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Come venivano considerati gli stranieri nella Grecia classica? Esistevano degli istituti particolari che cercavano di proteggere e tutelare i migranti e gli esuli? Un viaggio attraverso le fonti per ricostruire il quadro storico di come vivevano gli stranieri nella Grecia antica.
1. Stranieri ed esuli nella Grecia classica
Il cittadino greco dell’età classica aveva un forte senso della sua identità, che si concretizzava nel mito dell’autoctonia, ben espressa da Erodoto in un celebre passo delle sue Storie: «l’essere Greci (tò Hellenikón), la comunanza di sangue e di lingua, i santuari e i sacrifici comuni, gli usi e costumi simili: tradire tutto ciò sarebbe disdicevole per gli Ateniesi»1.
La coscienza di appartenere ad una civiltà dotata di un’unità etnico-culturale si unisce anche alla ferma convinzione di essere uomini liberi, come evidenziato anche nel celebre passo dell’Epitafio di Pericle: «Ma per prima cosa comincerò dagli antenati… Restando sempre i medesimi abitatori di questa terra, in un seguito ininterrotto di generazioni, grazie al loro valore, la tramandarono libera (eleuthera) fino ai nostri giorni»2.
Dunque, l’autoctonia e la libertà risultavano unite in un binomio inscindibile nella Grecia classica e incisero in modo significativo sulla percezione dello straniero.
Nel mondo greco, infatti, oltre a questa forte percezione dell’omogeneità culturale, c’era anche una estrema frammentazione politica, che indusse i cittadini greci ad essere molto riluttanti ad accogliere gli stranieri nelle loro comunità3.
I Greci distinguevano solitamente tra due tipologie di stranieri: gli xenoi, cioè gli stranieri di stirpe greca, che appartenevano ad una comunità politica diversa dalla propria, e i bárbaroi, che non erano Greci e quindi venivano considerati come due volte stranieri, perché lo erano sia sul piano etnico-culturale, sia su quello politico4.
Gli xenoi appartenevano alla stessa comunità greca di sangue, lingua, culti e costumi, descritta da Erodoto, e l’estraneità investiva esclusivamente l’aspetto politico: si trattava, infatti, di cittadini di un altro stato, città (polis) o stato federale.
Invece i bárbaroi erano oggetto di una marginalizzazione più radicale, come dimostra anche l’origine del termine usato per designarli. Bárbaros indica infatti colui che parla una lingua incomprensibile, percepita come un balbettio inarticolato. Venivano quindi considerati inferiori ai Greci come cultura, usi e costumi, in un’accezione del termine che ancora oggi sopravvive quando si utilizza l’aggettivo “barbaro” per indicare una persona rozza e incivile. Oltre ad una convinta sottolineatura della loro inferiorità venivano anche caratterizzati come schiavi, cioè douloi, di fronte al dispotismo di un monarca, rispetto ai Greci che invece erano cittadini liberi e autonomi dello stato5. In particolare questa percezione dello straniero come asservito al regime monarchico viene percepita soprattutto all’epoca delle guerre persiane, come viene sottolineato anche dalla letteratura contemporanea. Eschilo nei Persiani evidenzia la superiorità non tanto di natura dei Greci sui barbari, quanto di civiltà politica. I Greci sono coloro che «di nessun mortale sono chiamati servi né sudditi»6. L’antinomia tra il cittadino libero (polites) e il suddito (doulos) viene espressa molto bene nel sogno fatto da Atossa, madre di Serse. La Grecia e la Persia sono rappresentate come due donne, uguali per origine, ma diverse per comportamenti, infatti, l’una è docile al giogo e pronta a sottomettersi, l’altra intollerante ad ogni tipo di costrizione: «Sempre la notte mi trovo immersa in molti sogni, da quando mio figlio, muovendo un esercito, è partito per distruggere la terra degli Ioni: ma mai ne vidi uno così chiaro come la scorsa notte: te lo racconterò. Mi sembrò che apparissero due donne ben vestite, l’una adorna di pepli persiani, l’altra in abiti dorici, molto più maestose per statura delle donne attuali, perfette per bellezza, e sorelle della stessa stirpe; ma come patria abitavano l’una la terra greca, l’altra la barbara, come la sorte aveva loro assegnato. Costoro, mi parve di vedere, iniziavano una contesa; e mio figlio, accortosene, cercava di trattenerle e di placarle, e al carro le aggioga e pone al loro collo le cinghie. Allora una s’inorgogliva di quella bardatura e aveva la bocca docile alle redini, l’altra invece si scuoteva, e con le mani strappa i finimenti del carro, e lo trascina a forza senza freni, e spezza a metà il giogo. Mio figlio cade, e suo padre Dario si avvicina a commiserarlo: ma Serse, come lo vede, si straccia le vesti intorno al corpo»7.
