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storia minima di un commissario di p. s.

giulio soravia

Il suo bisnonno aveva combattuto ad Adua e non era sopravvissuto nel 1896 alla disfatta del generale Baratieri, che aveva condotto al massacro, da una parte e dall’altra, migliaia di giovani. Secondo la tradizione di famiglia, quarant’anni più tardi suo nonno, un bimbo di quattro anni quando era divenuto orfano, console della Milizia Volontaria, aveva vendicato con gas d’iprite l’onta subita e la perdita del padre, combattendo sotto il comando di Graziani nella guerra d’Africa, sul fronte somalo.
Nel ‘42 gli inglesi lo avevano internato in un campo di prigionia in Kenya, e suo padre, che allora aveva tredici anni, si era trovato senza colonia e senza una guerra perché troppo giovane anche quando era finita. Così, diciassettenne, era tornato in Italia alla liberazione del padre il quale però era riuscito, grazie alle amicizie del ventennio, a ottenere una posizione nell’Amministrazione Fiduciaria della Somalia qualche anno dopo.
La famiglia aveva prosperato fino al ‘60, l’anno dell’indipendenza. Poco sicuro di essere gradito, il nonno pensionato da alcuni anni, suo padre era rientrato in Italia poco dopo la sua nascita nel gennaio di quell’anno e ora, alla soglia della pensione, avendo fatto carriera nelle Forze di Pubblica Sicurezza, col grado di commissario capo, prestava servizio nell’ufficio stranieri della Questura di….
Sì, perché con logica militaresca, lo avevano messo in quell’ufficio in virtù del fatto che era nato a Mogadiscio e quindi era un po’ un africano. Sebbene avesse nove mesi quando lo avevano portato via e non fosse più tornato nella sua “patria” africana.
E ora si trovava di fronte a un criminale, - non c’era dubbio di fronte alla legge, era un criminale, - quell’arrogante ghanese, laureato che parlava un corretto italiano, ma senza permesso di soggiorno e un’entrata in Italia clandestina. Nero come il carbone, inquietante nella sua alterigia, non chiedeva nulla, non pietiva e lui aveva tutti i diritti di arrestarlo in attesa di espulsione, cacciarlo dal paese di Bengodi dove si era introdotto illegalmente a rubare il lavoro agli italiani.
Aveva avuto la sfacciataggine di dirgli che il lavoro che faceva era onesto, che lo sfruttavano pagandolo in nero la metà di quanto pagavano un italiano e che nessun italiano voleva rompersi la schiena a farlo…
Figurarsi…
Era un bell’uomo, dignitoso e non sottomesso, che accettava il suo destino ingiusto… Il commissario si trovò questa parola a frullargli per il capo e la scacciò infastidito. Come ingiusto? Il Decreto parlava chiaro. Si trattava non di un illecito amministrativo, ma di un crimine… Come gli venivano certe idee?
Quando vennero a prenderlo quell’uomo lo guardò fisso negli occhi e se ne uscì con una frase che lo lasciò allibito e senza parole. Con un sorriso ironico gli disse: “Lei mi rimanda a casa, può anche mettermi in prigione, perché sono senza le carte che avete deciso che sono necessarie per stare qui. Ma lei e suo padre e suo nonno, che carte avevate per stare in Africa? Quanto è stato legale il vostro ingresso in quei paesi? Io sono entrato pacificamente, voi con la forza delle armi…” E udì mentre lo trascinavano via, che continuava: “… a privarci delle nostre ricchezze e della…” Gli parve di udire la parola “libertà”.
Non dormì quella notte. Non si era mai soffermato a riflettere su ciò. Si rigirò nel letto e alla fine si alzò prima del sorger del sole con un senso di fastidio addosso.
Sarebbe forse sorta l’alba di un giorno nuovo per l’inconcusso, fino allora, commissario Maroni…?

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Anno 6, Numero 25
September 2009

 

 

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