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intervista a p. carravetta

sabatino annecchiarico

Peter Carravetta è titolare della cattedra Alfonse M. D’Amato per gli Studi Italiani e Italoamericani alla State University of New York, sede di Stony Brook.
Nato a Lappano (CS) nel 1951, è emigrato negli Stati Uniti nel 1963. Dopo un giovanile interesse per le scienze, passò alle materie umanistiche e ottenne il Bachelor’s Degree in inglese dal City College della CUNY nel 1973. Ha studiato all’Università di Bologna nel 1973-74 e a quella di Chicago nel 1975-76, prima di conseguire il PhD in Italiano e Francese alla New York University nel 1983, con una tesi su “I metodi della critica e la prospettiva ermeneutica”. Professore ordinario dal 1992, al Queens College, Carravetta è stato Preside della Facoltà di Lingue e Letterature Europee, dal 1995 al 1999, e Direttore del programma di studi sulla mondializzazione, il World Studies Program, dal 1993 al 1999. Carravetta ha lavorato molto per far conoscere la cultura italiana nel mondo anglosassone. E’ stato ideatore, fondatore e direttore della rivista Differentia, review of italian thought (1986-1999), redatta interamente in inglese (nove fascicoli, oltre 2000 pagine) E’ stato invitato a insegnare e/o tenere seminari su vari aspetti della cultura americana nelle università di Roma/2, Paris/8, e la Complutense di Madrid, e tenere corsi sulla critica italiana al Middlebury College e alla Columbia University.
Autore di oltre ottanta studi e saggi, ha pubblicato:
-- Prefaces to the Diaphora. Rhetorics, Allegory and the Interpretation of Postmodernity (W. Lafayette, Purdue UP, 1991)
-- Il fantasma di Hermes. Saggio su metodo e retorica dell'interpretare (Lecce, Milella 1996)
-- Dei parlanti. Studi e ipotesi su metodo e retorica dell’interpretare (Torino, Marcovalerio 2002)
-- Del postmoderno. Critica e cultura in America all’alba del duemila (Milano, Bompiani, 2009)
ha co-curato le antologie:
-- Postmoderno e letteratura. Visioni e percorsi della critica in America (Milano, Bompiani 1984)
-- Poesaggio. Poeti italiani d’America (Treviso, Pagus 1993)
Traduttore di tre libri, Carravetta è inoltre autore di sei raccolte di poesie, quattro in italiano e due in inglese. Attualmente ha in corso di stampa la riscrittura e ampliamento del suo libro sull’interpretazione, dal titolo The Elusive Hermes. Method, Discourse, and the Critique of Interpretation (Aurora, Colorado, Davies Group Publishing, 2010). Ha in progress un libro sulla critica e la filosofia italiana dal secondo dopoguerra a oggi e un secondo sull’origine dell’emigrazione e del colonialism italiano.

Professore, Lei è un migrante a tutti gli effetti, con tanta esperienza sulle spalle. Si potrebbe dire che fa parte della prima generazione di migranti italiani del secondo dopoguerra. Che somiglianza vede Lei tra quell’emigrazione anni ’50 ’60 con quella attuale?

Di simile c’è il dramma umano, la crisi della famiglia, il distacco dai luoghi sacri al proprio vissuto. Più che altro le somiglianze sono rilevabili a livello psicologico, affettivo, e riguardano la maniera come ognuno vive la propria esperienza migratoria, aspetto non quantificabile, anche se si possono costruire dei modelli tipologici per parlarne, per esempio, sugli stadi di assimilazione. Di certo, in alcuni casi il migrante vive l’esperienza migratoria come un dramma esistenziale che lo segna negativamente per tutta la vita, in altri invece costituisce movente di trasformazioni caratteriali, politici, in certo senso cosmopolitici, spesso progressivi. Ma oltre a ciò, le differenze diventano sostanziali.

In che senso?