Nel corso del IV secolo, l’idea della superiorità dei Greci sui barbari si carica di nuovi significati, che vanno ben oltre la sfera politica. Aristotele sottolinea che: «i barbari, essendo per natura più servili dei Greci (e i popoli asiatici sono più servili di quelli europei), sopportano senza difficoltà un potere dispotico esercitato su di loro»8. Anche Isocrate considera i barbari inferiori per natura ed esalta in questo modo gli Ateniesi: «Voi vi segnalate sugli altri non per la preparazione alla guerra o perché avete la migliore forma di governo o osservate col massimo scrupolo le leggi lasciatevi dagli avi, ma per quelle qualità per cui la natura umana si eleva sugli animali e la stirpe ellenica sui barbari, cioè per avere un’educazione superiore agli altri nel pensiero e nella parola»9.
Quindi tra Greci e barbari non esisteva più una contrapposizione di natura politica tra popoli liberi e schiavi, ma emerge l’idea di una vera e propria superiorità etnica dei Greci. Progressivamente la Grecità, il tò Hellenikón di cui parlava Erodoto, viene ad essere considerato sinonimo di cultura e civiltà.
Ma se gli stranieri, xenoi o bárbaroi che siano, non avevano vita facile nella Grecia classica, la condizione degli esuli (phygades) non era migliore10. Infatti essi erano uomini rimasti privi della cittadinanza, come sottolineato anche da un altro termine utilizzato per designarli: apolidi. In quest’espressione si ricorre, in posizione iniziale, all’a (alfa) privativo, che indica solitamente la mancanza, la perdita di qualcosa. Nella seconda parte di questa parola si riconosce la radice del termine polis, che indica una particolare forma di governo, ma anche la cittadinanza, intesa come appartenenza ad una comunità politica e civile. Quindi gli apolidi, in base all’etimologia del termine, sono coloro che sono privi della cittadinanza. Per i Greci l’appartenere ad una comunità politica e civile era un valore molto importante e per questo motivo coloro che ne erano privi, per qualsiasi motivo, non solo erano considerati con disprezzo, ma non avevano alcuna tutela giuridica. Di solito si diventava esuli in seguito a provvedimenti di bando, dovuti a motivi di carattere politico, oppure per l’applicazione di una pena. Molto spesso, però, si ricorreva volontariamente a tale condizione, proprio per evitare questi provvedimenti, nella speranza di trovare altrove migliori condizioni di vita. Nel corso del IV secolo vi fu una crescita notevole del numero degli esuli nel mondo greco: gli apolidi andavano ad accrescere le masse di avventurieri, mercenari, mercanti e spesso erano dediti anche al brigantaggio. Si trattava di grandi masse di uomini sventurati, che avevano perso tutto: le amicizie, gli affetti, il lavoro, i beni come ricorda anche Isocrate nel Panegirico: «Quando… sarà eliminata dalla nostra vita la povertà, che distrugge le amicizie, spinge i parenti all’odio e getta tutti quanti in guerre e dissidi, allora senza dubbio andremo d’accordo e avremo sinceri sentimenti di benevolenza gli uni per gli altri»11.
