Nota biografica | Versione lettura |
Il vento si era calmato e il fragore del mare ora si percepiva attutito. L’erba attorno ai sassi, ingiallita dall’estate, ondeggiava appena. I tre uomini scrutavano l’orizzonte senza dire niente. Il fumo delle sigarette confondeva i loro visi mentre se ne stavano accovacciati alla maniera turca, appoggiati sulle caviglie. “Speriamo che il mare si calmi davvero. Così finalmente si parte e si va via da qui.”
A parlare era stato Mark, quarantacinque anni, di Scutari. Il viso cotto dal sole, la barba di qualche giorno e mani callose di chi aveva lavorato la terra fino al giorno prima. Ci fu ancora silenzio. Gli altri due uomini erano cugini, venivano dalle parti di Elbasan. Il più giovane, Toni, aveva ventitré anni, i capelli ben curati, taglio moderno, addosso un giubbino di pelle nera. Le mani lisce e pulite. Poco lavoro sulle spalle. L’altro, Lazarin, andava per i trent’anni, carnagione scura, sguardo pensoso, una fede al dito. Mani sporche di officina.
I tre uomini si erano conosciuti quattro giorni prima, quando il mediatore li aveva fatti incontrare in un bar accanto ad un autolavaggio di periferia. “Questi due ragazzi saranno tuoi compagni di viaggio” aveva detto a Mark il mediatore, un uomo sui quaranta, ben vestito e profumato, gentile nei modi, con un grosso anello d’oro all’anulare destro. “Sono dei bravi ragazzi, e conto su voi tre – nel dire questo fece un gesto un po’ plateale con la mano sinistra indicando i tre uomini - qualora dovesse sorgere qualche problema durante il viaggio. Siamo d’accordo? - soppesò le parole - Voi tre pagate la metà ma mi controllate la situazione, perché non voglio casini. Loro amano fare un lavoro pulito, senza problemi. Sono dei professionisti, e perciò hanno bisogno di persone fidate e affidabili…” I tre uomini annuirono. L’accordo si poteva fare e in un silenzioso brindisi suggellarono il patto, buttando giù la rakja versata dal mediatore nei piccoli bicchieri di vetro. Il macchinario dell’autolavaggio situato di fronte al bar ronzava mentre un ragazzino si dava da fare nel lucidare una Mercedes rubata chissà dove. Questo accadeva quattro giorni prima. Poi il viaggio era stato rimandato a causa del maltempo.
Erano quattro giorni che aspettavano in quelle vecchie case in riva al mare. Insieme a loro avrebbero fatto il viaggio un’altra ventina di persone. “Perché avete deciso di fare il viaggio?” chiese Mark a bassa voce, senza smettere di fumare e di scrutare l’orizzonte. Gli altri due non risposero. Continuarono a fumare pure loro, senza dire niente. Nessuno dei due aveva voglia di raccontare i fatti propri a Mark che in fondo era uno sconosciuto. Tirarono ancora qualche boccata di fumo.
Mark continuò quello che sembrava un dialogo con se stesso. “Io vado via perché al mio paese non c’è lavoro. Ho tre figli, uno è malato di cuore. Spero che il viaggio mi porti fortuna… Qui non c’è futuro. Si può solo andare via… Se resto, l’unica certezza è che fra non molto seppellirò mio figlio… Non ho scelta…”
Il più giovane tra i cugini, Toni, terminò la sigaretta, buttò via il mozzicone e fece uscire dalla bocca una interminabile colonna di fumo. Iniziò a parlare: “Ho degli amici che sono partiti prima di me e quando tornano li vedo ben vestiti, parlano di ragazze, di automobili, hanno il telefonino sempre acceso. Anch’io voglio queste cose. L’unico modo per averle è affrontare il viaggio e provarci. Tanto qui, come dici tu, non cambierà mai niente. I ricchi saranno ricchi e i poveri sempre poveri. Voglio tornare anch’io con le tasche piene di euro e il cellulare che squilla in continuazione…!” “Sei proprio un ragazzino - lo interruppe Lazarin, il cugino maggiore - Vedrai che appena ti sposi tutti questi grilli se ne salteranno via dalla tua testa!” e si mise a ridere. “La tua donna vorrà i tuoi soldi per comperarsi abiti nuovi e poi mandare i figli a scuola, altro che automobili e telefonini!” Tutti e tre risero.
