El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

Versione Originale | Nota biografica | Versione lettura |

solo in salita da qui in poi

sulaiman addonia

Kareem viene mandato via da sua madre per sfuggire alla devastante guerra tra il suo paese, l’Eritrea, e l’Etiopia. Siamo alla fine degli anni Ottanta, un periodo che ha visto uno dei più intensi combattimenti di una guerra che è durata per più di trent’anni. Questa storia racconta di un ragazzino dell’Africa dell’Ovest in una grande città europea.

Mi ricordo di quello che mi hai detto quando mi hai fatto salire sul cammello per cominciare il viaggio dall’Eritrea verso una destinazione sconosciuta nel mondo occidentale. Mi hai detto: “Kareem, sarai al sicuro. Al sicuro dalla morte che ci perseguita. Gli europei sono brava gente. Si prenderanno cura di te, ti manderanno a scuola, ti compreranno cibo e vestiti fino al giorno in cui sarai in grado di badare a te stesso. In Europa, non sentirai il frastuono delle bombe, solo la melodia della musica”.
La mattina di quella giornata fu splendida. Era il momento in cui tutto era tranquillo. C’erano solo silenzio e un cielo azzurro, nessun aereo da bombardamento etiope che volteggiava nel cielo e nessuna mitragliatrice che spargeva proiettili ovunque.
Mi svegliai alle sei, mi lavai la faccia, presi un secchio e con la mia asina andai a prendere acqua al fiume che si trovava a due ore di distanza.
Alem era un’asina bellissima. Era scura come me, scura come i chicchi di caffè tostati. Il mio viso era affilato e magro come quello di Alem e i miei denti sporgevano come i suoi. Non mi aveva mai disarcionato e io non l’avevo mai picchiata o tacconata. Eravamo una coppia perfetta.
Mentre ci dirigevamo al fiume, Alem scagliava dei sassolini con i suoi zoccoli. Io mi godevo il silenzio e l’aria fresca. Ero solo felice di essere sopravvissuto ai bombardamenti della notte precedente. Poi ho sentito che mi chiamavi: “Kareem, fermo. Fermo!”.
Dietro di te dal nulla apparve un uomo. Il mio primo pensiero fu che lo volessi sposare. Sarei stato comprensivo. Da quando papà era morto nella guerra con l’Etiopia, era difficile per te prenderti cura di me. Vendevi tè e caffè nel tuo piccolo chiosco al mercato. Ma siccome guadagnavi davvero poco, io andavo a prendere l’acqua da vendere ai nostri vicini.
“Ho bisogno dell’asino. Tu torna a casa”, mi hai detto.
“Ma mamma, devo vendere dell’acqua oggi!”, ti dissi.
“Dai retta a quello che ti dico, figlio mio”, mi dicesti.
Sei salita in groppa all’asino e sei sparita con quell’uomo.