Quando sono emigrato nel 1963 il boom economico del secondo dopoguerra non era ancora arrivato in sud Italia, almeno in Calabria. Sei anni dopo uno dei miei insegnanti della scuola elementare arriva a New York in visita turistica. Anche se non si fermava in alberghi, ma da parenti, egli non era più un emigrante, ma un turista. In questo senso la differenza diventa radicale rispetto a quella della mia generazione. Questo insegnante e altri impiegati di stato si potevano permettere un viaggio che fino al ’65 buona parte della gente del meridione, dall’Abruzzo in giù, non se lo sognavano neppure. Alla mia epoca si emigrava per motivi sociali soprattutto legati all’economia, poiché non c’era abbastanza lavoro e via dicendo. Storia che tutti sappiamo.

Che altre differenze ci sono tra i migranti della sua generazione con quella di oggi?

Secondo me sia in Italia, sia negli Stati Uniti, quello che cambia è anzitutto la gente, che oggi è generalmente più istruita di una volta. Poi c’è una maggior incidenza di donne, che ha creato una “femminizazione” dei flussi migratori. Infine, gli stessi viaggi non sono epici come una volta. Io sono stato tra i primi a emigrare in aeroplano. Prima ancora, quando uno emigrava, sembrava che partisse per sempre: tre sorelle e due fratelli di mio padre emigrarono prima della prima guerra mondiale: quando anch’egli emigrò nel 1962, potette riabbracciare solo una sorella, l’unica ancora vivente, dopo 54 anni! Come si vede per esempio nel film “Nuovo Mondo” di Emanuela Crialese, quando uno emigrava era come un funerale. Esiste tutta una casistica, una letteratura infatti, che descrive l’emigrazione classica come se fosse una morte vivente dove le famiglie piombano in lutto, perché c’era ben poco da celebrare. Ecco, fino gli anni ’50 andarsene via diventava una sorta di simbolo biblico, spartiacque cataclismico nella vita. Gli immigrati di oggi, come ho detto prima, sono più istruiti e parlano con cognizione di causa, sanno leggere e scrivere e spesso anche bene, hanno una dimestichezza con i mezzi elettronici e di comunicazione inesistente in passato. E grazie alla disponibilità di tanti mezzi di trasporto, viaggiano con relativa facilità. In ogni caso, come rivelano studi condotti sia in America sia in alcuni paesi europei, una delle caratteristiche del migrante odierno, è che egli è consapevole dei suoi diritti e di quelli di tutti gli altri migranti. Nella mia generazione non ci sarebbe mai venuto in mente di dire, a chi nel paese ospitante mostrasse razzismo o antagonismo, “ma lei discrimina contro di me per il solo fatto che sono un immigrato”, oppure “ma anche io ho il diritto al lavoro e alla tutela della legge ecc.”. Invece oggi, diciamo negli ultimi 20-30 anni, negli Stati Uniti non è proprio così. Gli immigrati fanno subito presente agli interlocutori locali le leggi sui diritti civili, a che tipo di assistenza hanno accesso, che hanno il diritto di organizzarsi, di essere rappresentati politicamente: cose che quarant’anni fa l’immigrato non si sarebbe permesso di profferire in pubblico. Ma in questo senso bisogna dire che di “progresso” se n’è fatto, e che quindi dovrebbe essere più facile trattare del “problema” immigrazione , no?

Partendo dalla sua costatazione che chi emigra oggi è più istruito: la letteratura migrante come si colloca?

