El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

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l'europa rapita dà il suo nome ad un continente intero

yousef wakkas

Sulla sponda orientale del Mediterraneo, nella terra dei Canaanei (Fenicia, o Phoinix per i greci), viveva un re di nome Ashnar, figlio di Yem, dio del mare, e Libia che, una volta, dava il suo nome al continente africano. Ashnar aveva due figli, Cadmus ed Europa (Yoo-Roh-Pa). Il suo regno era molto piccolo, al punto che si poteva stare sul tetto del suo palazzo e vederlo intero (i libanesi tutt'ora si lamentano, dicendo che i confini del loro stato si vede dal tetto della propria casa!). Da una parte era circondato dalle montagne, e dall'altra parte dal mare. Il re pensava che il suo regno fosse il centro del mondo e non sapeva quasi nulla delle terre di altri popoli. In ogni caso, era molto contento del suo piccolo regno e, ovviamente, era anche molto orgoglioso dei suoi figli. Aveva delle buone ragioni per essere fiero di loro; per Cadmus che cresceva per diventare il più coraggioso uomo del regno, e per Europa che sarebbe diventata la più bella principessa del reame. Ma, come nelle migliori tragedie, la sfortuna sopraggiunse tutta d’un colpo, senza nemmeno un preavviso da parte dei potenti semiti, gli Ilohim e Ba'alim (Plurale di Ba'al), tranne un sogno che, per timidezza, Europa non raccontò a nessuno. Sognò infatti di un dio che la amava e un conflitto tra due continenti nelle veste di due donne. Asia diceva: "È mia, perché l'ho data al mondo!". E l'altro continente, che non viene nominato, diceva che l'avrebbe avuta lei, perchè Giove gliela avrebbe donata! In effetti, una mattina, Europa era andata in un campo vicino al mare per raccogliere fiori. Il bestiame di suo padre era nel campo, pascolava tra i dolci trifogli. Tutti gli animali erano addomesticati, e Europa conosceva ognuno di loro con il nome proprio. Il pastore era sdraiato nell’ombra di un albero, suonava il flauto. Europa aveva giocato nel campo migliaia di volte prima, e nessuno aveva mai pensato che avrebbe potuto affrontare un pericolo.

In quella mattina però, aveva notato uno strano toro immischiato con la mandria. Era molto largo, e bianco come la neve, e aveva dolci occhi castani che in qualche modo lo rendevano gentile e mansueto. All’inizio, il toro non degnò Europa neanche di uno sguardo, andando qua e là, con il naso ficcato nella soffice erba che cresceva tra i trifogli. Ma quando Europa raccolse il suo grembiule pieno di margherite e ranuncoli, il toro le si avvicinò lentamente Poichè non aveva del tutto paura di lui, si fermò a guardarlo. Era molto carino. Lui, a sua volta, le si avvicinò di più, e strofinò il suo braccio col naso come per dirle “Buongiorno!’.

Europa gli accarezzò la testa e la nuca, e lui sembrò molto contento. Quindi, fece una corona di margherite, e gliela mise attorno il collo. Lui la guardò con i suoi occhi dolci, e sembrò volerla ringraziare, e per un attimo, si sdraiò tra i trifogli. In seguito, Europa fece una piccola corona, e s'arrampicò sul suo dorso per intrecciargliela intorno alle corna. Ma all’improvviso, il toro balzò in piedi e corse velocemente in modo che non potesse svincolarsi. Lei non ebbe il coraggio di saltare giù mentre quello correva veloce, e tutto quello che pensò di fare, fu di attaccarsi al suo collo e gridare ad alta voce.

Il pastore sdraiato sotto l’albero, senti il suo grido e balzò per vedere che cosa stesse succedendo. Vide il toro che portava Europa sul dorso e correva verso la spiaggia. Corse dietro di loro più veloce che poteva, ma era troppo tardi. Il toro si buttò nel mare, e nuotò lontano velocemente, con la povera Europa addosso. Anche altre persone l’avevano visto, e corsero dal re per avvisarlo. Presto, tutta la città si mise in allerta. La gente corse alla spiaggia per guardare. Tutto quello che si poteva vedere era un punto bianco che si muoveva velocemente verso il mare aperto, e presto lo persero di vista.

