El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

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i diritti della voce e il senso dell’ascolto

itala vivan

In questo nostro tempo fratturato e insieme conglobante verso un unico marasma generalizzato, da più parti si leva un accorato richiamo ai diritti che vengono negletti o addirittura calpestati: diritti umani, diritti civili travolti o trascurati nell’ondata violenta di una transizione epocale di migrazioni e dislocazioni. Ma, ditemi, chi difende i diritti della voce, i semplici e fondamentali diritti che ha la voce di farsi sentire e con ciò di venire accolta? Chi se ne può incaricare, se non gli stessi scrittori, e i poeti, per i quali la voce è vita?

La voce, elemento di sutura tra fisicità e astrazione, è strumento proprio del poeta, di cui incarna la parola e, attraverso suono e ritmo, rappresenta gli accenti. Non è un caso che l’oralità sia rimasta così a lungo viva e operante nelle culture africane ove la parola regna con un’autorità altissima. La voce, fiato divino in molti sistemi mitologici, rappresenta con immediata verità la presenza dell’autore cui conferisce concreta referenzialità; e nella poesia si afferma al di là e prima della scrittura cui talvolta sembra resistere e sfuggire. Poiché la voce è sintomo quanto altri mai di resistenza: resistenza innanzitutto alla pesantezza e concretezza della materia, alla chiusura esatta delle forme scritte, alla separazione dei generi e dei sistemi espressivi.

Resistenza, però, anche all’assimilazione e all’omologazione: così funziona la voce del poeta dislocato nella lingua italiana, finito in territorio ‘altro’ e assediato, per così dire, da una cultura e da un immaginario altrui. Oggi in Italia si assiste al fenomeno importante e significativo della nascita di una letteratura in lingua italiana scritta da autori di origine non italiana per i quali la lingua è di adozione. Si tratta di un fenomeno recente e ancora poco studiato e compreso, ma in crescita esponenziale e destinato a permanere differenziandosi attraverso il tempo man mano che le persone che vengono a vivere nel nostro paese penetreranno la nostra koiné e la creolizzeranno, mentre al tempo stesso anche loro diventeranno diverse rispetto al passato e alla provenienza originale. Questa prima generazione di scrittori si distingue perché è nata e cresciuta scolarizzandosi altrove, ma, venuta qui per ragioni le più varie, ha deciso di scegliere l’italiano come proprio campo espressivo: una nuova patria letteraria.

I casi di autori immigrati che scrivono in italiano si fanno sempre più numerosi, suggeriti da molteplici motivi. V’è innanzitutto il bisogno e quasi l’ansia di esprimersi per appartenere, per farsi appunto sentire e creare orgogliosamente ascolto in una lingua che non è viziata dalle stimmate del rapporto coloniale, come accade per il francese (o in altri casi per l’inglese) nei confronti di tanti immigrati postcoloniali. Così facendo lo scrittore conquista anche un posto e una posizione di visibilità nel panorama culturale italiano e si assicura la possibilità di dire se stesso, dando al contempo forma da un lato al desiderio di abbracciare e mantenere viva l’origine, dall’altro a una nuova interrogazione su di essa: quasi una rilettura del passato, un ritorno, appunto, al paese natale, come bene ebbe a dire Aimé Césaire. Va comunque detto che tale aspetto raramente diviene un ripiegamento nostalgico, mentre più spesso getta un ponte per creare collegamento e preparare futuro, come è il caso di Gaye, per il quale l’Africa è “dorso di tenerezza”, celebrazione ma anche attesa.

