Nota biografica | Versione lettura |
Gianmarco Gaspari E’ docente di Letteratura Italiana presso l’Università degli Studi dell’Insubria di Varese e Direttore del Centro Nazionale Studi Manzoniani di Milano. Fa parte del Comitato direttivo dell’Università Umanitaria di Milano e del Comitato di selezione dell’Istituto di Formazione per Giornalisti (IFG) e della Commissione Federale Svizzera per l’insegnamento superiore. E’ membro di diversi altri comitati ed è Direttore degli “Annali Manzoniani”. Fa parte del Comitato per l’Edizione Nazionale ed Europea delle opere di Alessandro Manzoni e di quello per l’Edizione Nazionale di Pietro Verri. Organizza mostre, convegni e rassegne teatrali in tutta Italia. Ha al suo attivo diverse pubblicazioni che trattano argomenti che vanno dal Beccaria al Manzoni e da Muratori a Gadda.
Comincio a chiederLe un parere sulla letteratura contemporanea in Italia: mi riferisco al periodo trascorso dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ad oggi.
Per ripetere quello che è ormai un luogo comune, il rapporto con la parola scritta – soprattutto per quelli che dovrebbero essere i lettori per eccellenza, cioè i giovani – è stato rivoluzionato: dai media, dai modelli sociali, dai riferimenti culturali. Un condizionamento non certo in positivo. La letteratura che si produce oggi ha dovuto tenerne conto. Forse ne ha tenuto più conto di quanto avrebbe dovuto: diciamo che si è lasciata condizionare pesantemente da questa situazione. Tra le variabili che hanno avuto maggior influenza, e che sono quelle che pesano di più nel presente, c’è l’invadenza del mezzo televisivo e dei modelli culturali che la televisione ha saputo imporre. Contrariamente a quello che si poteva pensare fino a qualche anno fa, credo sia ormai chiaro che la televisione in Italia non ha assolto a nessuna funzione educativa. Ha contribuito in modo decisivo a imporre una lingua unitaria, certamente. Ma è stato un risultato passivo: la televisione non mirava a quello, è un fatto che si è svolto lungo una direzione che mirava ad altro. Intrattenimento e pubblicità ne sono le direttive principali, la cultura è zavorra, è esclusa, al massimo funziona da riempitivo. Il nostro modello televisivo è quello nordamericano. Questo ha comportato il fatto che intrattenimento e pubblicità, da anni, condizionano pesantemente il mondo giovanile e il suo immaginario. Un dato abbastanza sconfortante, soprattutto perché gli autori di successo degli ultimi anni sono quasi tutti legati a questa funzione e a questa pervasività dell’elemento televisivo. Penso ad autori come Giorgio Faletti, Fabio Volo, Carlo Lucarelli: autori da decine, centinaia di migliaia di copie. Che dalla loro esperienza televisiva hanno ovviamente imparato quanto conti, per vendere, l’esteriorizzazione di temi di forte impatto emotivo. Non per nulla uno dei pochissimi generi letterari che si consumano, e che vendono, è il giallo, l’horror. Lo stesso potrebbe dirsi per il comico: agli antipodi dell’horror, ma altrettanto lontano (forse anche di più) dai valori culturali cui sto facendo riferimento. E non è un caso, appunto, la dilagante presenza di comici televisivi diventati scrittori, con libri a volte “seriali” che riempiono gli scaffali delle librerie. Ecco il punto. Non è la televisione in sé, è il fatto che la letteratura (quella che una volta era la letteratura) arrivava prima: ora quella che ancora si chiama letteratura (in senso ovviamente estensivo) arriva dopo, molto dopo, a rimorchio.
