El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

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pap khouma

8 marzo, mimose eroine e vaso di Pandora.

Cari lettrici e lettori, ci sacrifichiamo al rituale dell’otto marzo almeno per ricordare delle wonderwomen che meriterebbero più considerazione.
Otilia Valeria Coman, detta Ana Blandiana, nata a Timosoara il 25/03/1942, considerata una delle voci più significative del paesaggio poetico romeno, non si limitava soltanto a scrivere versi. Ha sostenuto per decenni i diritti civili nel suo paese. Contestava pubblicamente il temuto dittatore Nicolae Ceauscecu. Fu oppressa e censurata fino al crollo del regime romeno nel 1989. Con la sua opera “Un tempo gli alberi avevano gli occhi” Donzelli 2005, vinse il premio speciale per la poesia del Premio letterario Giuseppe Acerbi. Ha scritto delle poesie per l’infanzia, dei racconti e tanti saggi. Prossimamente riprenderemo e approfondiremo l’opera poetica di Ana Blandiana.
Si sente parlare tanto di Nelson Mandela, il profeta della lotta contro l’apartheid ma meno della sua ex moglie: Nkosikazi Nomzamo Madikizela detta Winnie Mandela nata a Bizana nel 1934.
Quando Nelson fu incarcerato a Robben Island nel 1964, Winnie si assunse il ruolo di porta bandiera della dura lotta del popolo sudafricano. Per vent’otto anni Winnie Mandela fu spiata, arrestata, sottomessa ad infinti processi, condannata, messa al confine, dichiarata pericolosa per la sicurezza nazionale, minacciata di morte, accusata di complicità in omicidio, di sequestro di persona, la sua abitazione fu più volte distrutta, fu spessa violentemente aggredita dai guardiani dell’apartheid. Mentre centinaia di migliaia di sudafricani furono costretti a scappare all’estero per non essere arrestati o uccisi, Winnie, giovane, madre e determinata, rimase. Neppure la fine dell’apartheid e il ritorno del glorioso marito in libertà misero fine alle sue disgrazie. Nelson si separò da lei appena uscito di carcere. Winnie, affrontò anche l’ostilità di parecchi potenti dell’African National Congress (ANC). Alla fine rinunciò alla carica nel Consiglio esecutivo nazionale dell’ANC. La corte d’appello la condannò nel 1993 per sequestro di persona. Diventò vice ministro nel governo dell’ex marito. Fu criticata e dimessa. Riesce a conquistare la presidenza della Lega femminile dell’ANC. In Italia era stato pubblicato “Winnie Mandela” di Nancy Harrison. Ed. Jaca Book, 1987.
Il Sudafrica deve parte della sua libertà a Nkosikazi Nomzamo Madikizela-Mandela e anche a donne come Helen Suzman, recentemente scomparsa all’età di 91 anni. Dal 1953 al 1989 fu l’unica deputata bianca dell’opposizione a battersi contro l’apartheid. Fu la prima deputata a rendere visita a Nelson Mandela nel 1967 al carcere di Robben Island e l’unica che osava attaccare il sistema razzista che governava il Sudafrica.
Aung San Suu Kyi, nata nel 1945 e premio Nobel per la pace 1991, è da circa vent’anni prigioniera del regime militare che governa il Myanmar, ex Birmania. Si è laureata ad Oxford in Economia, Scienze Politiche e Filosofia. Nel 1988, ritornò nel suo paese e fondò la Lega Nazionale per la Democrazia e iniziò una lotta non violenta per i diritti civili seguendo gli insegnamenti del Mahatma Gandhi. Gli arresti e le angherie iniziarono per costringerla ad abbandonare il Myanamar. Lei rifiutò di andarsene. Nel 1990 i generali organizzarono delle elezioni libere. Il movimento di Aung San Suu Kyi vinse clamorosamente le elezioni. I generali birmani cancellarono i risultati, massacrarono gran parte dei suoi sostenitori, la rapirono e ignorarono le proteste della comunità internazionale. Aung San Suu Kyi è ancora agli arresti domiciliari malgrado il suo stato di salute continui a aggravarsi.
Aung San Suu Kyi ha scritto:
Liberi della Paura. Sperling & Kupfer, 2005.
La mia Birmania. Sperling Kupfer, 2007.
Cecilia Brighi ha pubblicato Il Pavone e I Generali Baldini & Castaldi Dalai, 2007.

