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un piatto di zuppa

sushma joshi

Il nano che mi serve il piatto di zuppa così bollente da infuocarmi le guance e riscaldarmi il cuore, è basso e tarchiato, con un ampio sorriso benevolo. La tovaglia è di cotone, a quadretti rossi e gialli. Il tavolo è coperto di oggetti di vetro, sembra la bottega di un farmacista. Il giallo dell’olio d’oliva e il rosso dell’aceto brillano lucenti dentro eleganti bottiglie. Bicchieri da vino di differenti fogge e misure stanno l’uno accanto all’altro. Tovaglioli color giallo sole giacciono arrotolati tra le pieghe dei loro contenitori in legno. “Roma! Roma!” Il cameriere si mostra impaziente mentre cerco di scoprire di più sulle origini di quest’allettante zuppa. “Genova? Sardegna?” Dal brodo spesso sale del vapore.
“Chi è il cuoco?” chiedo come se potessi dedurre la ricetta esatta conoscendo l’identità di chi in cucina ha mescolato insieme gli ingredienti. “Mio paaadre! Mia maaadre!” risponde impaziente. Se ne va, quasi disgustato da questa domanda. Come può questa giovane straniera non apprezzare una buona zuppa romana in una trattoria del posto quando ne ha davanti una?
La sua irritazione è immediata. La gente a Roma, a quanto pare, perde facilmente la pazienza. Non ha la grande tolleranza nei confronti degli stranieri che uno si aspetterebbe invece in un posto così turistico. È comprensibile quando vivi in una delle città più gloriose del mondo e i barbari che la invadono ogni giorno ti stizziscono con la loro mancanza di antica raffinatezza e la loro goffaggine.
Questo posto con i suoi colori coordinati, sembra un po’ il film Delicatessen. È ampio e rettangolare, pieno di tavoli squisitamente apparecchiati, tutti vuoti tranne uno con dei commensali gioviali. L’anziano signore seduto in fondo, che credo sia il padre, si guarda intorno con occhi tristi e appesantiti dalle rughe. Mi guarda tenendo in mano un coltello enorme. Sono sola, una viaggiatrice solitaria che consuma un pasto solitario in un ristorante che dovrebbe risuonare dell’allegro chiacchiericcio delle famiglie. La madre sembra la donna del ritratto American Gothic, solo più magra e misera.
Mi sbrigo a mangiare la zuppa calda, assaporando il brodo e cercando di finirla mentre vedo che il gruppo seduto tre tavoli vicino al mio sta pagando il conto. Quel gruppo di persone, piacevolmente normali, chiacchiera e ride con il proprietario mentre si preparano ad andarsene. Mangio la zuppa calda a cucchiaiate, spruzzo un po’ di olio di oliva sul pane e me lo infilo in bocca, cercando di non masticare sulle capsule nuove che mi fanno ancora male.
L’ampio ristorante con le tende rosse è sinistramente vuoto. Non voglio farmi trovare da sola qui al Delicatessen da Mama e Papa e dal loro figlio nano. Gli stranieri dalla pelle scura sono fonte di particolare disprezzo. Ho visto gli ambulanti del Bangladesh che vendevano ombrelli nella gelida pioggia fuori stagione di dicembre. Sembrava che fossero gli Arabi di Roma, il capro espiatorio delle difficoltà economiche e sociali.
L’Italia stava affondando sotto una massa d’imitazioni di oggetti di design, tutti «made in China». Il dragone cinese stava mangiando viva l’Italia e l’unico modo in cui gli italiani potevano rifarsi era trattare brutalmente tutti gli stranieri in cui s’imbattevano. Vale a dire i bengalesi, che cercavano di vendere mazzi di rose rosse alle coppie che cenavano nei ristoranti e venivano scacciati come se fossero affetti da qualche malattia mentale. O io stessa. Mentre cercavo di comprare una collanina di finte perle e giada al mercato, mi sono soffermata per scherzo ad annusare il laccino di cuoio per determinarne l’esatta provenienza. Mi sono resa conto che si trattava di cuoio grezzo non trattato. Puzzava di rancido. Mi chiesi se potessi metterla nel mio bagaglio a mano senza essere fermata ai controlli aeroportuali. La mia espressione infastidì il venditore a tal punto che disse qualcosa di così terribile che l’intero gruppo di passanti fermi a guardare si allontanò in segno di protesta.
Forse questa ospitale coppia ha una cantina sotto la piccola trattoria dove tiene una tigre viva e al felino danno da mangiare alieni sprovveduti.

