El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

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heart shaped box

clementina coppini

Estate
Se questa sabbia grigia non fosse così bollente, non mi sentirei così maledetto. La sabbia è la mia vita ridotta in polvere per ogni giorno che l’ha oscurata e sbriciolata, rendendola pressoché inservibile a me che la vivo, purtroppo, e la calpesto.
Vendo abiti da poco a gente da poco, mendicando da ombrellone a ombrellone in un’estate grama.
Se tu sapessi, Kalya, quanto ti ho pensata, alta e snella. Sei morta annegata in quella barca orrenda, dopo aver trovato in qualche modo un passaggio gratis. L’abiezione della disperazione è cosa nota, nel luogo nero da cui proveniamo. Ti penso anche così, da morta, poi bevo ciò che di schifoso posso permettermi, schifoso e utile per dimenticare e ricordare, due azioni uguali per me che esisto e insieme non esisto. Tutti sanno che sono qui, mi vedono e usano, ma non mi vogliono. Comprano le mie cianfrusaglie. Le comprano, mi disprezzano, ma pagano.
Lavoro al sole e sotto la sua luce diretta latito, pubblicamente clandestino. Oggi ho venduto tutto ciò che avevo e me ne sto tornando a casa, se così si può chiamare la lamiera in cui abito, se ciò può dirsi abitare. Un letto putrido con lenzuola non lavate non so più da quanto e un putridume di specie di cucina che non si può umanamente definire tale, eppure ci mangio, e ora che ho anche una sedia, in questi scarsi metri, mi sento un infinitesimo di grammo più tranquillo. Meglio che niente, meglio che sedersi su questo cemento che trasuda sporco. Non avevo dove mettere il denaro che guadagno, ma ieri ho comprato una scatola di latta a forma di cuore. Cinque euro ben investiti, che mi porteranno fortuna. Fortuna non so cosa sia, ma toccando questo contenitore mi è tornata in mente la sua forma. Era quella del mio cuore quando ti ho vista per la prima volta, Kalya. Ho scordato tutto a parte te, Kalya, mia compagna assente di bevute solitarie. Dici che cambierà mai qualcosa in questo rancido che ho intorno e anche dentro? Che sia una visione, quel cuore, un messaggio da un altro mondo? Oppure niente, qualcosa di vuoto che arriva dal vuoto? Mi ci aggrappo lo stesso, a questa scatola per me pulsante, e le affido l’unica cosa che possiedo, questi pochi euro che porto in dote a un’anima trapassata.
Stanotte non ho dormito. Non che riesca mai a dormire bene. Fa un caldo insopportabile, in questo capannone che ci ospita tutti noi disgraziati che ci stiamo accatastati, maleodoranti e per di più paganti. Qui, sotto la protezione di un grande tetto di amianto, moriamo a poco a poco, non certo per le polveri velenose. Moriamo non come si deve, no. E forse è meglio che tu, Kalya, sia finita in mare tra i pesci. Almeno ti sei lavata, a differenza di noi, che non conosciamo acqua che non sgorghi puzzolente e marrone da tubi marci.
Vorrei lasciarmi andare, ma tu dicevi sempre che dovevamo fuggire e cercare altrove una speranza. Quale speranza non lo so. Non la tua, levigata dal mare che ti ha accolta. Non la mia, che non credo riuscirò ad abbandonare questa disgustosa dimora da vivo. Non voglio morire da ubriaco, bruciato com’è successo ad Alì la settimana scorsa. Nessuno ha cercato di aiutarlo, presi tutti com’eravamo a salvare la nostra roba l’abbiamo lasciato arrostire. Se mai riuscirò a riempire questo cuore di latta, al quale in qualche modo ho consegnato le nostre anime, fuggirò con lui. Con te.

Autunno
Ti piace il mio alloggio, Kalya? Certo non è il massimo, ma ho quattro sedie e perfino un tavolo. Lo divido con altre due persone, ma ci sono un letto e un bagno con acqua pulita. Ho un tetto di tegole sulla testa. Non possiedo un permesso di soggiorno, ma la mia piccola vendita di abiti procede bene. So scegliere quelli di stoffa migliori, tra i molti che ci sono allo spaccio dei disperati da cui mi rifornisco, e con le modifiche che apporto diventano più carini. Ho iniziato per caso la scorsa estate, a modificare, togliere e aggiungere lavorando con ago, filo e povere cose, e il cuore rosso si è riempito più e più volte. Mi ricordo quando imparavamo a cucire alla missione. Tu dicevi che ero bravo, per essere un ragazzo. Sono bravo, Kalya, e inizio a pensare che farò qualcosa di buono. Non tanto, certo, ma già il fatto che non vivo più in quel paradiso degli incubi mi fa sentire più sano. Laggiù mi stavo ammalando. Li ho abbandonati tutti senza dispiacere, salutando giusto per una formalità. Una doccia di acqua calda e non ricordo più nessuno. Non una faccia, se non quella di Alì ubriaco prima di finire carbonizzato. Bevo sempre meno, ma ieri ho esagerato con quella birra amara come il veleno – era quella che costava meno e io volevo festeggiare l’acquisto della mia prima macchina da cucire tutta mia – e ti ho sognata mentre galleggiavi sul mare in stato di decomposizione, sorridente. Mi sono svegliato tremando e ho dovuto concentrarmi sul fatto che ormai di te non è rimasto più niente. A quest’ora ti hanno mangiata i pesci. Mio dio, che immagine riprovevole della donna della mia vita. Stringendo la scatola di latta che tengo sul comodino, ho cercato di cacciare l’idea di com’è stato il tuo destino e di ricordarti invece alle lezioni di cucito, quando avevi quindici anni. Oggi proverò a creare un modello pensando a qualcosa che possa intonarsi con la bella espressione che avevi quando cucivi.

