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“morte agli italiani!”

enzo barnabà

Hanno fatto in modo di occupare letti vicini nel camerone dell’ospizio. Gli altri sono stati condotti alla stazione e fatti salire su un treno che li ha riportati in Italia. Loro quattro facevano parte di coloro che erano troppo malconci per poter partire; man mano che, dopo lunghe ore di tormenti, andavano sfuggendo agli aggressori, venivano portati in quel sinistro edificio dove si erano ritrovati. Provengono dalla stessa zona del Cuneese e in salina lavoravano insieme. Sono Andrea Marino di Vinadio, Giovanni Giordano di Palanfré nel comune di Vernante, Antonio Cappello di Tenda, Angelo Camerano di Borgo S. Dalmazzo. Il più vecchio è Giovanni che ha ventiquattro anni, il più giovane è Andrea che di anni ne ha appena diciotto.
Nella primavera di quel 1893, avevano lasciato i loro paesi per “andare all’avventura” in Francia. Così facevano in tanti: per rimpinguare col lavoro stagionale i meschini proventi dei campi o per sfuggire definitivamente alla vita grama cui sembravano predestinati. Andrea, Giovanni ed Angelo avevano attraversato il tunnel del Tenda aperto da pochi anni, il primo a piedi, l’altro sul carro di un contadino che si recava a Briga e l’ultimo, il più fortunato, sulla corriera (dodici lire per il posto di seconda classe, sette cambi di cavalli e quattordici ore di viaggio per percorrere i 118 chilometri che lo separavano dal mare). Per tutti e quattro, infatti, la prima tappa era stata Nizza. Poi, in treno, verso la grande città industriale: Marsiglia. Qui avevano trovato lavoro; chi in una fabbrica di laterizi, chi come manovale nell’edilizia, chi nell’industria chimica. A luglio avevano saputo che ad Aigues-Mortes, un paese al di là della pianura della Camargue, reclutavano operai per la stagione del sale e che, lavorando sodo, in un paio di settimane si potevano mettere da parte anche duecento lire: di che tornare in paese con un vestito e un paio di scarpe nuove.
Lunedì 7 agosto, sul vagone che li porta verso le paludi salmastre, si sono fiutati, riconosciuti e sono diventati amici. L’indomani, nelle saline di Peccais, fanno parte della stessa squadra: cinque franchi al giorno per undici ore di lavoro estenuante. Accanto a loro, un gruppo di operai provenienti dalle Cévennes sfoga la propria rabbia intonando un feroce canto occitano che parla con eloquenza anche al loro cuore:

En arribent a Peccais
lo baile nos demanda
lo baile nos demanda
se volem travalhar

Que lo tron de Dieu
que cure cante Peccaissiana
Chau aver tuat paire e maire
per anar a Peccais

En arribent a l’ostau
la femna tòca la borseta
tòca la borseta
d’argent n’i aviá pas cap

Que lo tron de Dieu
que cure cante Peccaissiana
Chau aver tuat paire e maire
per anar a Peccais

Se la Repubblica sabiá la vida
que nos fan faire
farián brular Peccais
Christ e mai cure baile

(Arrivando a Peccais / il capo ci chiede / il capo ci chiede / se vogliamo lavorare – Che il tuono di Dio / che tutto porta via canti la canzone di Peccais / Bisognerebbe aver ucciso padre e madre / per andare a Peccais - Arrivando a casa / la moglie tasta la borsa / tasta la borsa / e soldi non ce n’erano - Che il tuono di Dio / che tutto porta via canti la canzone di Peccais / Bisognerebbe aver ucciso padre e madre / per andare a Peccais – Se la Repubblica sapesse la vita / che ci fanno fare / farebbe bruciare Peccais / Cristo e manderebbe al diavolo il capo).