La letteratura migrante ci impone di rifare le mappe critico-cognitivo dei canoni nazionali e di ridisegnare come la letteratura si commenta, insegna e diffonde. La letteratura più interessante che si è prodotta negli ultimi vent’anni negli Stati Uniti è quella degli immigrati, quella dei bilingui e trilingui, e quella di coloro che hanno doppia nazionalità o doppia identità culturale – io li chiamo “hyphenated writers,” ossia quelli la cui identificazione richiede, secondo le regole della lingua inglese, il trattino: Latin-American, Italian-American, native-American, Asian-American, ecc., costituendo un aggettivo qualificativo a doppia polarità. Qualcosa di simile sta accadendo da oltre dieci anni con la letteratura migrante in Italia, anche se questa etichetta nasconde o ignora l’origine dello scrittore, e se non sbaglio c’è un dibattito aperto proprio su come nominare questa compagine. In ogni caso, alcuni di questi scrittori sono immigrati quando bambini o giovanissimi, hanno studiato in Italia, e quindi parlano e scrivono correntemente l’italiano. Si sono impadroniti non soltanto della lingua, ma anche del senso storico e sociale dell’italiano. E tuttavia, non sentono necessariamente il “peso” della storia delle tradizioni letterarie e artistiche nazionali come gli altri ragazzi, cui veniva imposta nelle scuole. Sotto un certo profilo, dunque, la scrittura migrante o degli immigrati è, da un lato, più libera rispetto a quella insegnata nelle scuole, meno impastoiata tra modelli secolari, e dall’altro, e forse come conseguenza di ciò, essa è innovatrice sia nel lessico, sia nei concetti, sia nei ritmi. Spesso s’introducono ritmi che provengono da cantastorie o comunque modelli archetipi dei paesi di provenienza degli autori, con una metrica diversa, e perciò l’orecchio li “sente” come eccezionali, rivelatori, intriganti. Anni fa una mia collega fece uno studio sul teatro popolare di Ravenna in cui in un’opera c’era una commistione tra senegalese e dialetto romagnolo, con interessantissimi risultati. Secondo me le nuove storie letterarie dovranno tenere conto di questi fattori, anche perché andranno crescendo, e si dovrà parlare di queste nuove varianti stilistiche che rinfrescano e rinnovano sia la lingua italiana che il linguaggio poetico. E naturalmente, in termini di prospettive sociali e ideologiche, la cultura italiana cresce in complessità e varierà con l’arrivo di persone portatrici d’idee e di esperienze a noi ignote. Si pensi all’esperienza storica del colonialismo e del postcolonialismo. Oggi arrivano persone che hanno subito la colonizzazione per secoli. Alcuni l’hanno vissuta in prima persona e magari si sono visti stravolgere le loro tradizioni, le loro configurazioni mitologiche, di costume, di lingua, ecc. Tutto questo adesso è proposto e trasmesso in lingua italiana. Il fatto che sia inevitabilmente ibridizzato è positivo (anche perché, come abbiamo detto prima, non esiste, o comunque non è più fruttuosa, l’idea di una tradizione, di qualsiasi popolo, rigida, omogenea, transtorica. Eccetto per i riti. Ma anche questi ultimi si modificano nel tempo). E’ in ogni caso un arricchimento culturale cui bisogna dare spazio per crescere, anche perché in un certo senso, almeno per le prime due generazioni, gli scrittori migranti ridanno noi a noi stessi visti dall’esterno.

In questo contesto letterario si può parlare d’identità letteraria?

Parlare oggi d’identità letteraria è molto complesso. Dovremmo entrare nel discorso del Postmoderno per capire che è la stessa nozione d’identità quella che entra in crisi definitiva. Ma questo non vuol dire che la crisi debba avere risvolti necessariamente negativi, vuol dire che magari ci consente finalmente di non essere più così etnocentrici, così intransigenti, antagonisti con chi non ha la nostra stessa identità. Nel mio prossimo libro elaboro un’idea secondo la quale il viaggiare e il transitare oltre diverse barriere o confini creano le premesse per una soggettività molteplice, multiprospettica, che potrebbe mettere in crisi qualsiasi sistema totemico, dogmatico, assolutista. Se guardiamo all’interno delle nostre stesse tradizioni italoeuropee, e riflettiamo su certe rivoluzioni concettuali e artistiche – come quelle effettuate da Pirandello, le avanguardie, il teatro dell’assurdo – dovremmo ammettere che la condizione umana è quella di far uso di maschere. Che non possiamo evitar di portarle. Maschere che cambiano con il cambiamento stesso della società, per non dire delle luci, dei contesti, e dei ruoli che ci tocca recitare. La nozione di persona è, a rigor di etimologia, quella di vestire un determinato sembiante. Per questa ragione la nozione d’identità in letteratura, non va visto in termini precisi, categorici: questo ha l’identità A, quell’altro la B, quell’altro è C e via dicendo. Va vista come qualcosa di più fluido, metamorfico, riflettente la dinamicità della storia, rendendo possibile un pensare in maniera sempre diversa, sia sul versante critico che su quello creativo. In questo senso la stessa ipotesi di un canone che voglia insistere sulla consistenza di un’identità letteraria relativamente duratura si rivela ostracizzante, riduttiva, esclusivista. C’erano dei motivi precisi per cui all’epoca di Francesco De Sanctis si cercava uno specifico letterario italiano rintracciabile nei secoli. Ma passata quella congiuntura sociostorica, in una società che ufficialmente predica diversità, diritti universali e multiculturalismo, l’idea di un canone dominante ripropone la vecchia idea dell’egemonia esclusivista e tipicamente conservatrice di una classe o gruppo nei rispetti di altri possibili (e sia pure ancora marginali) canoni o meglio comunità dinamiche di scritture veramente differenti, diverse, interessanti, che rinnovano la lingua e le idee.