Il re mandò le sue navi più veloci per tentare la cattura del toro. I marinai remarono nelle profondità del mare, in una profondità mai raggiunta da qualsiasi nave prima d’allora, ma non vi era traccia di Europa. Quando tornarono, tutti ebbero la sensazione che non vi fosse più speranza, e le donne e i bambini della città si misero a piangere la sua perdita con fervore. Il re si era chiuso nel suo palazzo, e non mangiò nè bevve per tre giorni. Poi, chiamò suo figlio Cadmus, e gli ordinò di prendere la nave e andare a cercare sua sorella, dicendo che non doveva preoccuparsi dei pericoli che avrebbe potuto incontrare sulla sua via, e di non ritornare senza averla trovata.

Cadmus era contento di andare. Scelse venti giovanotti coraggiosi per accompagnarlo, e salpò il giorno dopo. Era un’impresa difficile, in quanto dovevano navigare in un mare sconosciuto, senza sapere dove avrebbero potuto finire. Inoltre, si temeva che non tornassero mai. Le navi non s’azzardavano ad allontanarsi più di tanto in quei giorni. Ma Cadmus e i suoi compagni non avevano paura. Erano pronti per affrontare qualsiasi pericolo.

In pochi giorni arrivarono in un’isola grande di nome Cipro. Cadmus scese sulla spiaggia e tentò di parlare con la strana gente che viveva lì. Erano molto gentili con lui, ma non capirono la sua lingua. Alla fine, riuscì a raccontar loro tramite segni chi fosse e a chiedere se avessero mai visto la sua piccola sorella Europa, o un toro bianco che l’aveva portata via. Quelli scossero le teste, puntando il dito verso ovest.

Un giorno, un vecchio disse a Cadmus che se fosse andato a Delfi a raccontare la propria storia alla sacerdotessa, forse lei avrebbe potuto dirgli qualcosa sul conto di sua sorella. Cadmus non aveva mai sentito di Delphi o della sua sacerdotessa, e chiese al vecchio che cosa intendesse con questo.

"Te lo dirò. – rispose il vecchio – Delphi è una città costruita in prossimità dei piedi della Montagna Parnassus, il punto dove si trova il centro della terra. È la città di Apollo, il portatore della luce, e li vi è un tempio, costruito nella vicinanza del luogo dove Apollo uccise il serpente nero, tanti ... tanti anni fa. Il tempio è il posto più meraviglioso del mondo. Nel mezzo del pavimento, vi è una larga fenditura, o crepa, che va giù... giù dentro la roccia, e nessuno sa quanto sia profonda. Un odore strano viene fuori dalla crepa , e se qualcuno ne respira un po’ cade a terra perdendo i sensi”.
"Ma chi è la sacerdotessa di cui stai parlando?", chiese Cadmus.
"Te lo dirò. – disse il vecchio – La sacerdotessa è una donna saggia, che vive nel tempio. Quando qualcuno le propone una questione ardua, lei prende uno sgabello con tre gambe chiamato tripudio e lo mette sopra la spaccatura del terreno. Poi si siede sullo sgabello e respira l’odore strano, e invece di perdere i sensi come farebbero le altre persone, si mette a parlare con Apollo, e Apollo le dice come rispondere alla questione. Uomini da tutte le parti del mondo vanno lì per chiederle cose che vorrebbero sapere. Il tempio è pieno di regali belli e costosi che portano alla sacerdotessa. A volte, lei risponde con chiarezza, e a volte risponde con engmi, ma ciò che dice risulta sempre vero”.

Quindi Cadmus andò a Delphli per chiedere alla sacerdotessa la sorte della sorella scomparsa. La donna saggia era molto gentile con lui, e quando le diede una bellissima coppa d’oro come ricompensa, lei sedette sul tripudio e respirò l’odore strano che veniva dalla crepa. Poi, il suo viso divenne pallido, e gli occhi si spalancarono, e sembrò come se provasse una gran pena, ma in verità lei stava parlando con Apollo. Cadmus le chiese di raccontargli che fine avesse fatto Europa. Rispose che Giove, nella sembianza di un toro bianco, l’aveva portata via, ed era inutile continuare a cercarla.
"Ma che cosa dovrei fare? – chiese Cadmus – mio padre mi ha detto che non devo ritornare prima di averla trovata”.
“Tuo padre è deceduto – rispose la sacerdotessa – e un re straniero ne ha preso il posto. Tu devi rimanere in Grecia, perchè c’è un compito per te che devi portare a termine”.
"Che cosa devo fare?”, chiese ancora Cadmus.
“Segui la vacca bianca – rispose la sacerdotessa – e sulla collina dove giacerà, devi costruire una citta’”.