Proprio entrando negli scaffali delle librerie, l’editoria…
L’editoria si è lasciata prendere da questo stato di cose, e non sembra certo volerlo modificare. Anzi. È come se mancassero delle direttive – e questo credo sia pacifico – ma anche dei valori di riferimento. E si capisce come per i giovani le difficoltà stiano soprattutto nell'esigenza, che i giovani di ogni tempo hanno sempre avuto, di mettere a fuoco questi valori. Rimaniamo pure all'anticamera: rispetto alla lettura, è ovvio appunto aspettarsi che i giovani si domandino: ma chi me lo fa fare di leggere qualcosa che mi richiede impegno e attenzione? Ma la domanda può appunto allargarsi: cosa deve leggere un giovane in una società che lo indirizza verso attività in cui il fatto di pensare, di riflettere, servirà a poco o a niente? Ecco. Credo che sia una risposta un po’ evasiva, che però temo inquadri una situazione, sullo sfondo più ampio di un disagio molto forte, di un’epoca soggiogata da modelli negativi, proprio perché così legati a questa spettacolarizzazione, al consumo, al valore immediato, all’effimero, all'assenza di pensiero. La letteratura, che per sua natura richiede l'opposto – l'immaginazione, la distillazione, il tempo, la verifica nel tempo, l'intelligenza – in questo quadro trova, per forza di cose, pochissimo spazio.
Visto il quadro che ci ha prospettato, esiste qualche modello letterario che si colloca al di fuori da quest’analisi?
Come capita sempre, si può pensare che si tratti di una fase. Le fasi di solito durano a lungo, e in un paese come il nostro durano più a lungo che altrove. Già Leopardi diceva che viviamo in un età di transizione, e forse è ancora quello che dobbiamo dire noi oggi. Ora, si potrebbe pensare che l’attuale crisi economica potrebbe aiutarci a trovare un nuovo modo di vedere le cose. Potrebbe rappresentare un utile punto di partenza per una riflessione su argomenti che si leghino meno al consumo immediato, alla quotidianità, e spingere i giovani a essere meno condizionati dal mezzo televisivo. I tempi richiesti da una riflessione sono sempre tempi lunghi, e la lettura richiede un tempo lungo. Se la crisi ci restituisse, almeno in parte, l'idea di quanto valga il tempo, il nostro tempo, ecco che ci aiuterebbe a trovare una via d'uscita. Io credo che una parte di novità, qualcosa insomma di positivo, si stia verificando. Ma è un discorso ormai un po' più specifico, che punta a quelli che, tecnicamente, si chiamano i "generi". Vedo la prosa naturalmente condizionata dai meccanismi che si diceva prima, in maniera determinante. Non mi sembra possa dirsi lo stesso per la poesia. La poesia ha avuto negli ultimi anni un’accelerazione abbastanza importante, anche dal punto di vista dell'interesse del pubblico, diciamo pure della quantità di lettori. C’è un’attenzione crescente alla lettura della poesia, alle performance, che un tempo non c’era, e questo fa sì che si comincino a creare, inaspettatamente, tempi e luoghi d’incontro tra i giovani che chiedono qualcosa alla letteratura. È un pubblico che si sta ancora formando, che cerca valori nuovi, quei valori appunto che la letteratura di consumo non riesce più a esprimere, perché troppo condizionata dal meccanismo del consumo. Lo potremmo dire anche guardando oltre. Mi riferisco proprio a questa antologia, Le parole nel vento, testi migranti pubblicati dalla rivista El-Ghibli. Mi colpisce il fatto che i testi di qualità più alta siano proprio le poesie. Per me è stata una sorpresa, devo dire, ma non si può non interpretare come un segnale confortante. Da qualche parte il nuovo dovrà venire. La poesia si lega a un orizzonte di intuitività in cui prevalgono i sentimenti, l’irrazionale se vogliamo, e stiamo appunto parlando di qualcosa che combatte contro questa realtà economica, pervasiva, che sta affogando i nostri cervelli e le nostre identità. Una riflessione di natura professionale. Mi colpisce anche il fatto che la lingua e la cultura italiane non si siano mai confrontate con uno dei dati più rilevanti