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i guardiani di kafar nabo

yousef wakkas

Tanti anni fa, quando i ruscelli scorrevano ancora limpidi come gocce di cristallo, Kafar Nabo, che è attualmente un piccolo villaggio nel nord della Siria, era un centro importante nell’Impero degli Assiri, con templi imponenti, mercati coperti e strade lastricate. Di abitanti ne contava centoventi mila, alcuni di essi praticavano l’agricoltura, coltivando grano, orzo, olivi, vigne e fichi, e altri, una casta scelta e ben radicata nel mestiere, erano abili mercanti il cui commercio copriva tutta la Mesopotamia, la Persia e i regni degli Ittiti più a nord. Si narra anche che tanti di loro affittavano navi dai Fenici per portare le loro merci fino all’Egitto, a Creta e ad Atene. La città, visto che era ricca e piena di tesori rari, era custodita da valorosi guardiani ciascuno dei quali dotato di un cavallo di razza e di un lupo che, di norma regale, portava lo stesso nome del guardiano.

Uno di questi guardiani che si chiamava Nabostar, un giorno, mentre riposava sotto le mura che circondavano Kafar Nabo, nella parte sud-ovest assieme al lupo e al suo cavallo Merdikh Namar, udì forti schiamazzi di galline, seguiti da calpestii che facevano tremare la terra. L’uomo Napostar disse che era un terremoto, visto che le galline ne avevano anticipato l’arrivo, mentre il lupo Napostar sostenne che si trattava di imponenti orde che stavano avanzando per attaccare la città e quindi bisognava avvisare il comandante generale. L’uomo Nabostar rifiutò di farlo e tra i due scoppiò una lite tremenda. A questo punto, intervenne il cavallo dicendo:
“Ragazzi, ragioniamoci su! Secondo me non si tratta né dell’uno né dell’altro, perché bisogna attenersi agli effetti, e qui non abbiamo né mura crollate, né polvere che copre l’orizzonte!”.
Le anime si calmarono, ma il cavallo capì che era arrivata l’ora della resa dei conti. Dentro di sé sperava che vincesse l’uomo, ma era anche cosciente che da li a poco, avrebbe dovuto chinare la testa al lupo, eseguendo i suoi ordini con: “Sissignore! …. Agli ordini Signore!”
La lotta fu dura, non per la palese superiorità del lupo, né per la resistenza disperata dell’uomo, ma per l’atmosfera grave che regnò sull’intero paesaggio. In mezzo, c’era quel filo sottile che legava entrambe le parti e non si spezzava facilmente. A un certo punto, mentre gli echi dei colpi rimbombavano nella valle, strisciando poi sulle pareti rocciose come rettili infuriati, spuntò dall’altra parte della valle l’avanguardia degli invasori, sprigionando grida e incitamenti agghiaccianti. Il lupo, senza attendere un attimo, salì su uno spuntone e diede l’allarme con ululati mai sentiti prima d’allora in quelle parti, e l’uomo, che era un po’ sorpreso, tuttavia senza perdere la sua compostezza, montò il cavallo e si lanciò contro i nemici come se avesse dietro di sé dieci battaglioni di cavalieri. Andava come il vento, perché, se i nemici avessero conquistato la torre madre, quella che sovrastava le tre colline, sarebbe stato difficile fermarli. Per questo, puntò dritto su quello che portava il vessillo, e con un colpo secco, lo buttò giù da cavallo, ma gli altri, che erano inferociti, non gli diedero neanche il tempo per girarsi, trafiggendo il suo corpo con sette lance e quattro spade. Nel frattempo, i primi soccorritori erano giunti sulla cima della collina, e vedendo quella scena, si buttarono giù come una frana inarrestabile. La battaglia, che alla fine fu battezzata come “La madre di tutte le battaglie”, durò quattro giorni e cinque notti, e all’alba del sesto giorno, quando le donne tiravano fuori le prime fornate dal tannur1, il capo degli invasori s’arrese con gli ultimi soldati che gli erano rimasti accanto, perché tanti di loro, erano già scappati via.