Cadmus non capì che cosa lei intendesse con questo, ma non proferi altra parola.
“Questo deve essere uno dei suoi enigmi”, disse, e abbandonò il tempio.

Quando Cadmus uscì fuori dal tempio, vide una vacca bianca come la neve che stava non lontano dalla porta. Sembrava aspettarlo, perché l’aveva guardato con i suoi larghi occhi marroni, e si era messa a camminare. Cadmus ricordò ciò che gli aveva detto la sacerdotessa, e quindi la seguì. Camminò per un intero giorno e un’intera notte attraverso una terra desolata dove non vi era anima viva. Era rimasto con i due uomini che erano salpati con con lui.

Quando sorse il sole, il giorno dopo, s’accorsero che si trovavano sulla cima di una bella collina, con foreste da una parte e prati verdeggianti dall’altra. La vacca bianca si sdraio lì.
“È qui che dobbiamo costruire la nostra città”.
Quindi i giovani accesero un fuoco adoperando ramoscelli secchi, e Cadmus uccise la vacca. Pensavano che se avessero arrostito un po’ della sua carne, l’odore sarebbe salito in alto nel cielo compiacendo Giove e gli altri dei che vivono con lui tra le nuvole, che in questo modo non li avrebbero ostacolati durante il lavoro.
Ma siccome avevano bisogno di acqua per lavare la carne e le loro mani, uno di questi giovanotti era sceso giù dalla collina per trovarne un po’. Avendo ritardato molto l'altro giovanotto, preso dall'ansia, andò a cercarlo.
Cadmus li attese finché il fuoco non divenne brace e il sole non si levò alto nel cielo. Chiamò e gridò, ma nessuno rispose. Alla fine, prese la sua spada e andò giù per vedere che cosa fosse successo.
Seguì le tracce che i suoi amici avevano percorso, e presto giunse a una sorgente di acqua limpida ai piedi della collina. Vide qualcosa che si muoveva tra i cespugli che crescevano lì intorno. Era un drago feroce che lo aspettava per assalirlo. Vi era sangue sulle foglie e sull’erba, e non era difficile intuire che fine avessero fatto i due giovanotti.
La bestia s’avventò contro Cadmus, e tentò di agguantarlo con le sue unghie affilate. Ma Cadmus la scansò con un salto e la colpì con la sua lunga spada sulla nuca. Ne usci fuori una potente fontana di sangue nero, e presto il drago cadde per terra privo di vita. Cadmus aveva assistito a tante scene paurose, ma niente era mai stato così ripugnante come questa bestia. Non aveva incontrato prima d’allora un pericolo del genere. Sedette a terra tremando e, durante tutto quel tempo, pianse i suoi compagni. Come avrebbe costruito la città, senza che qualcuno lo aiutasse?
Mentre Cadmus stava ancora piangendo, rimase sorpreso nel sentire qualcuno che lo chiamava. S’alzò e guardò intorno. Sul pendio della collina dinanzi a lui, stava una donna alta che indossava un elmetto sulla testa e reggeva uno scudo nella mano. I suoi occhi erano grigi, e il suo viso, sebbene non fosse bello, erano molto nobili. Cadmus seppe all’istante che si trattava di Athena, la regina dell’etere, colei che donava saggezza agli uomini.
Athena disse a Cadmus che doveva prendere i denti del drago e seminarli nella terra. Egli pensò che si trattasse di una semina strana. Ma lei disse che se lo avesse fatto, presto avrebbe avuto a sua disposizione uomini sufficienti per aiutarlo nella costruzione della sua città, e prima che proferisse una parola, sparì della sua vista.