“E gli altri? Li avete visti?” chiese Mark. Si riferiva agli altri compagni di viaggio, a quelli che da tre giorni erano chiusi nella vecchia casa dietro le dune e che attendevano anche loro di partire. “Io ne ho visti alcuni. C’è una famiglia con un bambino, una donna incinta, tre zingari, ancora due donne e poi altri che non so. Mi sembrano persone tranquille. Il mediatore mi ha detto che li tengono a dieta per evitare che facciano danni. Con lo stomaco vuoto si ha meno voglia di fare casini.” Seguì una risata roca. A parlare era stato Toni. “Certo, noi facciamo un po’ la figura dei bastardi, degli sbirri – disse Mark - Ma io di soldi non ne avevo più e devo fare il viaggio a tutti i costi.”
Il vento era sempre più debole e il mare più quieto. Si avvicinava la sera. “Anche noi avevamo problemi di soldi. Ma non c’è bisogno di sporcarsi le mani. Anche mio fratello ha fatto così – disse Lazarin – L’importante è tranquillizzare gli altri. E se dovesse andar male quando saremo dall’altra parte, non fare nessun nome…” “Se va proprio male nomi non se ne faranno mai. E’ difficile parlare con in bocca i pesci…” lo interruppe Mark. Lazarin sputò a terra. “Perché dici questo? Hai forse paura?” Era diventato improvvisamente nervoso. “Perché, tu non ne hai? – fece Mark guardandolo dritto negli occhi – Si, io ho paura di finire in pasto ai pesci. Perché se faccio quella fine alla mia famiglia chi ci penserà?” Ci fu silenzio. Lazarin sputò di nuovo in terra. Parlò Toni: “Io spero solo di non dover buttare nessuno in mare…” “Ma siete tutti impazziti?” urlò Lazarin. Era diventato rosso in viso. “Ma volete fare il viaggio e cambiare vita oppure portare solo malaugurio? Anch’io ho una famiglia da campare e voglio arrivare dall’altra parte vivo. Qui ognuno ha i suoi motivi per fare il viaggio. Dobbiamo fare un buon lavoro e tranquillizzare gli altri. Ma se non siamo noi i primi a essere tranquilli non si va da nessuna parte. Perciò parliamo d’altro!” Mark continuò a guardarlo fisso negli occhi. Finì la sua sigaretta e poi la gettò via.
Restarono in silenzio. Toni nel vedere il cugino così inquieto aveva perduto la sua altezzosità. Non sapeva cosa fare, ma si sentiva in dovere di dire qualcosa. “Vedrete, andrà tutto bene…” disse alla fine con voce nervosa. Gli altri due lo guardarono. “Si, andrà tutto bene…” gli fece eco Mark e osservò il mare che in lontananza andava sempre più acquietandosi. Lazarin parve calmarsi pure lui. “Andrà come deve andare. Ma ripeto: noi dobbiamo stare tranquilli perché tutto vada bene.” Fece una pausa. “Forse stanotte è la notte buona. Il vento si è calmato, il mare non ha più onde, speriamo che col buio se ne stiano tutti buoni buoni. Anche i poliziotti, anche i pesci. Non dobbiamo disperare perché siamo già dei disperati. E sperare invece nella buona sorte…”
Per i giornali italiani erano i soliti, per qualcuno poveri, extracomunitari in mano a scafisti senza scrupoli, che volevano entrare clandestini sfidando la sorte e le leggi. Per la stampa albanese erano emigranti alla ricerca di un lavoro onesto, disposti a tutto per aiutare la propria famiglia a sopravvivere.
Nessuno seppe mai quanti furono i morti. E quanti tra i morti i bambini. A lungo piansero le madri, le vedove e le donne ogni volta che guardavano quel maledetto mare.