La solitudine degli esuli viene descritta in modo molto efficace anche in un passo del Plataico di Isocrate: «Chi potreste trovare più sfortunati di noi, che privati in un sol giorno di città, terra ed averi, bisognosi assolutamente di tutto, siamo ridotti vagabondi e mendichi non sapendo dove rivolgerci, e provando disgusto per tutte le sedi? Infatti se incontriamo degli sventurati, ci addoloriamo di essere obbligati, oltre ai nostri propri mali, a prender parte anche agli altrui; se ci rechiamo presso persone che stanno bene, la nostra condizione è ancor più penosa, non perché invidiamo la loro prosperità, ma perché in mezzo alla felicità altrui ci avvediamo meglio delle nostre sventure, sulle quali non c’è giorno che non versiamo lacrime, passando il nostro tempo a compiangere la patria e a lamentare il cambiamento che abbiamo subito. Quali pensate siano i nostri sentimenti vedendo che i nostri genitori sono assistiti indegnamente nella loro vecchiaia, che i nostri figli non sono allevati conforme alle speranze che avevamo concepite, ma che molti sono caduti in servitù per debiti da nulla, altri vanno a lavorare a mercede, altri si procacciano il sostentamento quotidiano come ognuno può, in modo non conveniente alle imprese degli antenati, alla loro età e alla loro fierezza? Ma la cosa più penosa di tutte è quando si vede separare non solo i cittadini gli uni dagli altri, ma anche le mogli dai mariti, le figlie dalle madri e tutti i legami di parentela dissolversi. Ciò è accaduto a causa dell’indigenza a molti dei nostri concittadini, perché la rovina della vita comunitaria ha spinto ciascuno di noi a nutrire solo speranze egoistiche»12.
2. Gli istituti a tutela di stranieri e esuli
La più antica forma di tutela per gli stranieri fu la xenía: si trattava di una forma di ospitalità fondata sulla reciprocità, che prevedeva la mutua assistenza13. In poche parole, una persona conosceva un greco appartenente ad un’altra comunità e stringeva con lui legami di amicizia. Tale rapporto veniva suggellato dallo scambio di symbola, cioè di piccoli oggetti che venivano divisi in due parti: una metà per ciascuno dei due contraenti del patto. In futuro, la persona stessa o il figlio poteva recarsi in quella città e chiedere ospitalità all’amico o ai suoi eredi, esibendo come prova della passata amicizia, la propria porzione del simbolo. Da questo uso di oggetti rituali, che “simboleggiano” un legame passato di reciprocità è derivato il significato attuale di simbolo, come emblema, segno.
Da questa antica pratica privata si passò poi alla prossenia14. Il prosseno era un cittadino che, risiedendo nella sua città d’origine, rappresentava la comunità straniera che gli aveva conferito tale incarico. Veniva nominato dalla collettività interessata non fra i propri abitanti, ma fra quelli della città in cui si desiderava assicurare protezione ai propri cittadini quando vi giungevano come xenoi. Il suo compito principale era quello di assicurare la protezione materiale dello xenos e la cura dei suoi interessi; a sua volta il prosseno godeva di alcuni diritti nello stato che gli aveva conferito il titolo e spesso gli veniva anche concessa la cittadinanza15.
In ambito sacrale, la principale forma di tutela dello straniero era costituita dall’asylía16. Inizialmente l’inviolabilità riguardava solo lo hieròn ásylon, cioè il luogo sacro, ma in seguito tale concessione fu inclusa anche nella legge dello stato. L’asylía divenne così l’immunità dal diritto di rappresaglia concessa ad alcune persone in virtù di particolari benemerenze, o anche ad intere città, in seguito a particolari trattati.