Il drago aveva tanti grossi denti, cosi tanti che quando Cadmus li estrasse riempirono il suo elmetto. Il prossimo passo era trovare un posto adatto per seminarli. Era appena ritornato dalla sorgente, quando vide due buoi da giogo che stavano a poca distanza da lui. Andò loro incontro e trovò che erano attaccati per arare. Che cosa poteva chiedere di più? La terra nel prato era soffice e nera, ed egli guidò l’aratro giù e su, facendo lunghe fessure e coprendole con terra fertile. Dopo averli seminati tutti in quel modo, si sedette sul fianco della colina e si mise ad osservare ciò che sarebbe accaduto.
In poco tempo la terra sulle fessure incominciò a muoversi. Poi, in ogni punto dove i denti erano sepolti, qualcosa di luminoso incominciò a crescere. Erano elmetti di ottone. Apparvero gli elmetti, e presto facce di uomini sotto di essi, poi le loro spalle, quindi le braccia, i corpi, e poi, prima che Cadmus potesse pensare, migliaia di guerrieri balzarono dalle fessure, facendo tremare la terra sotto i loro piedi. Ognuno indossava un’armatura di ottone, e ciascuno di loro aveva una lunga lancia nella mano destra e uno scudo in quella sinistra.
Cadmus era terrorizzato nel vedere quella strana raccolta venuta fuori dai denti del drago. Gli uomini sembravano crudeli ed egli ebbe paura che l’avrebbero ucciso se l’avessero visto. Si nascose dietro il suo aratro e incominciò a tirare sassi contro di loro. I guerrieri non sapevano da dove venivano i sassi, ma ognuno di loro pensò che lo avesse fatto il suo vicino. Presto si misero a lottare fra loro. Morirono uno dietro l’altro, e in poco tempo ne rimasero vivi soltanto cinque. Allora Cadmus corse verso di loro e li disse:
“ Fermi! Smettetela di lottare! Voi siete i miei uomini, e dovete venire con me. Costruiremo una città qui”.
Gli uomini obbedirono. Seguirono Cadmus sulla cima della collina, ed erano cosi buon lavoratori che in pochi giorni costruirono una casa sul posto dove la vacca si era sdraiata.
Poi costruirono altre case, e la gente venne a vivere in esse. Chiamarono la città Cadmeia, e Cadmus ne fu il primo re. Ma quando si espanse e divenne una grande città, fu conosciuta come Thebes.
Cadmus era un re saggio, e dopo un lasso di tempo, con la benedizione degli dei, si sposò con Harmonia, la bella figlia di Ares e Afrodite. Tutti i membri della pantheon erano presenti al matrimonio, e Athena regalò alla sposa una meravigliosa collana.
Ma la cosa più grandiosa che Cadmus aveva compiuto, non è stata ancora raccontata. Egli fu il primo maestro di scuola per i greci, perchè insegnò loro le lettere che si usavano nel suo paese d’origine; i greci avevano chiamato la prima di queste lettere Alpha e la seconda Beta, e per questo motivo la gente le chiama Alfabeto ancora ai nostri giorni. E quando i greci impararono l’alfabeto da Cadmus, incominciarono subito a leggere e a scrivere libri belli e utili. Infatti, storicamente l'alfabeto greco deriva dalla terra dei fenici (nella regione della moderna Syria, Libano e Palestina), mitologicamente la dimora di Cadmus e di sua sorella.

Mentre, per quanto riguarda la fanciulla Europa, era stata portata in salvo attraverso il mare lungo una spiaggia lontana. Forse fu felice nella nuova e strana terra dove approdò, dove non riceveva più notizie di casa sua. Che sia vero o no che Giove in sembianza di toro l’abbia rapita, nessuno può saperlo. Tutto accadde molto tempo fa. Ma una cosa è certa: fu molto amata da tutti quelli che l’ebbero conosciuta, e il grande vecchio continente, dove era stata riportata, fu chiamato da quel giorno Europa.