~
Sei tornata la sera, quando il sole aveva cominciato a sparire lasciando dietro di sé l’oscurità, la luna e le stelle. Non hai detto una parola. Hai acceso la lampada ad olio, hai preso il tappeto da preghiera e hai iniziato a pregare.
Ti osservavo mentre continuavi a inginocchiarti e recitare alcuni versi del Corano. Non sembravi te stessa. Normalmente non pregavi a quest’ora. Di solito questo era il momento in cui mi raccontavi storie finché non mi addormentavo. Ero stupito. Mi chiedevo se pensavi di abbandonarmi e scappare con quell’uomo che avevo visto la mattina. Volevo piangere.
Mentre pregavi quasi piangevi: “Per favore Dio, proteggi mio figlio. Concedigli la salvezza. Ti supplico, Dio”.
Mi chiedevo perché eri così preoccupata per me. Stava per succedermi qualcosa di male?
Poi ti sei alzata, sei venuta verso di me e mi hai trascinato fuori dal letto.
Nel silenzio più totale mi hai vestito con i pantaloni neri, una maglietta bianca e mi hai messo i sandali. Poi mi hai portato fuori dalla capanna.
“Dove stiamo andando?”, ti chiesi.
“È venuto il momento”, hai detto.
“Il momento per cosa?”
“Per andarsene”
“Perché ce ne andiamo?”
“Io non vado via – hai detto – Parti tu da solo”.
“Ma mamma – piagnucolai – non voglio andarmene senza di te”. Gridai forte pensando che i nostri vicini sentendo sarebbero intervenuti ma non successe nulla.
“Andrà tutto bene”, dicevi mentre mi conducevi tra le colline e i cespugli.
Implorai di nuovo: “Non voglio andare senza di te, mamma”.
Tu non dicesti nulla. Il tuo silenzio mi feriva più dei morsi delle zanzare che mi pungevano le braccia e il viso.
Infine hai parlato: “Andrai in Europa. È un posto sicuro. Me l’ha detto l’uomo che hai visto stamattina. Ci ha mandato suo figlio e sta bene”.
“Dov’è l’Europa?”
“Non saprei, ma è lontana da qui”.
“Mamma, perché non vieni con me?”
“Non ho i soldi per tutti e due – hai detto – Non sopporto l’idea di vederti morire come gli altri. Ho visto che cosa fanno queste bombe ai bambini. Non voglio coprire la tua tomba col fango. Preferisco che tu mi abbandoni ma ancora tutto intero”.
“Ma mamma, io sono felice qui con te. Non ho paura. Come fai a lasciarmi andar via così?”
Sei rimasta in silenzio.
I trafficanti di uomini ci stavano aspettando. Erano circondati da lampade a olio. Non avevo mai visto così tante lampade. Sembrava come se fossero scese le stelle dal cielo.
Gli uomini stavano vicini ai loro cammelli, pronti per il viaggio. Mi hai consegnato a uno di loro. Disse: “Allah mi è testimone che darò tuo figlio a un uomo d’affari di Khartoum che lo manderà in un paese europeo. È una brava persona”.
“Mi mancherai da morire, figlio mio – mi hai detto. Mi hai dato un ultimo abbraccio e poi mi hai aiutato a salire sul cammello – Promettimi che starai attento”.
“Lo farò”, le dissi.
“Promettimi che ti ricorderai per sempre di me”.
“Lo farò”, dissi.
“E che ti impegnerai per studiare e rendermi orgogliosa di te”.
“Lo farò”, dissi.
Improvvisamente l’uomo sul cammello gridò: “Donna, non abbiamo molto tempo, i caccia stanno per arrivare, ci dobbiamo sbrigare”.
Ero in sella al cammello che ti guardavo in viso. Ti vedevo piangere. Sono riuscito a sfiorarti la guancia.
Poi i cammelli iniziarono a muoversi. “Figlio! – hai urlato mentre correvi dietro al cammello – Figlio mio!”.