Dopo i tre giorni di festeggiamenti per la vittoria ottenuta sui nemici, il re, spinto dalla sua corte, chiamò in causa il lupo. I fatti raccontati dal cavallo in seguito, suscitarono stupore e scalpore tra la gente che non tardò a chiedere giustizia. In verità tanti di loro, più che giustizia, chiedevano vendetta. Per questo motivo, il lupo fu rinchiuso in un posto sicuro in attesa di costituire la corte.
Alla fine di aperti scontri tra gli uomini della corte, il re nominò un collegio composto da due saggi, due consiglieri e un contadino che era famoso per la sua dialettica. Difatti, inventava proverbi che erano sulla bocca di tutti, ed era dotato di un’incredibile capacità di convincimento, al punto che, come diceva la gente, era capace di convincere un serpente di uscire dalla sua tana.
Di buon mattino, quando il sole era ancora dietro i cespugli dello sciacallo storpio, il re diede il segnale con un accenno appena percepibile per aprire l’udienza e le guardie spalancarono il portone del palazzo, dal quale entrò un fiume di gente. La corte attese finché non diminuì il baccano; poi, il presidente ordinò ai custodi del carcere di fare entrare l’imputato. Il lupo, forse spaventato dalla folla, ringhiò e il contadino non perse l’occasione per commentare: “Il lupo perde il pelo ma non il vizio!”. La gente si lasciò andare a risate allegre. Il presidente picchiò il tavolo con un martello di legno, richiamando i presenti all’ordine. Ogni spettatore diede una gomitata al vicino come se fosse la causa del disordine.
Siccome all’epoca le figure della pubblica accusa e del difensore non erano ancora conosciute, almeno presso gli Assiri, il presidente, in qualità di inquisitore e giudicante, incominciò ad interrogare l’imputato.
“Imputato! Lei si dichiara innocente o colpevole?”, chiese il presidente con un tono cosi severo che il lupo si dichiarò immediatamente colpevole, anche se, in seguito, si venne a sapere che, in realtà, voleva dichiararsi innocente, ma “inutile piangere sul latte versato!”, commentò sarcasticamente il contadino.
“Bene! – la smorfia del presidente scosse i cuori più deboli – questo potrebbe aiutarla a diminuire la condanna”.
“Tagliamogli la coda!”, gridò uno dalle ultime file.
“Zitti! – replicò il presidente – dunque, quale era la causa del litigio scoppiato tra lei e Napostar, pace all’anima sua?”.
“Signor presidente, non si trattava di litigio, bensì di una divergenza nel compiere il proprio dovere”.
“Bugiardo!”, esclamò una vecchietta.
“Zitti! – gridò il presidente. Poi, chiese al lupo – E com’è nata questa divergenza?”.
“Nata dalla divisione dei compiti tra ….”, il lupo si fermò e abbassò la testa in segno di vergogna. Anche se quello che voleva dire, era di pubblico dominio, non trovò il coraggio di pronunciarlo. Ci pensò uno spettatore:
“Tra anima buona e anima cattiva … dillo … fatti sentire! ...”.
“Guardie! – esclamò il presidente arrabbiatissimo – cacciate via questo uomo … non voglio disordine nella mia aula!”.
Al re non piacque l’ultima frase, quella era la sua corte, e non l’aula di quel saggio vanitoso. Intanto, le guardie trascinarono il disturbatore fuori tra commenti e disapprovazione dei presenti.
“Allora, imputato! – continuò il presidente con vigore esagerato – cosa stava dicendo?”.
“Dicevo che la divergenza era nata dalla divisione dei compiti stabiliti da parte di Sua Maestà nell’anno della grande neve”.
“Capisco, ma le norme regali non possono essere questione di divergenza?”.
“È vero – annuì il lupo – ma in mezzo c’era l’esistenza del regno e io non potevo restare indifferente”.
La gente incominciò a emettere voci e commenti di disprezzo nei confronti del lupo. Il presidente li fece azzittire con un colpo secco di martello che fece sussultare il re sul suo trono.
“Dunque, ha aggredito Napostar, perché non voleva avvisare il comandante generale?”.
“Appunto”
Il cavallo che stava vicino alla porta emise un nitrito acuto.
“Chi è questo che nitrisce?”, chiese il presidente.
“Il cavallo Mardikh Namar, signor presidente”, rispose l’usciere con enfasi.
“Fatelo entrare”.
Il cavallo Mardikh Namar fu portato dinnanzi alla corte, il re si schiarì la gola e spalancò gli occhi: la sua pazienza si stava esaurendo.
“Ha qualcosa da dire?”, chiese il presidente, fissando bene i suoi occhi mansueti.
“Sissignore”, rispose il cavallo con voce timida.
“Prego, stiamo ascoltando”
Il cavallo esitò un attimo, poi, disse:
“Il lupo ha ragione …”.
“Uuuuuh! Oooooh! …”.
“Silenzio! Lasciate che il testimone racconti la sua versione. Prego!”.
“Dicevo che il lupo aveva ragione”
“Perché?”.
“Perché la norma che stabilisce il rapporto tra le anime buone e le anime cattive è chiarissima”.
“Cioè?”.
“Cioè, in caso di disaccordo, si dà ragione all’anima cattiva calcolando il peggio”
Il presidente consultò gli altri membri della corte, poi disse:
“Chi sosteneva il peggio?”
“Il lupo ovviamente”, replicò il cavallo con un lieve sorriso.
“Ah! – esclamò il presidente – perché?”.
“Perché questo è il suo compito”, rispose il cavallo con tono scontato, e a dire il vero anche un po’ sarcastico.
“È vero … è vero …”, approvò il presidente, poi, disse con voce bassa ai membri della corte:
“Temo che dobbiamo assolvere il lupo”
Le facce dei membri assunsero diverse espressioni, ma nell’insieme costituivano un gran “ No … non possiamo farlo”, tranne il contadino che disse ad alta voce: “Perché non possiamo farlo?”
“Cosa non potete fare, fatecelo sapere …”, esclamarono dalla prima fila. Il re era d’accordo con loro e mormorò al suo consigliere personale: “Cosa che non possono fare?”.
“Ribaltare il Suo trono, Maestà”.
“Certo … certo, questo non possono farlo … io sono il re”.
“Si, Maestà, lo sanno … è inammissibile”.
“La corte ha deciso di ritirarsi in camera di consiglio”, annunciò il presidente dopo veloci consultazioni con i giudici di fianco. Di nuovo, il lupo fu rinchiuso nella sua cella, custodito a vista da due guardie. Mentre il re, che per il timore di perdere il consenso del suo popolo s’era mescolandosi con la gente, ripetendo il loro slogan:
Tira su … tira giù
Un’anima non più!
Ma nonostante ciò, la corte fu irreversibile nel pronunciare la sua sentenza a favore del lupo. Fu così che, da quel giorno lontano, la gente di Kafar Nabo dà due nomi ai propri figli, augurandosi sempre che rimangano nel peggio ed evitino il peggiore!

1Il tannur, che e' un forno primitivo fatto con argilla commista di fieno, ha un posto particolare nella tradizione mesopotamica, in particolare modo in Siria e in Libno, in quanto rappresenta le radici dell'elemento piu' essenziale per l'uomo, vale a dire il pane.

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Anno 7, Numero 28
June 2010

 

 

 

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