Nota biografica | Versione lettura |
Arancia, quando andò sottoterra, indossava un completo originale highway to heaven. Era una maglia con una macchina che spuntava dal basso e un accenno di strada che portava a una nuvoletta azzurra il cui contorno era la scritta highway to heaven. Quella era stata la prima cosa. Poi i pantaloni, poi le scarpe, i cappelli e anche la biancheria intima.
Autostrada per il paradiso, un bel nome che le aveva portato fortuna. Ma a pensarci bene quale fortuna? Soldi certo, successo in qualche modo, amore zero, amici meno di zero, salute meno dodici, quanti erano i mesi che le restavano da vivere. Aveva un tumore al cervello e nessuna benedetta speranza. Tra poco avrebbe visto intorno a sé la gente che si preparava ad archiviarla. Sai quando hai quella sensazione come se intorno a te si stesse creando un distacco? Doloroso, lacerante, certo. Pianti e lacrime, ma in fin dei conti nessuno è insostituibile, non è vero?
“Signora Storti, come si sente?” le chiese il neurologo.
“Come uno che ha un anno di vita.” Ma come si sente uno che ha un anno di vita? Non lo sapeva bene, perché non sentiva niente, se non un mal di testa localizzato sulla fronte, che le era venuto non per la malattia, ma per la bottiglia di champagne che si era scolata da sola sul divano la sera prima, tristemente. Aveva aspettato suo marito, ma lui aveva avuto un impegno di lavoro improvviso e lei aveva bevuto da sola. Che assurdo! Era costretta ad aspettare anche per dire al suo compagno (compagno di che non si sa, visto che non c’era mai) che lui non l’avrebbe più trovata a casa al suo ritorno, di lì a poco. Oh, lui si sarebbe dispiaciuto moltissimo, infinitamente. E chissà quanti altri avverbi che allargano gli orizzonti del male sarebbero serviti per esprimere il dolore per la sua assenza. Nella realtà, anche lui si sarebbe organizzato, presto o tardi. I suoi figli erano grandi e avrebbero avuto tanti bei soldi da spendere e una madre che è meglio ricordare che sopportare. Arancia era pesante come un macigno, e lo sapeva bene. Degli amici forse una ci sarebbe rimasta davvero male, ma poi comunque la vita scorre. Pazienza. Non è che uno può non morire di una malattia già diagnosticata per non arrecare sofferenza.
“Non esiti a chiamarmi per qualsiasi problema o domanda. Mi dispiace, signora.” Disse il dottore tenendole le mani.
“Non si preoccupi, sto bene.” Una risposta come un’altra, dentro un sorriso come un altro, senza affetto. Doveva farsi un giro e pensare.
La limitata visione da sopra il cruscotto di solito la aiutava a sdrammatizzare. Non quel giorno, forse.
“Bilancio negativo dentro un bilancio positivo. Inestricabile il fallimento dal successo, come accade. Sto invecchiando e non miglioro in nulla, questo è il fatto. Non ho conosciuto persona ironica che non avesse un lato disperato. Serve per ricreare l’equilibrio dei fluidi mentali, non c’è via d’uscita. Ma io sono mai stata una volta ironica? Ricordo i giorni della disperazione, però senza ironia, che strano.
Ho aspettato tanto non saprei cosa e sono stanca di aspettare. L’immagine più realistica di me è quella di una donna sola in un punto vuoto. Eppure pare che io abbia tutto, che possa definirmi soddisfatta di me. Che dire? Niente. Macerata da questa attesa, non ho più freschezza mentale, salvo scoprire di non averla mai avuta. Non mi sono mai arresa senza aver provato, poiché la resa è fisiologicamente contraria al mio essere. Ho cambiato rotta, deviato. Ma appesa la speranza al chiodo mai. Motivi validi? Più che altro moventi, serviti a perpetrare quel delitto che è una lotta senza nobiltà.
Alla fine la vita ha deciso di appendere al chiodo me. Per tanti anni ho tenuto un diario che mi pareva inutile e invece lo continuavo lo stesso. Pagine della stessa trama delle mie maglie, della mia esistenza, in un tutto indirizzato per una strada senza motivo, diritta solo alla vista, ma in realtà un groviglio sciocco. Penso alle parole, ciascuna distanziata dall’altra da uno spazio, proprio come il tratteggio di mezzeria della mia griffe, che altro non è che un’autostrada spezzata di linee spezzate. Tutto si compie, adesso. Ciò che ho scritto senza sapere perché prende un senso. Era la descrizione della mia eredità. A saperlo, che ciascuno ogni giorno stila paragrafi del proprio testamento. A saperlo bene davvero, consciamente e ogni istante, e non come lo si sa di solito, solo in quella parte rimossa e lontana di sé che conosce la fine.
Quello che mi angoscia è che il mio agire, tutto nel suo insieme, tolto il denaro e il successo, si risolva oggi in una misera postilla di questo testamento in movimento - ma non troppo - che è la vita.
Se questa autostrada per il paradiso esistesse, tutto potrebbe acquistare una qualche forma di prospettiva. Sarebbe - credo - come l’ho immaginata quella volta sulla prima maglietta: cortissima, che porta pochi centimetri più in alto e nulla più. Non aspetto più nessuno, amore morte o chi per essi o che questo male prenda la sua maligna forma definitiva: questo è finalmente l’unico punto fermo che ho raggiunto.
Ci sono persone che aprono strade che non percorrono. Le osservano nel loro svolgersi lontano, plastiche, senza desiderio di plasmarle. Li ammiro, benché io non sia così. No, non io. Io voglio dominarla, la corsia che ho immaginato. Breve o lungo che sia il tragitto, la macchina va inforcata e quel moncone di asfalto affrontato. L’esito? Andare incontro all’uscita. Cos’è? Spero in quel punto di avere ancora la vista.
Arancia morì schiantandosi contro una nuvola.