Presto si manifestò in Grecia l’esigenza di stabilire delle condizioni di tutela idonee per coloro che erano costretti a viaggiare da una città all’altra per motivi di lavoro. Così, recuperando il termine che indicava i doni che gli ospiti si scambiavano in segno di amicizia, furono istituiti i symbola17. Essi erano delle convenzioni giudiziarie, di carattere reciproco, stipulate tra due stati, che servivano per proteggere i rispettivi cittadini nei casi di contenzioso riguardanti prevalentemente l’ambito commerciale.
Comunque, lo straniero di passaggio nella polis ateniese godeva di alcuni diritti, come quello di svolgere traffici commerciali nell’agorá, di usare pascoli in territorio ateniese, di possedere immobili e di sposare una donna attica. Ma queste ultime due concessioni, che incoraggiavano la stabilizzazione nella città, erano molto eccezionali. Nella democratica Atene tutti erano d’accordo a tutelare lo xenos di passaggio per traffici commerciali, ma erano molto riluttanti nel permettere che si stabilisse definitivamente nella loro città, perché comunque percepivano lo xenos come un estraneo.
L’istituto che senza dubbio fu il più importante per la tutela degli xenoi fu la metoikía18. I meteci erano stranieri, di stirpe greca, che si stabilivano in Atene per motivi commerciali. In pratica erano degli xenoi, ma grazie a questa particolare istituzione potevano godere di alcuni diritti. Innanzitutto il meteco aveva l’obbligo di mettersi sotto la protezione di un cittadino, che assumeva la funzione di patrono (prostates). Quindi anche nel caso di questa istituzione risultava fondamentale avere una conoscenza o un contatto nella città nella quale ci si doveva stabilire per motivi di lavoro. Il compito di questo patrono era quello di appoggiare la richiesta di iscrizione nelle liste dei meteci e di garantire il pagamento della tassa di 12 dracme l’anno cui erano sottoposti gli stranieri residenti. Infatti, i meteci erano iscritti in speciali registri anagrafici e prestavano servizio militare, ma erano esclusi da ogni forma di partecipazione politica. Nel caso in cui i meteci fossero stati coinvolti in azioni giudiziarie era sempre il patrono che doveva compiere una funzione di garanzia in sede di citazione o di istruttoria, anche in relazione al deposito delle spese legali, come testimonia anche Aristotele: «Non si è cittadini perché si abita un certo luogo (ché anche i meteci e gli schiavi condividono con i cittadini il luogo di residenza), né perché si abbia accesso alle istituzioni giudiziarie, sì da poter comparire in un tribunale o da potervi citare qualcun altro (ché questo diritto deriva anche dai trattati che lo concedono a chi li ha stipulati; e spesso i meteci non ne godono che parzialmente, in quanto devono ricorrere ad un patrono, il che impedisce loro di far parte in senso pieno di una comunità)»19.
Esistevano dunque delle forme di tutela per gli stranieri di stirpe greca, gli xenoi, ma anche quando queste concessioni passarono dalla forma dell’accordo privato a un’istituzione pubblica, comunque, rimaneva fondamentale conoscere una persona fidata nella città nella quale ci si doveva recare per lavoro. Il patrono era un vero e proprio garante dell’incolumità del meteco e quindi era necessario che fosse una persona di fiducia e di specchiata moralità.
Anche per gli esuli esistevano delle forme di tutela, che di solito consistevano nel chiedere ospitalità ad un’altra comunità politica, anche se in realtà la massima aspirazione degli apolidi era costituita non dall’integrazione in un nuovo contesto politico, ma dal ritorno alla propria comunità d’origine.