~

Ho incontrato un romano rapace nell’istante stesso in cui ho messo piede alla stazione Termini, scendendo da un treno da Milano. Il tassista che è venuto a prendere me e i miei amici americani ci ha chiesto venti euro per la corsa in taxi. Gli amici americani, una coppia carina e gentile con la quale avevo passato un mese in una residenza per studiosi, non hanno battuto ciglio, sorridendo alla maniera rilassata del Mid West. Hanno ignorato i miei dubbi. Feci notare loro che sulla mia guida era specificato che la corsa non sarebbe costata più di 4 euro. I miei sospetti crescevano, sono abituata a prendere i taxi a Mumbai dove non si può fare affidamento su nessuno. Chiesi che mi accompagnassero per prima. “No, loro per primi!” disse il tassita, con una veemenza ingiustificata. Le cose non mi tornavano, l’hotel era solo a 4 minuti di distanza dalla stazione Termini. Ma dato che i miei amici sorridevano con tale cieca fiducia nell’umanità e visto che io ero una straniera in città, non mi azzardai a protestare e mi adeguai.
Il tassista scaricò i miei amici davanti al loro hotel. Poi sbattendo la portiera si rimise alla guida e mi condusse in una deliziosa stradina e mi disse di scendere. Era una via a senso unico e non poteva lasciarmi di fronte all’Hotel des Artistes, disse. Mi guardai intorno a destra e a sinistra e vidi delle case ma nessun hotel. Pensai che mi stesse ingannando. Gli chiesi di portarmi dalla parte opposta, all’entrata dell’albergo. Imbronciato, s’infilo nel vicolo con un’inversione a U, facendo stridere le gomme. Scoprii che la stradina era piena di residenze di lusso ma non era visibile nessun hotel. Mi accusò di avergli dato l’indirizzo sbagliato. Gli chiesi di portarmi all’albergo. Rientrò in macchina, sbatté la portiera e partì.
Guidò a tutta velocità per circa venti minuti prendendo diverse vie. Il taxi sfrecciava su quella che sembrava un’autostrada. Il tassista afferrava saldamente il volante. Mi sembrava che corressimo a centosessanta chilometri all’ora. In quel momento mi resi conto che c’era qualcosa che non andava. Le indicazioni su come raggiungere l’hotel che avevo scaricato da internet dicevano che sarei arrivata all’hotel in quattro minuti. Ero seduta in taxi da quasi mezz’ora. “Fermo!” dissi. O meglio, intimai. Potevo essere minacciosa quando volevo e persino al più sanguinario dei tassisti romani non piace avere una donna che urla nel suo taxi. Alla fine si fermò.
Aprì la portiera e balzò fuori. Urlava e bestemmiava in italiano. La strada era deserta a parte due donne in piedi accanto alla loro macchina in panne. Gli diedi 20 euro e cominciai a trascinare la mia valigia verso un edificio lì vicino. Il tassista mi seguì e mi strappo di mano la valigia. “Trentasei euro! Trentasei euro!” urlò. Mi agitò i pugni in faccia, percepivo un’incombente violenza fisica. Si capiva chiaramente che ero coinvolta in un’intensa orgia d’odio.
“Per favore!” implorai le due donne al lato della strada. “Mi doveva portare all’albergo. L’Hotel des Artistes!” La più giovane delle due, con uno spesso strato di mascara nero e rossetto rosso, quasi una caricatura della femminilità casalinga, scosse la testa: “No inglese. No inglese.” Non volevano prendere parte a quella scena, solo partecipare indirettamente, come comparse di sfondo. Era chiaro che si stavano godendo lo spettacolo, e per quanto potesse finire male, non sarebbero intervenute. La mancanza d’interesse delle due donne per quello stava accadendo rafforzava la risolutezza dell’uomo. Diventò anche più violento. Cominciò a tirare la mia valigia verso il taxi. “Chiamo la polizia!” urlò. “Sono trentasei euro!”