Cari lettrici e lettori, dopo questi pochi esempi, vi propongo altri testi di Sabatino Annecchiarico, Barbara Ballardin e Sara Martinelli sulla vita di altre eroine, che come Pandora, furono demonizzate e incolpate di possedere dei vasi contenenti tutti i mali dell’universo.

1 - Hebe de Bonafini e le altre “madres de Plaza de Mayo”

di Sabatino Annecchiarico del comitato editoriale di el-ghbli

Hebe denunciò i responsabili. Denunciò i militari. Denunciò la chiesa. Denunciò le aziende transnazionali. Denunciò i corrotti avocati. Denunciò il silenzio di quelli che non erano innocenti. Reclamò in ogni istanza la comparsa in vita dei cari, ma non solo egoisticamente i suoi, quelli di tutti. Socializzò la battaglia per i diritti negati. Soprattutto per quelli che non avevano voce. Oggi è la presidente dell’Associazione delle Madres de Plaza de Mayo. In quella irreale realtà dell’autunno del ’77 solo persone pazze, o di eccezionale coraggio, erano in grado di alzare la testa; di alzare la voce. Fu un giovedì d’aprile di quell’anno che un gruppuscolo di donne con il capo coperto da un fazzoletto bianco si diedero appuntamento nella Plaza de Mayo, storica piazza antistante alla casa di governo, occupata dai militari.