Inverno
In sala da pranzo, Kalya, ho sei sedie e il tavolo di cristallo. La casa è piccola perché non serve grande spazio a uno che viene da un tugurio di lamiera, e c’è il riscaldamento autonomo. Non bevo più, se non qualche bicchiere di buon vino ogni tanto. Il mio commercio di abiti è fiorente, adesso. Hanno successo i vestiti che mi ispiri tu ed è per questo che ho chiamato come te la mia piccola azienda, Kalya Unlimited. Ho un permesso di soggiorno bello nuovo e molte macchine da cucire. Ne ho ordinate di nuove e assunto degli autoctoni per usarle. Non voglio clandestini, perché non so da dove vengono né se hanno intenzione di lavorare. Non mi fido. La desolazione demotiva, e io non voglio accollarmi proprio adesso gente demotivata. Se li prendessi lo farei per compassione, ma rischierei di perdere ciò che ho conquistato. Non voglio. I miei lavoranti soggiornano in questo paese da quando sono nati eppure devono venire da me ogni mattina, se vogliono guadagnarsi il pane. Ciò solletica il mio spirito, mi diverte. Ho aperto un conto in banca, che è molto più comodo della scatola rossa. Ma lei è sempre qui con me, non me ne separerò mai. Ho preso la patente, ma non ho ancora comprato una macchina. Mi sembrerebbe troppo dotarmi di quattro ruote mie, perché non riesco a disabituarmi a spostarmi con mezzi di fortuna. Fortuna, una parola che ho sempre timore a pronunciare e pure a pensare. Non sono più un clandestino, Kalya, ma è così che mi sento. Mi si è appiccicato addosso il fumo della carne incendiata di Alì e faccio ancora fatica a dissiparlo. Certe volte mi avvolge ancora, come la nuvola di un desiderio non avverato, a malgrado che i miei sogni si realizzino. Ho incontrato una ragazza e non è che me ne sono innamorato, ma mi piace. Mi autorizzi a chiederle di uscire con me a piedi in una di queste sere di gennaio?

Primavera
Ora ho tutto, Kalya. Tutto ciò che desideravo quand’ero imprigionato nel metallo della clandestinità e della disperazione. Ho paura di quella gente puzzolente e poverissima che ancora vive così. Ho paura, avvicinandomi, di essere contaminato, paura che all’improvviso spuntino dai loro stracci degli uncini e che mi arpionino per trascinarmi nel luogo da cui sono partito e che ho dimenticato. I miei figli dicono che è tutta gente che non vale niente e che, se volessero e valessero, potrebbero fare la strada che ho fatto io, al posto di avvoltolarsi nella sporcizia. Hanno ragione. Ho ottenuto la cittadinanza, e non milito più tra coloro che non esistono. Almeno a parole, almeno nei fatti, almeno alla luce del sole. Esco ogni mattina dal cancello della mia villa – piena di stanze, di tavoli e di sedie – in una Mercedes dai vetri oscurati e alzati e non sento odori né profumi, freddo né caldo. La climatizzazione mi evita ormai tali fastidi. Non disegno più gli abiti della mia griffe, se non in casi eccezionali. Kalya è un marchio molto molto famoso e io ho nuovi compiti, com’è ovvio, se un’ovvietà esiste nel procedere della mia vita. Mia moglie se n’è andata con un uomo più giovane, ma non ho pianto, nemmeno quando le ho dato i soldi. Amo solo la mia Kalya perché ha il tuo nome, la amo come ho amato te per tutti gli anni e le stagioni, quando c’erano e anche ora che sono tramontate dietro l’orizzonte piatto del benessere.
Nel cruscotto conservo il cuore di latta, che porto sempre con me. Sta lì nascosto, perché lui, Kalya, come quella parte di me e di te giunte fin qui nell’ombra, è sempre un clandestino.

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Anno 6, Numero 25
September 2009

 

 

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