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punto e a capo... verde

yousef wakkas

Un uomo di statura media scese le scale in fretta, leggendo con la voce bassa, surrogata in tono suffuso, l'Ave Maria. Era diventato un rito da quando aveva preso il suo primo soggiorno undici anni prima. Incamminandosi verso la fermata del tram, euforico, snebbiava la mente dai cattivi pensieri. Con il cuore che tracimava dolcezza, duettava con l'alter ego spensierato: Milano, quanto ti amo! Sarebbe una vita guasta, se m'abbandonasse.
Beato lui, avrebbe detto qualcuno notando il suo sorriso largo: l’agiatezza acquistata a colpi di mazze e martelli pneumatici e lo sprint spirituale, limitavano il malessere. Anche la sua condotta tendeva ormai da tempo a essere stabile. Niente più vampate di rabbia e un atteggiamento più comprensivo verso l’ostilità. Ma se avesse dovuto sforzarsi e ritornare con la mente ai suoi primi giorni in Italia, sarebbe inorridito. Immenso fulgore, con risveglio coatto e una voce che veniva da sottosuolo: dove vai, bello? Allora, gettava via le lenzuola di cartone e guardava intorno provando un orrore autentico. Era fragile, pieno di incertezze e abbastanza ingenuo per credere che l'amore vince sempre e che i finocchi crescono sugli alberi. L’esperienza insegna, prima con Serena, la figlia del fruttivendolo, e poi con Ires, una sua connazionale. Se dovesse poi andare oltre con i ricordi, si lascerebbe trascinare dalla nostalgia oltre il limite, ipotizzando verdi pascoli sulla luna e un viavai di gente che non saprebbe dire se fossero davvero interessati a conoscerlo o si prendessero gioco di lui, come, per esempio, il Sig. Folin, ex funzionario convertitosi all'assistenzialismo. Infatti, oltre a raccogliere firme per aiutare la gente che "soffre" la fame nei paesi del terzo mondo, il Sig. Folin faceva il volontariato in diverse associazioni caritatevoli. S’incontravano nel club dei vecchi aviatori, ma anche al bar, il Bar dello Sport, e qualche volta sulle scalinate della chiesa, la domenica, dopo la messa. Ma questa volta, il Sig Folin aveva insistito più del solito. Nuvole in vista, o qualcosa del genere, disse. Ci mancherebbe! Aggiunse, saltando la testa del discorso: a presto, carissimo! E la testa? Forse perché voleva arrivare subito al sodo. Capisco, signore. Le sono grato per avermi parlato ... ascoltato ... compreso ... solo Dio ha queste caratteristiche ... e tu, ti sei fatto a tua immagine, incontaminato dalla tua intelligenza superiore.
Dopo quattro fermate, l’uomo incominciò a sentirsi malinconico senza un motivo apparente, una cosa che lo spinse a pensare e quindi a preoccuparsi. Il gioco del tira e molla. Adesso, è da vedere chi resisterebbe più dell’altro: io o il mio antagonista? E chi sarebbe mai questo antagonista? Sotto elezioni amministrative, uno potrebbe anche pensare a una di quelle facce tirate a lucido che lo circondano da tutte le parti, ma forse conviene farlo? No. Le cose potrebbero mettersi male. Come straniero bisogna essere consapevole della propria situazione, e a dire il vero, anche della propria categoria! Solo a questo punto l’uomo si rese conto che l’interlocutore che scorazzava nella sua mente non era altro che il Sig. Folin, chiedendosi con quale tecnica o sotterfugi era riuscito a intrufolarsi nella sua testa, indirizzando i suoi pensieri verso un binario che portava al nulla. Non proprio al nulla, ma qualche chilometro dinanzi. Dinanzi dove? Non lo aveva rivelato. È un tipo scaltro, anzi furbo ... sì, proprio furbo, perché era riuscito a capire due o tre cose sul suo conto, e quindi stava cercando di metterlo in trappola. La soluzione tracciata sul grande davanzale dell’immaginazione, l’aveva intuita poco prima di arrivare all’appuntamento, all’altezza dell’incrocio tra Via Meda e Via Cerminate, tetra e poco chiara. Piuttosto ambigua.
Allora, a che cosa servirebbe una soluzione ambigua? “Caro Gabriele, le soluzioni da sempre sono servite a qualcosa”, gli ripose il Sig. Folin, conducendolo verso un salotto luminoso, abbellito di statuette e tende di velluto rosso. Era una scena reale, dove si poteva toccare e annusare tutto, ma sembrava varcare la soglia di un sogno, e qui si chiese: perché mai trasformare la realtà in un sogno?