Solitamente l’esule si appellava al principio religioso della sacralità dell’ospite e si poneva sotto la protezione di Zeus Xenios, a volte anche come supplice (hiketes). Spesso succedeva che le comunità politiche esitassero a concedere protezione agli apolidi, per motivi di opportunità politica, come ad esempio la volontà di evitare conflitti con la città d’origine dell’esule. Appare evidente che la condizione dell’apolide in Grecia era molto insicura: egli poteva essere dichiarato nemico dallo stato ospite, e quindi perseguito, catturato e ucciso, oppure poteva essere oggetto di una richiesta di estradizione. Nella tragedia attica viene spesso sottolineato il rischio che l’esule correva nel momento in cui si rivolgeva a una città per chiedere protezione e ospitalità20.
3. Verso una possibile integrazione nella Grecia ellenistica
Dall’analisi delle fonti storiche condotta in precedenza, appare evidente che i Greci dell’età classica erano decisamente intolleranti nei confronti degli stranieri. I bárbaroi, gli stranieri che non erano di stirpe greca erano oggetto di una ferma discriminazione. A tutela degli xenoi, cioè di coloro che appartenevano ad una comunità politica greca diversa dalla propria, furono create delle istituzioni, prima di natura privata, poi pubblica. Però è opportuno fare delle necessarie distinzioni riguardo al modo in cui venivano considerati gli stranieri. Ad Atene erano stati presi dei provvedimenti a tutela degli xenoi residenti in città, come nel caso della metoikía. Invece a Sparta gli stranieri di passaggio erano tenuti sotto attento controllo e venivano praticate anche regolari xenelasíai, cioè espulsioni di stranieri21.
Al di là di queste differenze legate anche ad un diverso stile di vita, tutto il mondo greco è accomunato da un fermo rifiuto dell’integrazione più marcato verso il bárbaros, ma evidente anche per lo xenos. Progressivamente però, anche una civiltà come quella greca, tradizionalmente chiusa e ostile verso gli stranieri, dovette giungere con loro ad un compromesso, dando una sorta di «definizione funzionale»22 a queste persone, che costituivano ormai una presenza stabile nelle loro città. Si veniva così a creare una specie di tacito accordo, di contratto tra lo straniero e la polis che lo ospitava. Se il migrante svolgeva un’attività apprezzabile in campo economico, contributivo, militare o evergetico, poteva essere lasciato libero di svolgere il suo lavoro e veniva quindi tutelato da appositi istituti. Ciò mostra comunque che molte erano le difficoltà che doveva fronteggiare uno straniero nel mondo della Grecia classica.
Durante l’età ellenistica questa mentalità chiusa e ostile verso i migranti cominciò a cambiare. Le conquiste di Alessandro Magno avevano contribuito significativamente ad allargare l’orizzonte culturale e mentale dei Greci e anche la loro mentalità verso gli stranieri subì un ammodernamento consistente. Infatti all’interno dei vari regni ellenistici, i Greci-macedoni si trovavano necessariamente a dover convivere con persone appartenenti a culture diverse dalla loro. Le reazioni a questa nuova situazione multietnica e multiculturale che si venne a creare furono molto diverse a seconda dei vari stati. Nel regno seleucidico l’integrazione fu abbastanza agevole, perché tale governo ereditò pienamente il carattere sovranazionale dell’impero persiano, che era stato un vero e proprio crogiuolo di culture. Invece, in Egitto la situazione fu molto più difficile, perché i Tolomei non promossero alcuna iniziativa per integrare gli stranieri. Nel regno tolemaico l’unico caso riuscito di perfetta integrazione tra diverse etnie è costituito dalla città di Alessandria. Tale metropoli può essere significativamente assunta come esempio della diversa capacità del mondo ellenistico, rispetto alla Grecia classica, di superare le barriere razziali.
1 ERODOTO Storie, VIII, 144 (traduzione di F. BEVILACQUA). Sul mito dell’autoctonia si veda M. SORDI, Propaganda e confronto politico, in Alle radici della democrazia: dalla polis al dibattito costituzionale contemporaneo, a cura di A. D’ATENA e E. LANZILLOTTA, Roma, Carocci, 1998, pp. 57-67.