Nel panorama di questa nuova scrittura di lingua italiana Cheikh Tidiane Gaye costituisce una presenza significativa per l’originalità della sua voce e per l’urgenza della vocazione espressiva e più precisamente poetica. Il suo è un itinerario che alterna produzione in prosa e testi poetici di ispirazione lirica; la presente raccolta è stata preceduta da Il canto del djali (2007) e sinora anche la sua prosa è apparsa intrisa di poesia, e quasi sulla soglia del canto (Mery principessa albina, 2005).
Egli rivela chiaramente i bisogni comunicativi della sua generazione e i desideri che caratterizzano l’intera migrazione; però, a differenza di altri suoi colleghi, non si pone come ‘scrittore migrante’. Se evoca una “lingua che sigilla l’unione, lingua alla conquista della culla mediterranea”, l’emigrazione è per lui un incidente come altri dell’esperienza esistenziale, e mai si sofferma a descrivere o evocare le asprezze e le fatiche di tale cammino, né le inaspettate crudezze che riserva la caduta nell’alterità, sorpresa amara di tutte le emigrazioni di oggi ma anche di ieri. Gaye intende affermarsi nella lingua e attraverso la parola, esprimendo un universalismo etico ed estetico di marca senghoriana (legato cioè alla visione del grande poeta senegalese della Negritudine Léopold Sédar Senghor) e allo stesso tempo, assorbendo nella sua parlata italiana e nel suo immaginario poetico il portato delle cultura africana di nascita, nel suo caso wolof e senegalese, per origine culturale e appartenenza nazionale. Se anche avverte una necessità di salvarsi e sopravvivere, la traduce positivamente in parola e in metafora, collocandosi come cantore e araldo di un’epoca d’oro, sia nella memoria del paese del suo ieri sia nello sguardo sull’oggi e sugli ideali umani da proporre nei nuovi attuali contesti.

L’epoca d’oro che sta alle spalle del poeta è l’Africa che ha lasciato, colori e canti, paesaggi e voci di saggezza e di generosità, mondo rivissuto come insieme armonico ed eminentemente positivo. Un’Africa vista da lontano e inglobata in un panafricanismo culturale che riconduce il suo verso direttamente alle modalità dei poeti della Negritudine sia africani sia caraibici, ma sempre francofoni. La Negritudine rimane presente anche nei chiaroscuri che da anticoloniali si fanno genericamente liberatori, soprattutto nelle scelte stilistiche partecipi dell’estetica senghoriana e volte all’esaltazione dell’africanità come incarnazione di una bellezza intera e intatta.

L’altra epoca d’oro è il presente/futuro nel nuovo paese dove si situano nuovi affetti e la entusiasmante esperienza della paternità, grazie a una “nascita fiabesca”. Quindi un’Italia tutta personale, un bozzolo di Erlebnis/vissuto in cui avviene la maturazione dell’individuo alle sue responsabilità di adulto. Anche questa metà del mondo di Gaye è luminosa e pervasa di gioia, animata di sentimenti vitali e positivi, come un globo raggiante che non si lascia scalfire.

I suoi versi si bilanciano fra queste due atmosfere, sfuggendo alle trappole del dubbio, della sofferenza, del dolore. Talora, nel trasporto di una visione che tende a farsi eroica, il poeta si muove ai bordi della magniloquenza, anche se va detto che il più delle volte tale tendenza si radica nella difficoltà dei registri della lingua italiana e delle loro sfumature. Ma bagliori di metafore, immagini sorprendenti, accenti profondamente sinceri risultano attraenti e invitano a riprendere un giudizio che altri ha dato su questa poesia, chiamandola ‘innocente’. Si rimane colpiti positivamente dalla forza della spontaneità che la informa e che il ritmo mira tenacemente a rispettare, per fare una poesia che abbia anima africana pur nella lingua europea, riconfigurando tradizioni e suggestioni per nuovi lettori e diverse sensibilità. Il fatto che essa si collochi all’alba di tempi nuovi, nel clima dinamico di contaminazioni linguistiche e più generalmente culturali, ne giustifica di per sé l’esistenza e spiega il levarsi di voci che parlano italiano senza condividere con noi vecchi figli di questo paese il pesante fardello della tradizione poetica italiana: allora si è tentati di gridare al miracolo, salutando l’ingresso di un “nuovo alfabeto”, un modo inedito di porsi nella scrittura all’interno di un contesto sovraccarico di passato e di echi molteplici e stratificati.