degli ultimi decenni, a cui una rivista come El Ghibli ci pone davanti immediatamente. Mi riferisco al rapporto tra culture colonizzate e culture colonizzatrici, e in breve al dibattito sul post colonialismo, vivacissimo negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in India. Al fatto che un paese importante, anche dal punto di vista economico, com’è appunto l'India, veda i suoi scrittori chiedersi quale lingua scegliere per scrivere. Scegliere l’inglese, che è la lingua colonizzatrice, o uno delle tante lingue native, che pure avrà altri innumerevoli lettori potenziali? Ecco, una scelta come questa, che si trasforma evidentemente in una scelta d’identità, in Italia non è mai stata considerata. Ma l'Italia è stata nazione coloniale, e se anche non lo fosse stata qualche problema al proposito lo può benissimo sollevare anche il presente. Il nostro paese legittima ancora l’uso di un italiano, veicolo linguistico standard, che non ha nessuna connotazione nel senso che abbiamo appena detto: meglio, che non sembra averla. Per cui gli esperimenti più interessanti restano quelli fatti negli anni ’60 e ’70, nell’epoca del neorealismo, quando il romanesco di cui si serviva Pasolini aveva un valore ideologico e insieme anche politico, là dove il romanesco d’oggi, che è un dialetto per modo di dire, una caricatura televisiva, è diventato semplicemente un gergo per intrattenere e per far ridere le folle. C’è una complessità, nel mondo, che si trasforma rapidamente in una realtà destinata a sfuggirci, tanto più se rimaniamo arroccati sulle nostre posizioni, sulle nostre logore certezze.
E gli autori stranieri che vivono in Italia e scrivono in italiano?
Dicevo appunto che ho visto con un certo interesse questa antologia: che come tale seleziona già dei valori, e allude di conseguenza alla ricerca di un canone: in questo caso un canone in cui pesano valori come la comunicazione, l’interculturalità, ecc. Si tratta di messaggi complessi, che non valgono mai solo per quello che dicono, ma anche per chi li dice e per come vengono detti. I testi che leggiamo hanno origini etniche, linguistiche, culturali, diversissime. E valgono anche per il fatto che lì stiano insieme. Si tratti di un testo tradotto o di un testo scritto in italiano da chi italiano non è, o lo è diventato: fatti che ci inducono anche a chiederci cosa sia davvero «l’italiano» in un contesto come quello di oggi. Sempre riferendomi a El Ghibli, penso alla rubrica la Stanza degli Ospiti. Non mi era mai venuto in mente che un poeta o uno scrittore potesse essere definito «stanziale». Qui vediamo una delle vie attraverso le quali penetra quella problematica che avevo chiamato prima del postcolonialismo, malgrado le nostre difese e la nostra passività. In un poeta o uno scrittore «stanziale» c'è una dimensione che non possedevamo prima, un modo diverso di vedere le cose, e quindi di concepire noi stessi. Ho letto nella rivista uno splendido testo di Barbara Pumhösel, scrittrice austriaca residente in Italia. Di fatto una migrante. I suoi versi raccontano dell'esclusione, ma non in senso banale: raccontano di come gli «escludenti» siano a loro volta penalizzati dall'esclusione da mondi che non sanno immaginare. Ecco: il fatto che ci sia qualcuno che si radica nella nostra identità – in quel cumulo di contraddizioni che è l'identità italiana – e che al tempo stesso si interroga su che cosa sia l’italianità di oggi (mi scuso per la brutalità del termine), avendo a che fare con un universo così complicato. Non solo perché ci si deve interrogare su che cosa può essere giusto o legittimo o riconoscibile: ma perché ci si deve interrogare proprio su se stessi e sulla propria storia, su come questa storia stia mutando e accelerando. La mancanza d’immaginazione, quella che gli scrittori televisivi vorrebbero imporci, mai come oggi è anche pregiudizio e ignoranza. Un'ignoranza che non aiuta l’integrazione, ovviamente, ma – e questo è il punto che riguarda davvero tutti – non aiuta nemmeno a capire noi stessi.