Mi sembrava di essere intrappolata in qualche film della seconda guerra mondiale, uno in cui i fascisti governavano ancora incontrastati. Non era l’Italia che amavano gli americani, quel tipo di Italia da “Eat, Pray, Love”. Questa era l’Italia che gli ebrei avevano conosciuto tra gli anni ’30 e gli anni ’40. Era l’Italia come l’avevano conosciuta gli etiopi. Era l’Italia che aveva creato e su cui aveva regnato Mussolini. Era l’Italia di Giulio Cesare e non grondava di olio d’oliva e pane fatto in casa. Puzzava di odio. Mi guardai intorno disperata. Lo stradone pareva deserto. Ero prigioniera nel centro di Roma al tramonto da un tassista fascista e da due simpatizzanti. Mi era chiaro che sarei presto diventata una statistica della violenza se non facevo qualcosa.
Fu allora che notai due uomini che sopraggiungevano nella mia direzione. Uno aveva la pelle nera, poteva sembrare arabo o africano. “Per favore, devo andare a quest’hotel! Ditemi dov’è!” Dissi, indicandolo sulla cartina che avevo in mano. È pazzesco come non si possa urlare “Aiuto!” come nei film. Nella realtà, tutto è muto. Un tassista sta per commettere un crimine violento, ma tutto quello che riesco a dire è: per favore mi aiuti a trovare il mio albergo, sperando che le persone a cui lo chiedo capiscano la mia lingua.
Il ragazzo si fermò e venne verso di me. In un inglese approssimativo mi chiese: tu deve andare in albergo? Sembrava sapesse che qualcosa stava andando storto, ma la sua risposta non mirava a reagire direttamente con il tassista arrabbiato. Al contrario, in apparenza sembrava si fosse fermato ad aiutare qualcuno che chiedeva indicazioni. In seguito mi resi conto che la maniera in cui aveva agito aveva fatto sì che la situazione non peggiorasse. Lo guardai con riconoscenza. L’arrivo del ragazzo fece sì che il tassista infuriato ritornasse al taxi, e colpendo il suo cellulare urlava “Polizia! Polizia!”. Sbatté la porta, e partì a tutta velocità sullo stradone. Se ne andò così, urlando che avrebbe chiamato la polizia per colpa mia.
La presenza del ragazzo dalla voce calma mi diede quasi l’impressione di essere sfuggita a una tragedia per piombare nella luce avvolgente del mondo moderno. M’incamminai con lui, e le donne mi urlarono “Non andare! Pericoloso! Pericoloso!” I neri sono pericolosi, mi avvisarono, come se la loro completa indifferenza alla mia incolumità fisica alla presenza del loro connazionale si fosse trasformata in grave preoccupazione adesso che mi fidavo delle persone di cui loro non si fidavano affatto.
Le ignorai e mi allontanai. “Da dove vieni?” mi chiese il ragazzo. “Dal Nepal” risposi. “E tu?” “Dall’Etiopia!” “Etiopia? Ah, l’Etiopia! Ho un sacco di amici etiopi, gente a cui voglio bene e con cui ho passato tanti bei giorni e tante belle serate a New York.” Cercai di raccontargli di questi amici ma il suo inglese era elementare. Annuiva alle mie diffuse descrizioni dei meravigliosi etiopi di New York, ma non ero sicura di quanto capisse. L’etiope, di bell’aspetto e abbastanza giovane, mi aiutò con la valigia fino a un’altra strada dove mi resi conto che ci trovavamo nell’area metropolitana. Dietro a quella che credevo fosse un’autostrada deserta c’erano edifici eleganti. C’erano anche tanti taxi. “Che succede se questi tassisti si comportano come quell’altro?” chiesi cercando di comunicare l’ansia improvvisa al mio accompagnatore.
Il ragazzo mi guarda con una certa diffidenza, forse crede che voglia rimanere con lui e seguirlo fino a casa, cosa che potrebbe recargli un certo disturbo. Al tempo stesso siamo due giovani stranieri, colti in un momento in cui ci siamo dati fiducia reciproca. Ho messo la mia vita nelle sue mani. C’è qualcosa in questa situazione che crea un’intimità immediata.
“Non ti preoccupare, non sono tutti uguali”, mi dice. La sua voce mi rassicura. Non mi affiderà a un taxi con un altro fascista. Fa un cenno a un taxi in attesa e dice qualcosa in italiano al conducente. Guardo dentro. È un uomo di una certa età con i capelli brizzolati. Lo guardo stanca e sfiduciata, ma non ho altre alternative se non salire sul taxi. Penso a un gesto appropriato che possa mostrare la mia gratitudine, ma non mi viene nulla se non uno stanco “grazie mille”. Penso se sia il caso di lasciare al bel ragazzo etiope la mia email ma sembra quasi una forzatura date le circostanze. È ovvio che non ha fatto niente di più e niente di meno di quello che avrebbe fatto per ogni altro essere umano. Non voglio opprimerlo dandogli i miei contatti con l’obbligo implicito di dovermi chiamare e controllare gli spostamenti di una completa sconosciuta.