2 TUCIDIDE Storie, II, 36, 1 (trad. di F. FERRARI). Lo stesso binomio di autoctonia e libertà emerge anche da un passo dell’Epitafio di Lisia: «Era prerogativa dei nostri antenati combattere con risoluzione unanime in difesa della giustizia. La loro stessa origine infatti si fonda sul diritto! Essi non abitavano, come la maggior parte degli uomini, una terra altrui dopo essersi raccolti da molte parti e aver scacciato altre genti, ma erano autoctoni ed ebbero la stessa terra come madre e come patria. Primi e unici a quel tempo cacciarono le potenti famiglie che li dominavano e fondarono la democrazia, nella convinzione che la libertà di tutti sia il miglior fondamento della concordia, e messe in comune le speranze nate dalle lotte si governavano con spirito libero» (LISIA Epitafio, 17-18, trad. di E. MEDDA).
3 Per avere un quadro approfondito su come veniva considerato lo straniero nel mondo greco si vedano M.F. BASLEZ, L’étranger dans la Grèce antique, Paris, Les belles lettres, 1984; L’étranger dans le monde grec, Actes du Colloque organisé par l’Institut d’études anciennes, Nancy, mai 1987, suos la direction de R. LONIS, Nancy, Presses universitaires de Nancy, 1988; M. MOGGI, Straniero due volte: il barbaro e il mondo greco, in Lo straniero ovvero l’identità culturale a confronto, a cura di M. BETTINI, Bari, Laterza, 1992, pp. 51-76; M. MOGGI, Lo straniero (xenos e barbaros) nella letteratura greca di epoca arcaica e classica, in «Ricerche storico-bibliche», VIII (1996), n° 1-2, pp. 103-16; W. NIPPEL, La costruzione dell’”altro”, in I Greci: storia, cultura, arte e società, a cura di S. SETTIS, I, Torino, Einaudi, 1996, pp. 165-96; C. BEARZOT, Lo straniero nel mondo greco: xenoi, apolidi, barbari, in Stranieri, profughi e migranti nell’antichità, in «Nuova Secondaria», XVIII (2000), n° 3, pp. 30-38; Il cittadino, lo straniero, il barbaro fra integrazione ed emarginazione nell’antichità, Atti del I Incontro internazionale di Storia antica, Genova, 20-22 maggio 2003), Roma, Bretschneider, 2005; C. BEARZOT, Tra identità e integrazione: aspetti della posizione dello straniero nel mondo greco, in «Rivista della Scuola superiore dell’economia e delle finanze», III (2006), n° 1, pp. 8-20.
4 Il bárbaros si contrappone «in maniera simmetrica e completa alla duplice identità dell’uomo greco» (M. MOGGI, Greci e barbari: uomini e no, in Civiltà classica e mondo dei barbari. Due modelli a confronto, a cura di L. DE FINIS, Trento, Dipartimento di scienze filologiche e storiche, Università di Trento, 1991, pp. 31-46, a p. 34).
5 Si veda in particolare il discorso di Demarato a Serse riportato in ERODOTO Storie, VII, 101-105.
6 ESCHILO Persiani, v. 242 (trad. di G. e M. MORANI).
7 ESCHILO Persiani, vv. 176 e seguenti (trad. di G. e M. MORANI).
8 ARISTOTELE Politica, 1285 a 20 e seguenti (trad. di C.A. VIANO).
9 ISOCRATE Antidosi, 293-94 (trad. di M. MARZI).
10 Sulla condizione degli esuli nel mondo greco si vedano J. SEIBERT, Die politischen Flüchtlinge und Verbannten in der griechischen Geschichte, I-II, Darmastadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1979; C. BEARZOT, Xenoi e profughi nell’Europa di Isocrate, in Integrazione, mescolanza, rifiuto. Incontri di popoli, lingue e culture in Europa dall’Antichità all’Umanesimo, Atti del Convegno internazionale, Cividale del Friuli, 21-23 settembre 2000, a cura di G. URSO, Roma, Bretschneider, 2001, pp. 47-63.