L’autunno australe a Buenos Aires si fa sentire. Il forte vento gelido che soffia dall’atlantico arriva in città dal sudest assieme alle fitte piogge che bagnano persino le ossa; sono le caratteristiche climatiche di quella passionale città già culla del tango. Uscire in piazza in quella stagione, fare una passeggiata all’area aperta, sono ricordi attaccati nella memoria dell’estate appena trascorsa.
Ma quell'aprile del 1977 il freddo era diverso, era strano. Era un freddo nero. Un freddo che calava per fermarsi silenziosamente nell’anima della gente fino colpirla in profondità. Là, dove fa male. Dove si addormenta il cervello e si rallenta persino il tango. Un freddo, che per fortuna, sono in pochi a conoscerlo.
Poco più di un anno prima, ovvero appena iniziato l’autunno del ‘76, i militari colpirono duramente la dignità, e non solo, degli argentini. Con la brutale forza delle armi avevano preso il 24 marzo di quell’anno il controllo del governo del paese con l’obiettivo d’imporre politiche socioeconomiche in sintonia con i piani del neoliberismo del Fondo Monetario Internazionale e delle aziende transnazionali. D’allora il freddo della morte, del terrore, dell’impotenza, aveva invaso ogni angolo della vita quotidiana per eliminare ogni possibile resistenza popolare a quelle politiche neoliberiste. Si scrissero, in questo modo, le più tragiche pagine della storia contemporanea Argentina nota in tutto il mondo.
Un anno dopo quel tragico inizio dell’autunno più lungo della storia Argentina, Buenos Aires già era tenebrosamente sorda, cieca, incapace di reagire davanti a migliaia di suoi figli scomparsi nel nulla. Per le strade, nelle case, in ogni angolo della città non si parlava per paura. Non ci si guardava per paura. Non si ascoltava per paura. La morte e i militari erano gli unici due soggetti che padroneggiavano su tutto l’esistente in quella lugubre città. I cervelli delle persone sembravano come se fossero addormentati per ipotermia in un assurdo tram-tram quotidiano dove tutto sembrava normale. Macabramente normale. Si cominciava a parlare, con sorriso schizofrenico, dell’imminente mondiale di calcio del ’78. Si festeggiava sul pensiero di quell’evento. Gli affari dei militari e delle grandi imprese fiorirono a dismisura. Le aziende transazionali godevano, in quel cupo freddo sociale, una delle migliori primavere di infiniti e sproporzionati arricchimenti; arrecavano senza alcun disturbo e in piena fratellanza con i militari, ogni disfacimento del paese pur di arraffare ricchezze.
In quell'assurda alienazione mentale, collettiva quasi inconscia di cui soffriva la popolazione, lo strano freddo autunnale aveva addormentato ogni senso umano, inclusa la dignità. In quel habitat i Ford Falcon di colore verde oliva, ovvero le macchine in dotazione agli squadroni della morte, sfrecciavano liberamente per le strade di Buenos Aires con ignota destinazione. Portando dentro il grosso bagagliaio un altro bottino di guerra appena preso. Un'altra persona pronta alla tortura e alla scomparsa. Un altro desaparecido. E nessuno vedeva, nessuno parlava. Tutti si rifiutavano di ascoltare il frastuono di quelle potenti macchine costruite nello stabilimento argentino della Ford, nella località di General Pacheco, a pochi chilometri dalla periferia nord si Buenos Aires.
In quegli anni di dittatura militare erano in vigore leggi simili a quelle del ventennio fascista italiano. Una di queste era quella che non si potevano radunare più di tre persone in aree pubbliche, quanto meno in quella memorabile piazza già nota a numerose rivoluzioni sin dal 1810.
Per burlare questa legge, le coraggiose e ancora anonime donne dei fazzoletti bianche cominciarono a girare, camminando silenziosamente con passo ritmato da tanta disperazione, attorno alla piramide centrale della piazza. I passanti le guardavano, i militari le insultavano quando non usavano le maniere forti, la violenza. Queste donne, che all’inizio appena superavano la decina, furono picchiate dai militari sotto gli sguardi impauriti o apatici dei passanti che sottovoce commentavano “chissà cosa hanno fatto, meglio tenersi alla larga”. Alcune di loro finirono nei Ford Falcon e della loro sorte nulla più si seppe. Queste donne chiedevano la sorte dei loro cari, dei loro figli scomparsi nel nulla.
In quel gelido autunno pervaso dall’impotenza prodotta dalla strategia del terrore scientificamente pianificata sulla popolazione, in quell’autunno di trentadue anni fa, nessuno vedeva, nessuno ascoltava, nessuno parlava. Solo loro, queste donne, di nuovo loro, le donne, le mamme di quei figli scomparsi avevano visto tutto. Avevano visto tutto quello che tutti avevano visto ma che nessuno vedeva. Avevano udito quello che tutti avevano udito, ma che nessuno udiva. Avevano detto quello che tutti si rifiutarono di dire. Furono solo loro, le donne, le uniche in quella società di machos a riscaldare la temperatura di quel gelido autunno.
Hebe di Bonafini, mamma casalinga di due figli desaparecidos è una di loro. Una di queste donne che con tanta dignità e coraggio affrontarono, da sole, i militari. Lei, Hebe, alzò la voce in nome di tante mamme anonime che si trovavano nella stessa condizione. Instancabile in prima fila mettendo assieme alle altre mamme le uniche cose che aveva a disposizione, ovvero il coraggio, la voce e il proprio corpo. Non fu possibile fermarla, fermarle.
Oggi non è più casalinga, è una delle più prestigiose mamme riconosciuta mondialmente per la tenace resistenza alla dittatura e per la forte dignità. Assieme a migliaia di mamme che si aggregarono da tutto il paese all’Associazione è stata protagonista della ricostruzione della dignità di quel tessuto sociale già fortemente smembrato. Poi, alla guida delle Madres è stata decisiva nel spostare l’asse delle sorte del paese, ribaltando l’ignominiosa situazione sociale del paese. Gli argentini ripresero il coraggio, cominciarono a vedere, a sentire e a dire. Hebe sempre in prima fila. I militari sono stati sconfitti, quelli oggi non ci sono più. Hebe è lì, al comando dell’Associazione sin dal 1979, anno della loro fondazione in piena dittatura post mondiale di calcio.
Hebe María Pastor de Bonafini, il suo nome completo, è stata ricevuta da quasi tutti i capi di Stato. Ha fatto conferenze in numerose università nei cinque Continenti. Di lei, e delle Madres, si sono scritti saggi, racconti e poesie in quasi tutte le lingue. L’Università di Bologna conferisce il 17 ottobre del 2007 all’Associazione de Las Madres de Plaza de Mayo una Laurea ad honorem in Padagogia, e a ritirarlo è stata Hebe con una delegazione di Mades. Nel 1999 riceve dall’Unesco il riconoscimento per l’Educazione alla pace. Quei militari dal 1983 non ci sono più: chi non è morto per anzianità, è in galera a scontare la pena.
Las Madres de Plaza de Mayo hanno fondato un’università, la Universidad Popular de Las Madres, in pieno centro della città, davanti al Parlamento argentino, in Plaza Congreso. Hanno creato una biblioteca, un bar letterario, un proprio giornale, una propria radio. Sono protagoniste di costruzione di case nei quartieri più poveri del paese. Partecipano ad ogni vita sociale, ad ogni lotta popolare, protagoniste delle già note fabbriche ricuperate dai lavoratori, come il caso dell’ex italiana di ceramiche Zenon, o dell'Hotel Bauen a 5 stelle, costruito per il corrotto mondiale del ’78, e tante altre. Per queste instancabili lotte, sempre in prima fila, arrivano per loro da tutto il mondo adesioni, collaborazioni e finanziamenti.
Anche se oggi i militari non ci sono più, rimangono tante cose ancora da fare. Ed Hebe, a 81 anni d’età è lì, in prima fila: “Noi siamo state partorite dai nostri figli […], e quando loro ci hanno lasciato noi ci siamo trasformate da casalinghe a rivoluzionarie. Oggi ci sentiamo così, perché la rivoluzione si fa quando si riesce a trasformare la società. Noi sappiamo che si può. Si può perché l’unica battaglia che si perde è quella che si abbandona”.
Ed Hebe lo sa, lo sanno Las Madres, lo sanno gli argentini, che solo allora quel forte vento gelido che soffia dall’atlantico e che arriva in città dal sudest, tornerà ad essere caldamente normale. E Cambalache, il tango proibito dai militari, si continuerà a ballerà liberamente nelle piazze della città.