L’autista rimane in silenzio mentre andiamo verso l’hotel. Sembra quasi sapere quello che è appena successo, senza che gli fosse stato riferito. La corsa in taxi dura circa dieci minuti e mi rendo conto che il fascista di prima mi aveva portata in giro in tondo. Do altri dieci euro al tassista, la tassa dell’idiota mi dico. Il tassista, come a sottolineare che non tutti i romani suoi concittadini sono malvagi, mi restituisce con cura il resto.
Se quella fosse stata la sola brutta avventura con i tassisti romani, l’avrei considerata un caso isolato. Ma successe ancora, per ben due volte. Pochi giorni dopo mi sarei ritrovata a girare allegramente in tondo con un altro tassista e a trascinare le mie valigie per trecento metri per una strada affollata dopo aver sganciato dieci euro per il privilegio di essere stata fregata. La terza e ultima volta mi feci accompagnare in aeroporto da un minibus guidato da un uomo così arrabbiato e violento che arrivai a chiedermi se avrei mai raggiunto viva l’aeroporto. La sua rabbia era così estrema che lui sembrava una caricatura di un brutto film. Era furioso e aveva gli occhi fuori dalle orbite. Era così arrabbiato per il fatto di dovermi portare in aeroporto che si dimentica di prendermi i soldi della corsa. Glielo ricordo mentre fa manovra per andarsene e si gira, quasi mi ringhia e poi mi strappa i soldi di mano come se non potesse credere che l’ho richiamato per pagarlo, poi se ne va. Mentre lo guardo andarsene, mi rendo conto che non sono mai stata così felice di lasciare una città.
Ma non si è trattato solo dei tassisti e di venditori ambulanti. Il portiere dell’Hotel des Artistes, la cui allegra lobby era piena di giovani turisti spagnoli e alcuni giapponesi armati di macchine fotografiche, mi dà un’occhiata e poi mi sistema in un edificio abbandonato con un cancello di ferro cigolante. Al piano terra ci sono dei letti a castello. È completamente vuoto, a parte me. Mi sembra di essere negli anni Settanta e io sono la nera che non può entrare nei locali per i bianchi. Mi dicono che l’edificio principale è pieno. Non ci credo. È chiaro che si tratta della prigione dove mettono gli indesiderati anche se questi pagano lo stesso prezzo dei desiderati.
Questo edificio diventerà il set di un altra tragedia romana, che poi ti racconterò, caro lettore, anche se stenterai a crederci. Quasi non ci credo neanche io che mi sia successo per davvero. Quest’esperienza surreale è impressa a chiare lettere nella mia memoria e la stranezza dell’accadimento è intensificata dalla luce gelida di una notte di dicembre a Roma.
Il giorno dopo il mio incontro con il tassista fascista, vengo invitata a un pranzo di famiglia con l’amichevole coppia del Midwest. Hanno un cugino americano che vive a Roma. Ovviamente racconto loro del tassista. Capisco che sia difficile credere alla mia storia adesso che la gliela ripeto o forse nelle loro menti di americani ligi alla legge pensano che ci sia stato un errore anche da parte loro e quindi cercano di minimizzare l’accaduto. In ogni modo, ho l’impressione di aver gonfiato la storia più del necessario. Il racconto viene ripetuto in serata ai nostri ospiti.
La cugina degli americani, che chiamerò Cynthia, e suo marito italiano, che chiamerò Marco, esprimono solidarietà. I tassisti romani sono della peggior specie. Anche Marco è d’accordo. Entriamo nel piccolo appartamento, ovviamente pieno dei colori italiani, mais, peperoncini e verdure. Scherziamo e ridiamo bevendo vino. C’è anche la figlia più giovane, una ragazza sui vent’anni. Mi sembra di aver riacquistato una parvenza di normalità.