11 ISOCRATE Panegirico, 174 (trad. di M. MARZI).
12 ISOCRATE Plataico, 46-49 (trad. di M. MARZI).
13 Sulla xenia si veda M. SCOTT, Philos, philotes and xenia, in «Acta classica» XXV (1982), pp. 1-19.
14 Sulla prossenia si vedano M.B. WALBANK, Athenian Proxenies of the Fifth Century B.C., Toronto Sarasota, S. Stevens, 1978; C. MAREK, Die Proxenie, Frankfurt am Main, P. Lang, 1984; A. GEROLYMATOS, Fourth-Century Boiotian Use of the Proxenia in International Relations, in La Béotie antique, Colloque international, Lyon- Saint-Étienne, 16-20 mai 1983, organisé par P. ROESCH et G. ARGOUD, Paris, Éditions du Centre national de la recherche scientifique, 1985, pp. 307-309; A. GEROLYMATOS, Espionage and Treason: a study of the Proxenia in Political and Military Intelligence Gathering in Classical Greece, Amsterdam, J.C. Gieben, 1986; M. MOGGI, I proxenoi e la guerra nel V secolo a. C, in Les relations internationales, Actes du Colloque de Strasbourg, 15-17 juin 1993, édités par E. FRÉZOULS et A. JACQUEMIN, Paris, De Boccard, 1995, pp. 143-59; E. CULASSO GASTALDI, Le prossenie ateniesi del IV secolo a.C.: gli onorati asiatici, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2004.
15 Sulla prossenia è possibile consultare anche le seguenti fonti storiche: ESCHILOSupplici, vv. 234-40; PLATONE Leges, I, 642 b-c; TUCIDIDE Storie, III, 2,3; V, 59,5-60,6.
16 Sull’asylía si vedano K.G. RIGSBY, Asylía: territorial inviolability in the Hellenistic world, Berkeley, University of California Press, 1996; Das antike Asyl: kultische Grundlagen, rechtliche Ausgestaltung und politische Funktion, Akten des Kolloquiums Villa Vigoni, Loveno di Menaggio, 13-16 März 2002, Köln, Böhlau, 2003.
17 Sugli accordi giudiziari tra città si vedano P. GAUTHIER, Symbola. Les étrangers et la justice dans le cités grecques, Nancy, A. Humblot, 1972; S. CATALDI, Symbolai e relazioni tra le città greche nel V secolo a.C., Pisa, Scuola Normale Superiore, 1983.
18 Sulla metoikía si vedano D. WHITEHEAD, The Ideology of the Athenian Metic, Cambridge, The Cambridge Philological Society, 1977; C. BEARZOT, I meteci di Lisia, in «Nuova Secondaria», XVIII (2000), n° 3, pp. 34-36; C. BEARZOT, Apragmosyne, identità del meteco e valori democratici in Lisia, in Identità e valori, fattori di aggregazione e fattori di crisi nell’esperienza politica antica,<(i> Atti del Convegno, Bergamo-Brescia, 16-18 dicembre 1998, a cura di A. BARZANÒ, Roma, Bretscheider, 2001, pp. 63-80.
19 ARISTOTELE Politica, 1275 a 5 e seguenti (trad. di C.A. VIANO).
20 Basti citare ad esempio le Supplici di Eschilo, l’Edipo a Colono di Sofocle e gli Eraclidi di Euripide.
21 A questo proposito si vedano TUCIDIDE Storie, I, 144, 2 e SENOFONTE Costituzione degli Spartani, XIV, 4.
22 M.F. BASLEZ, L’étranger dans la Grèce antique, Paris, Les belles lettres, 1984, p. 204.