volavano di qua e di là per poi posarsi, leggere, sopra ognuno dei pasticcini che avevo lì pronti per la consegna. Meduse ce n'erano, in due o tre, ma sempre appiccicate alla pancia di Romina, che era enorme e continuava a crescere anche dopo il parto. L'unica versione normale – dalla pancia usciva un bambino – era molto bella, calda, piena di piante aromatiche e musica di xilofoni nel mezzo di una nuvola di vapore celeste – il bambino, quando usciva, era maschio –; ma comunque finiva tutto male – almeno per me – quando al letto di Romina si avvicinava un tizio giovane – e coi capelli bianchi – al quale il bambino tendeva le braccia e a cui, con estrema chiarezza, diceva papà.
Il giorno dopo, un po' nervoso, feci colazione con tre caffè uno dopo l'altro e fui sul punto di chiamare Romina per dirle che se proprio voleva abortire chiamasse il vero padre del bambino e chiedesse a lui i soldi. Ma invece andai in banca, ritirai il denaro necessario e la chiamai per darle appuntamento in un bar. Ci sedemmo a un tavolino affacciato sull'esterno, lei chiese dell'acqua e io un altro caffè. Non mi sentivo bene e andai diverse volte al bagno, senza risultato. Lei invece sembrava allegra e riuscimmo anche a chiacchierare delle previsioni del tempo. Me ne ricordo ancora: mite al mattino e in peggioramento nel pomeriggio, con abbassamento delle temperature e probabilità di precipitazioni di varia intensità. Non prometteva granché, però alla fine c'era stato bello.
In quel periodo arrivarono i risarcimenti di papà e mamma. Avevo fatto richiesta quando mia nonna era ancora viva ed erano passati anni senza che ci fossero notizie, finché un giorno arrivarono gli incartamenti, io firmai e tutto finì lì. Dal momento che non frequentavo più HIJOS non dovetti confrontarmi con quelli che non erano d'accordo di riscuoterli, e quei pochi con cui ancora mi vedevo pensavano che fosse bene accettarli o che in ogni caso fosse una decisione personale e non si potesse far niente per contrastarla. Quindi, per chiarirmi un po' le idee, pagai una persona perché si occupasse del mio lavoro in pasticceria – una specie di gestore – e mi misi in viaggio. Girai il Sudamerica in lungo e in largo. In ogni posto facevo delle ricerche sulla pasticceria locale con l'idea di tornare e aprire una catena di pasticcerie multietniche con capacità di distribuzione su tutto il territorio della capitale. Ma la varietà delle ricette, degli ingredienti e dei piccoli trucchi si rivelò talmente ampia che non si poteva dare a tutti il giusto spazio, cosicché abbandonai il progetto prima della metà del percorso. Comunque, dato quello che successe poi, portarlo a termine sarebbe stato impossibile.
Le cose andarono così: in Honduras conobbi una ragazza del posto che, mentre ce ne andavamo per spiagge di sabbia bianca e rovine precolombiane, nel suo dialetto a me quasi incomprensibile, mi diede a intendere che Romina poteva non aver abortito. Incubi. Meduse, alghe, montagne di animali acquatici mi si ammassarono notte dopo notte sulla schiena, ferita contro una barriera corallina. Questo, e l'effetto della distanza, che faceva riaffiorare ricordi di Rita, della mia infanzia a Moreno, di quello che Rita mi raccontava di papà e mamma, cose del genere, mi fecero tornare. E al mio ritorno, brutte notizie: il mio gestore aveva chiuso la pasticceria e ne aveva aperta una altrove: tutti i miei clienti ora compravano da lui. Questo, pensai, poteva succedere. Comunque la cosa più importante era vedere Romina. Chiamo da lei, non risponde. Vado a casa sua: sprangata e in vendita. Vado a HIJOS. Il tipo con le macchioline bianche negli occhi mi fa ciao, quanto