Tuttavia gli eventi prendono una piega strana, quasi bizzarra, direi. Per cena arriva un tizio americano. Nel corso della serata diventa chiaro che questo americano è un amico “di famiglia”, che ha una tale confidenza che può permettersi di dare ordini a Marco e dirgli che deve fare a casa sua. È amico e compagno di Cynthia e con lei ne condivide la cultura molto di più di quello che potrebbe fare Marco. L’americano è ironico, intelligente e divertente. Fa ridere tutti. Va d’accordo con la figlia più piccola. Mi sembra evidente che tra Cynthia e il suo amico di famiglia c’è più di un’amicizia. Addirittura ho quasi l’impressione che loro due siano la coppia sposata e Marco, che si nasconde in cucina, sia un’entità estranea, che si è unita per sbaglio durante il tragitto.
Successero ancora due cose che forse scatenarono ciò che accadde dopo. Chiesi a Marco se conoscesse qualche vecchia canzone italiana. Si mise a spulciare con entusiasmo nella sua raccolta di canzoni sul computer per farmi un cd di musica italiana. Buona notte, buona notte, amore mio… Abbiamo gettato un’occhiata al suo computer mentre era al lavoro e aperta sul desktop c’era una sfilza di siti pornografici. Forse quest’uomo passa il tempo navigando per i siti porno per dissipare la frustrazione del suo matrimonio, mi chiedo. Mentre quest’idea mi passa per la testa e mi allontano dallo schermo del computer per concedergli almeno la dignità della privacy, lui chiude a casaccio le finestre aperte. Ma sa benissimo che siamo riusciti a vedere il suo mondo privato anche se solo di sfuggita. Forse questo ha alimentato ciò che è venuto dopo. O forse il fatto che dopo cena ci mettiamo a vedere un filmato in 16 mm fatto dalla madre di Cynthia che racconta di un avvenimento speciale della sua vita cioè quando suo marito decise di portare lei e i suoi cinque figli a fare il giro del mondo, anche se avevano pochissimi soldi. La storia era meravigliosa e quasi magica. Sembrava di poter entrare in contatto e condividere una storia familiare molto importante per Cynthia. L’amico americano era incantato ad ascoltare. Marco sembrava non comprendere la voce dell’anziana signora del film. Se ne stava in disparte, armeggiando in cucina. Mi chiedevo come gestiva queste esclusioni culturali. Persino io, nepalese che aveva studiato negli Stati Uniti, capivo e mi godevo la storia come lui non sarebbe mai riuscito a fare. Forse questa è stata l’altra benzina che ha alimentato l’incendio romano che sarebbe seguito.
Marco ci ha riportato in macchina ai rispettivi alberghi. Gli chiesi che mi lasciasse per prima, memore della precedente esperienza. “Qual è l’indirizzo del tuo albergo, tesoro?” mi chiese la mia amica americana. Aveva maniere materne e gentili, ma in un certo modo era ingenua riguardo al mondo che la circondava. L’intuito mi ammonì di stare in guardia. Non dovevo dire dove si trovava il mio hotel. L’ultima cosa che volevo era rivelare che mi trovavo da sola in una prigione sotterranea di un edificio abbandonato all’ “Hotel degli artisti truffatori”, come lo avevo rinominato. Dissi che non mi ricordavo il numero civico, solo il nome della strada. Lasciami pure all’angolo, dissi con aria indifferente.
Ma l’angolo della strada non era abbastanza sicuro. A mezzanotte, mentre stavo per addormentarmi, un rumore che mi fece sussultare e il mio cuore cominciò a battere all’impazzata.
“Tornatene in America, troia! Maledetta troia, troia, troia!” urlava una voce. “Tornatene in America!”