~

I cammelli attraversarono il confine con il Sudan senza incorrere in pericoli. La mia guida mi aiutò a prendere un autobus per Khartoum. Alla stazione degli autobus incontrai l’uomo che mi avrebbe mandato in Europa.
“Sono Ali”, disse salutandomi calorosamente.
Per giorni interi continuò a parlare della sua abililtà nel falsificare passaporti e visti e come controllava l’ingresso verso il mondo sicuro in Europa. Poi un giorno mi disse: “Ho tutto pronto per te per andare a Londra”.
Non sapevo dove si trovasse Londra ma arrivai al suo aeroporto a tarda notte.
Impiegai pochi minuti per essere trasportato in autobus dall’aereo al controllo immigrazione con il resto dei passeggeri. Mi ritrovai a far parte di una fila di fronte a un uomo seduto su uno sgabello dietro a un alto tavolo. Controllava i passaporti. Sembrava severo. Non sorrideva, non aveva nessuna espressione sul suo volto. Iniziai a tremare terribilmente. Recitai sottovoce dei versi del Corano per calmarmi. Pregai: “Per favore Dio, trasforma il cuore di quest’uomo in un cuore generoso e compassionevole come quello di mia madre”.
Ma in qualche modo la mia preoccupazione continuava ad aumentare. Non volevo piangere apertamente e dire a tutti che non volevo venire qui, che era mia madre che mi ci aveva mandato e che avevo un passaporto falsificato, un visto turistico falso e un’età falsa.
Questo mi fece ricordare di comportarmi come mi aveva detto di fare Ali.
“Devi stare bello diritto e sembrare un adulto. Se non lo farai, scopriranno la tua vera età e ti rimanderanno indietro. Comportati come un uomo, proprio come è scritto sul tuo nuovo passaporto”.
Allungai il collo così da sembrare più alto. Spalancai gli occhi. Irrigidii la mascella per darmi un aspetto serio e tenni il passaporto nella mano sinistra con l’avambraccio steso, come i soldati etiopi tenevano i loro fucili.
Poi toccò a me consegnare il passaporto a quell’uomo. Lo controllo minuziosamente, ancora di più di quello che aveva fatto con gli altri. Ci impiegò molto tempo. Mi vennero in mente brutti pensieri su di te. Per la prima volta nella mia vita mormorai: “Odio mia madre.”
L’uomo interruppe i miei pensieri e parlò in inglese che non capivo. Presi il bigliettino che avevo con me e glielo passai. Me lo aveva dato Ali. Diceva: Non parlo inglese. Parlo tigrè, la lingua dell’Eritrea. Sono un turista. Sto a quest’albergo – 32-34 Bloomsbury street, Baystwater.
L’uomo non disse nulla. Capii dal gesto della sua mano, l’indice e il pollice che si sfregavano lentamente, che stava chiedendo come avrei finanziato la mia permanenza. Gli diedi un altro bigliettino. Diceva: Ho 500 sterline per due settimane.
Mi lasciarono andare.
“Dio – pensai mentre lasciavo il controllo immigrazione – sono davvero a Londra, sono al sicuro”.
Uscii dalla sala d’aspetto e cercai il collega di Ali. Sapeva del mio arrivo e mi stava aspettando all’aeroporto.
“Non sarà difficile vedere il mio collega – mi aveva detto Ali – È mio fratello e mi assomiglia moltissimo”.
Ad un tratto lo vidi. Assomigliava così tanto ad Ali che sembravano gemelli.
“Sono Mustafa – disse l’uomo, appena mi avvicinai – È tutto organizzato. Stanotte dormirai a casa mia. Domani ti porto all’Home Office e farai richiesta d’asilo. Ok?”.
“Ok”.

~

Anche se era tutto tranquillo e io ero al sicuro, la prima notte a Londra è stata più dura di quando dormivo nella nostra capanna sotto i rumorosi aerei etiopi.
Iniziai a pensare a te. Non riuscivo a dormire. Come avrei potuto, sapendo che una bomba ti potrebbe aver finalmente trovato? Avevamo un detto al nostro villaggio: “Verrà il momento in cui perfino un cieco colpirà il suo bersaglio”.
Udivo il suono della pioggia che cadeva in strada. Aprii la finestra e fissai la strada silenziosa. C’erano moltissime macchine parcheggiate e alberi su entrambi i lati. Il vento autunnale continuava a far cadere le foglie sul selciato. La strada era come un tappeto persiano, colorata di foglie gialle, rosse e arancio. Poi improvvisamente apparve un gatto da sotto una macchina parcheggiata. Miagolava. E proprio come me, era piccolo, sperso e solo.
A quel punto mi mancavi ancora di più. Volevo correre all’Home Office e chiedere di farmi rimpatriare. Volevo stare con te e con la mia asina, Alem. Ma mi ricordai della promessa che ti avevo fatto. Così cominciai a memorizzare la storia che dovevo raccontare all’Home Office il mattino successivo.