“Accade spesso”, rispose il Sig. Folin, “altrimenti come facciamo ad accorgercene se non poniamo l’opposto?”.
Infine, giunse alla domanda cruciale: “Perché mi trovo proprio in questo luogo, e non nel mio posto di lavoro, ad esempio?”.
“Perché, caro Gabriele, siamo giunti a un punto che ci obbliga a lasciare il passato indietro e guardare avanti, auspicando un futuro diverso”.
Non vi erano rimaste delle domande, ma piuttosto qualche osservazione, tanto per soddisfare l’esigenza dell’inquietudine:
“L’avevo già auspicato e sono quasi a metà strada!”
. ‘No ... no, Gabriele! Non si trattava di auspicio, bensì di un desiderio, sia chiaro!”.
“E dunque?”.
“Niente, come qualsiasi progetto, anche il tuo era oggetto di successo o di fallimento”.
Gabriele lo guardò a lungo. Era impassibile.
“Ho fallito?”
“Non proprio, solo che non sei riuscito a mantenere il patto stipulato con il governo.
C’erano clausole da rispettare e impegni da portare a termine”.
“Ma io ho fatto del mio meglio, ho imparato persino il dialetto!”.
Il Sig. Folin, versò due bicchieri di vino. Era il momento più delicato. Se fosse stato per lui, gli avrebbe fatto tracannare una bottiglia di grappa e l’avrebbe portato a peso morto sull’aereo. Invece, era costretto a coccolarlo e trattarlo con molta gentilezza, una cosa che gli faceva saltare i nervi.
“Bravo ... davvero ...” – disse dopo un attimo, opprimendo la sua rabbia – pochi sono riusciti a farlo, caro Gabriele. Difatti, questo passo ti ha fatto guadagnare quattro punti, ma da un altra parte, ti sei fatto fregare di ben undici punti”.
“Per quale motivo?”.
“Per via di quella stupidaggine che hai commesso al mercato, dando dell’imbecille al vigile urbano. Non si fanno queste cose, caaaaro Gabriele, non si fanno!”.
“Mi ha istigato?”
“E la parabolica montata sul tetto?”
“Volevo vedere i canali del mio paese”
“Ecco ... ecco ... il tuo paese? E come la mettiamo con la clausola no. 2?" Invece di rispondere, Gabriele si mise a pensare alle tante occasioni che non aveva saputo sfruttare per italianizzarsi o almeno neutralizzarsi. Il Sig. Folin s'accorse del senso di colpa che divorava il cuore del suo interlocutore, allora, avvalendosi del terzo paragrafo, comma 2, mollò un pugno sul tavolo gridando:
"Hai perso per sempre. Ora ... con molta dignità ... anzi, con dignità commista a rigore, devi affrontare il tuo viaggio verso le radici"
“E cosa guadagnerò in cambio?"
Era spinto dall'ingenuità, ma il Sig. Folin, con un senso civile molto elevato, accettò quell’esigenza, peraltro fuori discorso, con cuore pieno di pietà.
"Il nostro rispetto ...", rispose. Poi, egli stesso si domandò: “Che cavolo guadagnerà del nostro rispetto?”. Ma Gabriele non la pensava cosi, anzi ci contava proprio su un atto mancato nei suoi confronti. Tuttavia, non era del tutto convinto:
"Se non l'ho guadagnato dopo undici anni, come farei a guadagnarlo adesso?".
Qui, a questo punto, il Sig. Folin perse la pazienza:
"Allora, cretino che non sei altro, non ti basta che ti abbiamo dato ciò che non avevi:
posto di lavoro e un tetto dove ripararti il culo?"
E anche Gabriele perse la pazienza, e disse dentro di sé:
"Allora, scemo che non sei altro, non ti bastava che ti abbia dato la mia forza e i migliori anni della mia vita?". E non seppe mai come il Sig. Folin avesse potuto registrare questo suo pensiero, facendolo ascoltare, in sua presenza, al comitato di Premiazione & Integrità Sociale, la famosa PIS, che emetteva l’ultimo giudizio sul percorso del singolo immigrato.
Come era previsto dalle regole del contratto di integrazione, il percorso di Gabriele ebbe termine a questo punto ... l'ultimo punto che gli era rimasto.
Più tardi, verso sera, il presidente del PIS, rilassato di ottimo umore, sedette a dettare il verbale di allontanamento.
"Punto a capo", disse entusiasta.
"Come?", chiese il Sig. Folin.
"Cioè: metti un puntino e inizia da capo. Intesi?"
"Si"
"E come destinazione, l'interdetto, accompagnato da entità autorizzate, va spedito al suo paese d'origine, punto, a Capo Verde ..."
“Cioé: punto a capo?"
"No: punto a Capo Verde"
"Sulla stessa riga o sulla riga successiva?"
"No, sulla stessa riga! Punto a Capo Verde ... Punto a Capo Verde. Hai capito, imbecille?!"

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Anno 6, Numero 25
September 2009

 

 

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