. Mi svegliai completamente. Qualcuno correva infuriato su e giù in strada fuori dalla mia finestra. La voce era quella di un uomo e quest’uomo era ubriaco. Guardai la finestra e mi resi conto che si trovava al livello della strada. A separarmi da lui c’era solo una grata e un vetro sottile. Se si accorgeva che mi trovavo lì dentro, ero sicura che avrebbe rotto il vetro con un calcio. Me lo immaginavo con i suoi stivali mentre camminava a passi pesanti su e giù per la strada. Nel dormiveglia la sua voce mi sembrava minacciosa. Trattenni il respiro. Se mi giravo nel letto scricchiolante, si sarebbe accorto che ero a pochi passi da lui. Mi sentivo esposta, un animaletto raggomitolato nella sua gabbia allo zoo che cerca rifugio dagli umani malvagi. Poteva rompere il vetro, gettare un fiammifero nella mia stanza e io sarei morta avvolta nelle fiamme. L’edifico era vuoto, non potevo chiamare nessuno in aiuto. Se avessi cercato di scappare, sarei finita strangolata e lasciata a morire per strada. Nessuno sarebbe venuto ad aiutarmi. La paura che mi faceva battere il cuore non era per la rabbia e il disprezzo che sentivo nella sua voce quanto all’idea di sentirmi insolitamente vulnerabile per essere stata tradita da qualcuno che sembrava amichevole e normale.
I miei amici americani, una volta riferito loro dell’incidente dopo aver tastato il terreno (avevo paura per Cynthia, sposata con quel maniaco) si rifiutarono di credere che Marco fosse implicato nella vicenda. Risero. Sei sicura fosse la sua voce? L’hai sentito davvero? Era lui? Dici che la voce aveva un accento… Mi fecero così tante domande che iniziai a dubitare di me stessa. Forse si trattava di un incidente casuale. Forse qualche individuo che ce l’aveva con un’americana, ha deciso la stessa notte in cui io ho partecipato a una cena alquanto strana, di correre su e giù nella strada accanto a dove dormivo io, urlando e imprecando quasi fino a strozzarsi. Quelle incredibili coincidenze possono capitare. Ma io dubitavo. La mia paura era più per Cynthia. Percepivo che la voce incredibilmente isterica che chiedeva alla donna di tornare nel suo paese fosse non tanto per me, ma più per lei.
> I miei amici americani ridevano. Dicevano che Marco adorava Cynthia. Non le sarebbe mai successo nulla, nessun episodio di violenza tale per cui sarebbe stata rinvenuta nella spazzatura con la testa chiusa in una busta di plastica.
In seguito mi chiesi se non fosse vero. La maniera passiva-aggressiva in cui aveva placato la sua rabbia, cioè riversandola su una completa sconosciuta era appropriata per un uomo che non si sarebbe mai sfogato con il vero motivo del suo malessere. E conclusi che, in sostanza era quello che non andava in Italia. La gente era arrabbiata ma sfogava la rabbia sulle persone sbagliate, non su quelle che davvero li facevano soffrire. L’economia stagnava, il paese era governato da una mafia corrotta, aveva uno dei più alti tassi di disoccupazione in Europa, ma invece di cacciare a calci Berlusconi e i suoi scagnozzi, se la prendevano con i bengalesi intraprendenti e le ingenue turiste nepalesi.
Questa saga di strane mutazioni che vedeva persone amichevoli trasformarsi in terribili mostri non si fermò qui. La mia amica Maria, anarchica, amante delle percussioni africane e un’attivista nelle marce di protesta, mi invitò a stare da lei in casa di sua sorella a Roma. Maria era una delle mie migliori amiche a New York. Non pensavo potesse trasformarsi in un mostro. Presi il treno da Firenze solo per vederla. Cenammo insieme e poi guardammo un film. Il giorno dopo mi chiese di andarmene, sotto la pioggia battente e con tre valigie a carico. Era disoccupata da alcuni mesi e viveva con il suo ragazzo in un minuscolo appartamento. Avevamo parlato dei registi e degli studiosi che avevo incontrato in Italia, di come era stato divertente il programma di scambio a cui avevo partecipato. Avevamo vissuto delle vite differenti. Percepivo del rancore per motivi economici. Proibì al suo ragazzo di aiutarmi con le valigie fino alla stazione della metropolitana che si trovava ad alcune strade di distanza, un percorso a me sconosciuto. Riuscii a trovare la stazione, trascinandomi dietro le valigie per alcune rampe di scale, m’infilai in un treno e quando scesi, mi ritrovai bloccata nel bel mezzo di una massa di persone che aspettava che l’ascensore disastrato riprendesse la sua scalata alpina. Fu allora che giurai che dell’Italia ne avevo abbastanza.