tempo, che sorpresa, entra, e altre cose carine, molte cose – si vede che ha ritrovato la lingua e non riesce a smettere di parlare, e anche le macchioline negli occhi sembrano rimpicciolite, o attenuate –, e quando entriamo, in un corridoio, incontro Ludo e le chiedo di Romina. Romina è andata in Spagna, dice. Spagna? Sì, qualcuno le ha dato i soldi per il biglietto e se n'è andata. Allungo un braccio, le appoggio la mano sulla spalla. Lei crede che voglia abbracciarla e si scansa. Spagna o Italia, dice, non so, l'aereo faceva scalo a Madrid e quando sono andata a salutarla lei non riusciva a decidere dove fermarsi. Non volevo abbracciarti, dico. Cosa?, dice, pochi scherzi, ragazzino, hai già scherzato abbastanza.
Esco più in fretta che posso. Il tipo delle macchioline, mentre me ne vado, mi chiede, E allora? Torni? Sì, sì, dico. All'inizio affretto il passo, ma poi no: comincio a correre, via, veloce, come se così andassi a incontrare Romina, mio figlio, qualcuno. Senza accorgermene arrivo al porto e a un cantiere navale e a un sottomarino in riparazione che per qualche motivo mi trattiene, o è la stanchezza. Lo scafo del sottomarino è nero, appena verniciato, e si sente il rumore dei martelli e delle saldatrici che lavorano dentro. Quanti sono? Quanta gente sta lavorando a tempo pieno, a giornata doppia, per preparare la barca con cui andrò a prendere Romina? Attraversare l'oceano, sì, immergersi e riemergere, migliaia di meduse che tentano di attaccarsi allo scafo appena verniciato ma non ci riescono, lo specchio nero e brillante le mette in fuga e rimangono indietro, stordite dalla velocità e dai vortici delle eliche. Prima di addormentarmi – o di svenire, non so – anche a me viene il capogiro. Poi sogno cose che non sono ancora successe ma succederanno, di sicuro. Romina fa la cameriera in un ristorante sul mare e quando arrivo con la mia barca tutti i clienti corrono a vedere. Mi sento un eroe. Sono un eroe. Lei mi indica un tavolo e mi serve qualcosa di fresco: sarai stanco, mio navigante. Sì, è stato un lungo viaggio. Poi ceniamo insieme e lei mi racconta tutto quello che è successo come fosse una grande avventura, parla della fortuna che abbiamo avuto a rincontrarci, e di molte cose che, siccome me le dice in altre lingue – nel sogno lei ha il dono delle lingue, io no –, io non capisco ma che da come le dice sono belle, di certo. E mio figlio non c'è ma sarà di sicuro da qualche parte, è ovvio, da un momento all'altro si sentirà il suo pianto, le sue prime parole, ta, ta, ta, ta. E visto che il ristorante è in vendita faccio due conti e vendo il sottomarino alla coppietta del tavolo accanto – andiamo in luna di miele, dicono all'unisono prima di prendere il mare –, compro il ristorante, e ci fermiamo a vivere lì,una famiglia di tre persone, di quattro, di cinque, di sei, tutto cresce sempre, tutto può crescere, sempre.

HIJOS (in spagnolo, “figli”), è la sigla per “Hijos e Hijas por la Identitad y la Justicia contra el Olvido y el Silencio” (Figli e Figlie per l'Identità e la Giustizia contro l'Oblio e il Silenzio), un'organizzazione fondata in Argentina nel 1994 che raccoglie i figli e i parenti delle persone scomparse durante la dittatura militare del generale Videla, e si occupa di campagne di sensibilizzazione, informazione, ricerca dei figli dei desaparecidos e pubblica denuncia dei responsabili dei sequestri.
I Sui Generis e il duo Pimpinela erano due gruppi musicali molto popolari in Argentina negli '70 e '80.

traduzione di Ilaria Rigoli

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Anno 7, Numero 30
December 2010

 

 

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