~

“La cosa più importante da ricordare è dire la tua età – disse Mustafa – Digli l’età sul passaporto e non quella vera. Ok? Non ti preoccupare del resto della storia. Digli la verità. Il tuo paese è in guerra. Questo è sufficiente per darti la possibilità di richiedere asilo”.
All’Home Office, ci unimmo a una lunga fila dove c’erano persone di tutti i tipi. Eravamo tutti in piedi, stringendo i nostri documenti. Vedevo un sacco di gente che si concentrava e mormorava sotto voce. Stavano memorizzando le storie che avrebbero dovuto raccontare agli impiegati dell’Home Office. Cominciai di nuovo a ripetere la mia di storia.
La fila avanzava lentamente. Passò quasi mezza giornata prima che fosse il mio turno, faccia a faccia con l’uomo dietro lo sportello. Gli raccontai la mia storia in tigrè e Mustafa traduceva. Ero molto incerto. Ma Mustafa mantenne un’espressione impassibile durante tutto l’incontro. L’impiegato dell’Home Office annotò tutta la mia storia. Mi diedero dei documenti che confermavano che in questo paese ero un richiedente asilo. Ma mi dissero che dovevo aspettare per la decisione definitiva.
Ero felice che non mi avessero fatto del male all’Home Office. Ma la mia felicità si esaurì quando Mustafa mi portò di filato a un’organizzazione caritatevole che dava supporto e alloggio alle persone come me e mi lasciò lì.
“Il mio lavoro è finito. Questo non è il governo. Quindi non devi avere paura. Queste persone ti saranno d’aiuto”, disse.
“Ci incontreremo ancora?”, gli chiesi. Era l’unica persona che conoscevo in quel paese.
“Ci sono degli interpreti che parlano tigrè. Presto verrà a trovarti un consulente. Il mio lavoro è finito”, disse carezzandomi i capelli crespi, prima di andarsene.
La consulente che sedeva a una scrivania, si presentò come Diane. Le sue parole erano tradotte da un eritreo che le stava accanto. Si chiamava Eyob. Diane mi trovò una stanza in un posto che si chiamava Mile End.
La stanza che mi avevano assegnato era al piano terra. Gli altri quattro uomini nella casa erano bianchi e sulla quarantina. Erano rifugiati dall’Est Europa. Sembrarono molto contrariati quando mi videro. Quindi chiusi a chiave la porta della mia stanza e rimasi là tutto il giorno.
I giorni passavano e io non avevo nessuno con cui parlare. Era come se mi trovassi in prigione e i quattro uomini fossero i secondini. Non potevo guadare la tv perché loro stavano tutto il giorno in salotto a far nulla a parte guardare la tv e a volte ci dormivano pure.
Una sera uscii e decisi di cenare in cucina: latte e fiocchi d’avena. Era tutto ciò che mangiavo, a pranzo e a cena finché non mi decisi a imparare a cucinare. Ma non appena cominciai a mangiare, due di loro rientrarono a casa e vennero diretti in cucina.
Aprirono il frigorifero e cominciarono a bere alcol. Mi avevi detto che era proibito per la nostra religione bere o anche solo toccare alcol. Odiavo il suo odore. Uno di loro cominciò a gridarmi nella sua lingua. Aveva i capelli lunghi e dei disegni sul braccio sinistro come fatti con l’henné. Ma il disegno non erano composti con delle linee. Rappresentava un drago violento.
Mi toccò i capelli con l’indice della mano destra. Entrambi iniziarono a ridere. Decisi di andarmene nella mia stanza con la cena. Ma uno dei due prese la ciotola e ci versò dell’alcol. Corsi nella mia camera e chiusi la porta.
“Come può succedermi questo? – mi chiedevo – Solo tre settimane fa ero con mia madre. C’era la guerra e sarei potuto morire ma mia mamma era accanto a me. Avevo il suo amore e affetto”.
Piansi fino ad addormentarmi.