In una giornata memorabile, ho camminato per tutta Roma, imbattendomi con facilità intuitiva in tutti i suoi monumenti, come se stessi seguendo un percorso consunto che migliaia di visitatori avevano fatto prima di me. Non avevo bisogno di una cartina. Mi sapevo districare nella città, andando dal Pantheon alla Fontana di Trevi, dalla Cattedrale di San Pietro al Colosseo quasi senza sforzo. Fu così che trovai la famosa Fontana di Trevi, mentre vagavo per un vicolo, mi è apparsa davanti. È come se avessi stampata nella memoria una specie di mappa che mi aveva raccontato tutto di Roma prima che questa potesse raccontarsi da sola. Non avevo dubbi che in una mia precedente vita ero vissuta qui, forse ero uno sfortunato schiavo che impegnato nella costruzione di questi giganteschi monumenti era rimasto schiacciato dal peso delle enormi pietre, forse un valoroso lottatore che combatteva contro i leoni nel Colosseo.
Un ambulante del Bangladesh mi disse che dovevo gettarmi una monetina dietro le spalle nella fontana con le gloriose statue. In quel grigio giorno di dicembre, l’acqua della fontana era blu cielo. C’erano un paio di strani personaggi lì intorno, un vecchio truccato da clown, due strambi gemelli. Mi girai e gettai la monetina. “Così tornerai a Roma,” disse con il suo pesante accento bengalese. Ero inorridita. Pensavo di averla gettata per avere buona sorte. Stavo per girarmi e entrare nella fontana per cercare la mia monetina. Due settimane a Roma mi avevano convinto che la prossima volta che avrei sentito il bisogno di esplorare una civiltà antica, sarei andata in Tailandia.
L’aspetto economico di una vacanza italiana non aveva davvero senso. Il mio entusiasmo nel voler comprare oggetti italiani, maschere veneziane, gonne di lana verdi e arancio, braccialetti di vetro di Murano, era puntualmente accolto da forte e pungente ostilità. In seguito avrei scoperto che quei braccialetti di perle di vetro erano prodotti adesso a Taiwan che potrebbe essere il motivo della reazione inaspettata e quasi violenta dei venditori. Una straniera del Nepal spende qualche migliaio di euro per venire a Roma a comprarsi un gingillo di vetro fatto a Taiwan, forse da manovali immigrati e la trattano con zero rispetto per il cliente. Non aveva davvero senso. Ne ebbe ancor meno quando vidi lo stesso gingillo in un vicolo a Varanasi venduto a secchiate a un ventesimo del prezzo che lo avevo pagato a Roma.