Tutto cambia il 16 agosto, quando si passa alla fase successiva, quella del levage. Adesso si lavora a cottimo e gli operai, che debbono innalzare piramidi di sale alte fino a sette metri, vanno su e giù come automi spingendo carriole stracolme sulle passerelle di legno. C’è tensione perché alcuni francesi, cui quel mattino è stata negata l’assunzione, si sentono defraudati di un lavoro che pensano spetti prioritariamente a loro. I pimo (questo lo sprezzante epiteto riservato ai piemontesi), inoltre, vengono accusati di imporre ritmi infernali a causa della loro sete di guadagno. Qua e là scoppiano litigi per futili motivi. Durante la pausa di mezzogiorno, una pietra colpisce il capanno degli italiani che interrompono il pranzo e vanno a chiedere conto e ragione ai colleghi transalpini che stanno mangiando nella loro baracca. Ha luogo una sorta d’assedio al grido di “Viva l’Italia, abbasso la Francia!”. Tra i più esaltati proprio Giovanni Giordano che strilla più degli altri agitando un forcone. L’intervento della forza pubblica riporta una calma che si rivelerà soltanto apparente e che non permetterà in ogni caso la ripresa dell’attività.
L’indomani mattina gli italiani aspettano gli operai francesi per cominciare il lavoro. Giungono invece i gendarmi che li rinchiudono nella loro baracca per proteggerli da una banda di malintenzionati che stanno arrivando dal paese. Eccoli, infatti, spuntare all’orizzonte. Man mano che si avvicinano ci si rende conto che si tratta di una vera e propria folla che urla parole di morte, armata di quanto ha potuto trovare: randelli, forconi, sassi. Qua e là si vede luccicare anche qualche pistola e qualche fucile. I gendarmi vengono travolti e la baracca presa d’assalto. Sfondato il tetto, inizia una spietata lapidazione. Angelo si accascia al suolo con la spalla frantumata da una grossa pietra.
Dopo un’ora di quel sadico tiro al bersaglio, si riesce a calmare gli assalitori offrendo loro l’espulsione degli italiani, che saranno subito accompagnati alla stazione. Il ripugnante corteo parte allora in direzione della città con i feriti sorretti dai loro compagni. I più scalmanati si insinuano tra i gendarmi e colpiscono con violenza al grido di “Morte agli italiani!”. Giovanni con un piccolo gruppo fugge in direzione delle vigne che si vedono in lontananza. Vengono inseguiti. Il giovane vernantese viene acciuffato, buttato a terra e randellato brutalmente. “Non è morto – esclama uno degli aggressori dopo alcuni minuti – bisogna finirlo” . “No, basta”, gli risponde un altro impietosito. E vanno via lasciandolo tramortito in una pozza di sangue.
Il corteo avanza a fatica. Quando le mura della città cominciano a farsi più nitide e si spera che il calvario stia per finire, si vede uscire dalla Porta della Regina una grossa banda preceduta da un tamburo e da una bandiera. Presi tra due fuochi, per gli italiani non c’è scampo. Antonio, il tendasco, viene colpito da un forcone, cade a terra e si finge morto accanto a corpi ansimanti. Dopo una buona mezz’ora di caccia all’uomo, si riesce a mettere assieme quello che resta del gruppo e si riparte alla volta della stazione. Sotto le mura però, una nuova frotta di aggressori si scaglia all’attacco. “Enormi pietre vengono lanciate da ogni lato – scriverà un magistrato – ad ogni passo si è obbligati a lasciare per terra vittime indifese che forsennati, con indicibile efferatezza, finiranno a randellate”. E ancora: “Come bestie portate al macello, gli italiani si sdraiano sulla strada, sfiniti, aspettando la morte, lapidati, storditi, lasciando ad ogni passo uno dei loro”. Tra di essi, Andrea il ragazzo di Vinadio.

***

Adesso, nel camerone dell’ospizio, si raccontano quello che hanno visto e non sanno dar risposta agli interrogativi che si pongono. Nel cortile sono allineati sette cadaveri. È la notte del 18 agosto. L’afa e i dolori che trafiggono le loro membra non danno tregua. La luce fievole della candela lascia intravedere i volti tumefatti di due compagni (“non potevano aprire gli occhi né parlare e quasi non avevano più figura umana”, dirà il console italiano). I rantoli ininterrotti aggiungono sofferenza alla sofferenza. Più di tutti, in un angolino dello stanzone, si agita e si lamenta Vittorio Caffaro, un giovanottone di Pinerolo.
Verso la mezzanotte, si sentono rumori provenienti dal cortile. Giovanni riesce ad avvicinarsi alla finestra. Vede e riferisce. È arrivato un prete accompagnato da un uomo e seguito da due carretti. In gran fretta, le salme vengono benedette, le bare inchiodate e senza indugio, clandestinamente, il lugubre, assurdo corteo si avvia alla volta del cimitero. I morti sono Giuseppe Tasso di Alessandria, Bartolomeo Calori di Torino, Giuseppe Merlo di Centallo, Lorenzo Rolando di Altare, Paolo Zanetti di Nese, Giovanni Bonetto di cui si ignora il luogo di nascita, e un ragazzo che nessuno ha saputo riconoscere. Un mese dopo, si unirà ad essi il giovane di Pinerolo, che morrà di tetano dopo essere stato trasportato all’ospedale di Marsiglia.
I quattro amici non possono immaginare che al processo che si svolgerà in dicembre nessuno degli assassini sarà punito. Il solo colpevole che la corte d’assise individuerà sarà proprio Giovanni Giordano, beffardamente condannato per resistenza alla forza pubblica.

PS. Le frasi virgolettate sono rigorosamente tratte da documenti ufficiali dell’epoca.

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Anno 6, Numero 25
September 2009

 

 

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