Non di rado affiorano, nelle sue rime, movenze impresse dal sottostante livello di lingua francese, ma non del francese di Francia, poiché l’idioma che conta per Gaye è quello parlato in Africa Occidentale e cantato dalla Negritudine. Emergono anche strutture sottostanti, spezzoni del mondo wolof, sotto forma di similitudini, proverbi, detti, elementi lessicali, allusioni semantiche o addirittura intere leggende e fiabe. Talvolta l’esperienza africana è semplicemente un senso segreto e doppio, una piega ironica, un’ombra di memoria che forniscono sfondi e dimensioni significative al ritmo e all’immagine. Tuttavia lo spaesamento cui induce il poeta ha un carattere ospitale, ossia anziché escludere una parte o l’altra dei lettori si apre e si lascia avvicinare, anzi, invita a farlo. Vorrei suggerire al lettore che si sofferma su queste pagine di togliersi gli occhiali del canone universalistico e invece arrischiarsi sul terreno creolo della transculturalità su cui poggia i piedi il poeta italosenegalese, che non è solo e non parla da isolate torri eburnee e neppure dal cuore di statue di ebano. Con lui, intorno a lui, c’è uno stuolo di voci creolizzate che dicono cose inedite in accenti che sorprendono ma che hanno le loro proprie ragioni di esistere e si rivolgono a noi italiani esplorando i sentieri della nostra lingua, della cui antichità tanto ci vantiamo. Il senso dell’ascolto sta anche nel porgere orecchio a una voce che sceglie di percorrere toni di poesia per collocarsi nel panorama che lo ospita, anzi, per costruirne uno nuovo, come è suo specifico diritto.

Mi diverto a conversare con Cheikh Gaye, che è un osservatore attento e serio della realtà che lo circonda; i nostri argomenti preferiti sono da un lato il Senegal e l’Africa, dall’altro l’Italia come territorio di memorie storiche e di esperienze lontane e vicine, ma anche come insieme di tradizioni letterarie. Cheikh ama le rime di Dante ma non conosce il dolce stil novo, ha conquistato e padroneggia con destrezza il linguaggio delle burocrazie e anche quello della politica ma non sa chi sia Pinocchio la cui storia fa così sottilmente parte dell’immaginario nazionale sia culturale sia linguistico; ama Leopardi ma non ha ancora incontrato nel suo cammino né Orlando né la Pisana e il Carlino, delizie delle nostre prime letture scolastiche e giovanili. Quando si procede a fare esempi di forme e soluzioni eccellenti della scrittura, con Cheikh va a finire che si ritorna sempre su casi in lingua francese, e in particolare, se non addirittura a Senghor, per lo meno ad Aimé Césaire. Ed è stranamente innovativo, più che esotico, riscontrare come nel suo verso la nostra lingua si modelli su echi inattesi e imprevedibili, trascurando gli itinerari familiari al nostro immaginario letterario. Il critico guarda quindi con stupore e curiosità alle increspature di invenzione poetica che si profilano in questa scrittura che prescinde naturalmente – oserei dire inevitabilmente – dal portato della tradizione letteraria italiana e con ciò anche dai suoi tranelli e dalle sue responsabilità.

Io ritengo che si sentirà ancora parlare di questo scrittore, e non soltanto nei circoli ristretti degli studiosi della migrazione, tra cui Gaye per altro non intende rinchiudersi, bensì dalle pagine delle cronache letterarie del nostro tempo in rapida transizione. Una transizione verso una mèta che ci sembra ignota, ma di fatto è già tra noi, parte ineliminabile del nostro panorama europeo. Sotto questo profilo, l’esperienza della Francia e più ancora quella della Gran Bretagna insegnano che la maggioranza di coloro che emigrano in Europa vengono per restarci e costruirsi una nuova esistenza nella quale essere cittadini proprio come chi è nato qui da generazioni, ma con qualcosa in più: il profumato aroma dell’altrove da cui provengono e che nelle parole e nei comportamenti, nelle immagini e nei riferimenti rivela identità multiple e complesse. Il senso del nostro ascolto può rinnovarsi oggi nell’ibridità in cui siamo immersi e abbracciati, nell’identità plurima che si profila agli angoli delle nostre strade e nelle aule delle nostre scuole, segno di un cambiamento che richiede – anzi, esige -- partecipazione e viva, attiva attenzione.

Questo saggio è stato pubblicato come introduzione alla raccolta di poesia di Cheikh Tidiane Gaye Ode nascente, Edizioni dell'Arco, Milano 2009

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Anno 6, Numero 26
December 2009

 

 

 

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