~

Roma non è stata fatta in un giorno e ci vuole più di un giorno per vederla tutta. Ho passato due settimane in giro per la città. Come non potevo amare i monumenti del suo passato splendore che si stavano sbriciolando, le antiche facciate di edifici vecchi di migliaia di anni, i romani che comparivano dal nulla da dietro piccole porte? Roma era, agli occhi di una buddista, un memento a quanto sia futile e inutile attaccarsi alle opere della civiltà umana, perché tutto un giorno deve andare in rovina.
E in quello specchio rosso di Roma, l’ho visto finalmente –il mondo che stava finendo.
La città era in subbuglio per lo shopping natalizio. La gente frugava smaniosa tra le bancarelle, c’erano così tante cose che mi chiedevo se tutte le fabbriche in Cina non fossero state saccheggiate per riempire in negozi in Italia. Quante centinaia di prigionieri cinesi incatenati e non pagati avevano lavorato notte e giorno per imitare le arti decorative italiane finché ogni singolo sacro oggetto non potesse essere comprato per meno di dieci euro sulle bancarelle? Lingerie rossa era dovunque posassi lo sguardo. Così come Brad Pitt and Angelina Jolie che facevano la pubblicità al loro film Mr. and Mrs. Smith. C’erano state delle piogge fuori stagione e molti siti antichi erano stati inondati o portati via dalla pioggia. Riscaldamento globale o ricorrenti cambiamenti del tempo che si verificano nell’arco di millenni? I romani con cui ho parlato preferivano pensare che si trattasse di fenomeni geologici, un ciclo di modelli metrologici che si verificava più volte nel corso dei millenni. Le attività dell’umanità, sostenevano fermamente, non avevano nessun legame con i cambiamenti climatici. Il mondo, era ormai chiaro, stava per finire in maniera apocalittica. E tutto quello a cui pensava la gente era fare acquisti. E andare al cinema. Il rumore dei traffici era assordante ma io riuscivo ancora a sentire l’intero mondo che bruciava.
Gli americani, specie i bianchi, s’infuriavano quando ascoltavano le mie esperienze. Ma l’Italia non è meravigliosa? chiedevano. Sembrava che tutti avessero fatto un’esperienza alla “Eat, Pray, Love”. Erano sconcertati quando raccontavo esaurientemente della mia paura delle tigri e dei circhi.

~

Avevo finito la zuppa. Il nano mi porta il conto. Papà, con un coltello in mano, si asciuga una mano sul grembiule, mi viene incontro e mi dà un cartoncino colorato mentre sto per uscire. Il suo sorriso stanco cancella i miei sospetti, come la zuppa aveva cancellato il freddo. Come possono i romani con una zuppa così buona gettarmi ai leoni o tirarmi i coltelli? Mi vergogno del mio giudizio affrettato. Il campanello suona mentre esco.
Sono decisa a tornare in quella trattoria e mangiare un’altra zuppa prima di lasciare l’Italia. Ma poi in qualche modo Firenze è venuta dopo Venezia, Capri dopo Napoli, una pizza cattiva in un bistro da turisti ha fatto seguito a una pasta cattiva in un surriscaldato caffè all’aperto e non sono riuscita a tornare per la zuppa. Poco prima del mio volo per tornare a casa, cerco quella strada, poco lontano da Termini, girovagando per le strade, il ricordo del cibo italiano come dovrebbe essere mi riscalda le ossa gelide. Per qualche motivo quel posto non riesco più a trovarlo.

traduzione Caterina Monti

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Anno 7, Numero 28
June 2010

 

 

 

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