~

Il giorno dopo mi svegliai sorridendo. Avevo fatto un sogno meraviglioso.
Stavo scappando dai caccia etiopi. Ad un tratto dal niente sei apparsa tu e mi hai stretto forte. In seguito i caccia si sono trasformati in farfalle dai colori meravigliosi che sbattevano le ali. Poi mi hai dato un bacio e detto che eri con me nello spirito e che dovevo fare quello che ti avevo promesso. Infine anch’io sono diventato una farfalla. Mentre volavo via da te, mi hai mandato dei baci e detto che presto ci saremmo incontrati di nuovo.
Il sogno mi faceva stare bene. “Stavolta – pensai tra me e me – farò il viaggio da solo”.
Preparai la mia borsa e mi diressi verso la sede dell’organizzazione.
“Tutto bene?”, mi chiese Eyob.
“Vorrei raccontare un segreto a te e a Diane – dissi – Posso fidarmi di lei?”
“Diane lavora con i rifugiati da trenta anni – rispose – ha lavorato con rifugiati eritrei che vivevano nei campi in Sudan. Si è presa cura di me quando sono arrivato sette anni fa. Quindi sì, puoi fidarti di lei”.
Poi aggiunse: “Kareem, che cosa vorresti dire a Diane?”
“Si tratta della mia età”, dissi.
“Che c’è che non va con la tua età?”
“Io ho…”, poi mi fermai.
“Kareem, hai mentito sulla tua età?”
Non risposi nulla.
“Quando sono arrivato in questo paese – aggiunse – anche io ho mentito. La persona che mi aiutava credeva che aumentandomi l’età mi avrebbe reso più facile passare i controlli dell’immigrazione all’aeroporto, visto che viaggiavo da solo. Ma se dichiari al governo di essere un adulto, ti prenderanno per tale. Ti metteranno in un alloggio per adulti. Andrai all’università e non a scuola. Se ci dici la tua vera età, ti manderemo in un posto dove potrai vivere e andare a scuola con gli altri bambini, dove qualcuno t’insegnerà a lavare e cucinare”.
Guardai Diane per vedere se era simpatica come diceva Eyob. Scrutai il suo viso e mi ricordò del tuo. Il suo viso era bianco ma entrambi avevano la stessa espressione. Aveva un volto gentile con rughette di saggezza sotto gli occhi. I suoi grandi occhi mi mettevano a mio agio mentre mi guardava. Il suo sorriso era proprio come il tuo: un sorriso che dissolveva le preoccupazioni e mi rendeva felice.
“Abbi fiducia in me”, disse in frammentario tigrè.
La fissai senza parole. Eyob rideva: “Sì, sa parlare un po’ di tigrè anche lei”.
“Non ho diciassette anni com’è scritto sul documento dell’Home Office. Compirò quattordici anni la settimana prossima”, dissi, e scoppiai a piangere in maniera incontrollabile.

~

Adesso sono qui, in una casa per minori non accompagnati richiedenti asilo. Mi sento meglio anche se mi manchi ancora terribilmente. L’altra sera ne ho parlato a Diane. Ha detto che avrei potuto scriverti una lettera, ma ho avuto un’idea migliore. Ho deciso di scriverti una lettera ogni volta che adempio alle promesse che ti ho fatto quando ho iniziato il mio viaggio sul cammello.
Stamattina ho iniziato a frequentare la scuola. L’intera lezione di oggi era d’inglese. Adesso sono le nove e ho pensato di scriverti per dirti che ce la sto mettendo tutta e quando finirò il mio corso di inglese, andrò alla scuola media, poi alle superiori, poi all’università. Poi lavorerò e ti porterò qui con i miei soldi.
Ecco perché da qui in poi sarà solo in salita per me.
Quindi per favore cerca di stare bene e rimanere viva fino a quel giorno.

Traduzione di Caterina Monti

Inizio pagina

Home | Archivio | Cerca

Archivio

Anno 6, Numero 25
September 2009

 

 

©2003-2014 El-Ghibli.org
Chi siamo | Contatti | Archivio | Notizie | Links