Quale potrebbe essere secondo lei il contributo degli scrittori immigrati alla società nel suo complesso?

Uno scrittore, ovunque sia nel mondo, è per propria natura sempre un creativo, ma se è un emigrato e tipicamente plurilingue, ha migliori strumenti o condizioni per esserlo ancora di più. Intanto è portatore di visioni ed esperienze storiche poco note alla società ospitante. Oltre all’impatto positivo sulla letteratura nazionale, di cui abbiamo detto, lo scrittore immigrato ci consente di pensare o meglio ripensare a temi e avvenimenti che la memoria nazionale ufficiale ha cancellato o ignorato. Per questa ragione penso che oggi i lettori italiani dovrebbero rivedere la propria storia poiché, in termini antropologici ed etnografici, l’Italia stessa è stata per oltre trenta secoli il crocevia di tre continenti, e si potrebbe a buon diritto chiamare un popolo di migranti. Nella memoria storica più recente, da quando è diventata stato-nazione, uno su quattro se n’è andato via da questo paese: un quarto della popolazione “italica” vive e si riproduce altrove. Se solo prendiamo in considerazione anche le seconde e terze generazioni – in una data società ci sono i giovani, i genitori, i nonni e i bambini, no? -- allora si scopre che ci sono più italiani all’estero che sul patrio suolo. L’amnesia del cittadino medio in merito alla grande emorragia d’italiani verso tutti gli angoli del mondo tra il 1880 e il 1970 è qualcosa di preoccupante, qualcuno direbbe scandaloso. E’ straordinario quanto poco gli italiani di oggi si occupano della letteratura dei suoi emigranti, e in termini recentissimi della presenza di una letteratura italofona dispersa nel mondo. (Stiamo cercando di rimediare a questa lacuna con una grossa antologia a cura dei miei amici Luigi Bonaffini e Joseph Perricone, cui ho collabarato, che porta il titolo: Voices from the Italian Diaspora, di prossima pubblicazione presso la Fordham University Press di NY; vi sono rappresentati scrittori, maggiormente poeti, che vivono e scrivono in italiano in diciassette paesi!) E poi vorrei aggiungere che gli immigrati arrivano in Italia non necessariamente perché l’Italia è il paese di Bengodi. È perché non stavano bene nel loro paese – e gli studi postcoloniali, almeno in America, sono pronti a dimostrare che se si sta male in Africa o nel sudest asiatico è anche a causa dei vari imperialismi e colonialismi europei che si sono succeduti dal Cinquecento in poi. Secondo me gli scrittori immigrati rappresentano una nuova avanguardia, forse l’unica possibile perché sfondano generi, canoni, tradizioni ossificate e arbitrari confini imposti dal potente di turno. Essi sono dunque l’avanguardia del loro paese ma anche del nostro, perché parlando dei loro problemi ci parlano di riflesso o direttamente anche dei nostri problemi, quelli che gli italiani o ignorano o dimenticano o si ostinano a non trattare onestamente, preferendo di riciclare mitemi identitari sotto i quali malcelati si esprimono razzismi e xenofobie vari. Perché evitare di vedersi, attraverso questi scrittori, in controluce? Magari questi due o tremila scrittori immigrati ci sensibilizzano alle opere di due o tre milioni di artisti italiani emigrati nel recente o lontano passato. Per queste ragioni, per me, questi nuovi scrittori costituiscono una ricchezza linguistica, culturale e ovviamente anche economica, da non osteggiare o sprecare, ma anzi da abbracciare, ascoltare, e insegnare nelle scuole.

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Anno 6, Numero 27
March 2010

 

 

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