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2- Valentine de Saint-Point (1875-1953), una donna senza pregiudizi né barriere

di Barbara Ballardin

“Per il puro spirito, al di là di quello che chiamiamo le realtà promesse, conquistate, ammesse, l'Universo è un deserto. E se non appare tale, è che il sogno degli uomini lo popola dei suoi fantasmi immortali che evolvono, si trasformano, si rivelano e spariscono.(...) La Sete e i Miraggi, il Desiderio e la molteplice immagine del Desiderio, spingono gli uomini, dal più umile al più potente, nella realizzazione eroica di questa conquista andando verso la morte che si chiama: la Vita. (...) E il Deserto è immenso, intorno a colui che, solo, può riconoscere i fantasmi dei miraggi innumerevoli, e che, solo, può esprimerli, dando così un senso alla vita multipla di tutto: il Poeta.”
(V. de SAINT-POINT, La soif et les mirages, Parigi, Figuière, 1912, pagg. 9,10.)

C’era una volta una bambina molto bella di nome Anne-Jeanne-Valentine-Marianne Desglans de Cessiat-Vercell, che trovò un buon maestro e imparò a leggere e scrivere. Giovanissima, pubblicò le sue prime poesie su di una rivista. Crebbe sempre più bella e intrecciò la sua vita con un uomo. Ma non era un principe, anzi si rivelò un essere piuttosto deludente. Cambiò città, uomo, vita e nome in Valentine de Saint-Point. E si trovò nella Parigi della belle époque in una girandola di esperienze. Continuò a scrivere, ora romanzi, poesie, testi teatrali, articoli e saggi. Con Ricciotto Canudo, suo compagno all’epoca, animò la rivista ”Montjoie!” e tenne nel suo appartamento delle soirée piuttosto celebri cui parteciparono alcuni fra gli intellettuali più innovatori dell’epoca. Conobbe Satie, D’Annunzio (che la chiamava “la fille du soleil”), Rodin, Mucha, Marinetti. Fu anche una delle prime donne futuriste e scrisse per i questi suoi compagni di strada due audaci manifesti, Il Manifesto della donna futurista e il Manifesto della lussuria. E danzò tanto da inventare una danza, la métachorie, una sintesi delle arti che ancora oggi presenta aspetti interessanti.
Ma come spesso accade improvvisamente le carte si rimescolano e la sorte cambia. Anche in questa storia arrivò una terribile strega, la guerra. Valentine visse la prima guerra mondiale fra i feriti che raggiungevano la croce rossa. E cambiò ancora, profondamente. Conobbe la realtà del dolore e ne uscì diversa. Abbandonò Parigi e iniziò a occuparsi di politica nel tentativo di formare un’umanità più etica. Ma continuava a ricevere delusioni. A poco a poco si sentì sempre più estranea al capitalismo occidentale e si avvicinò all’oriente, come il suo pro-zio Lamartine. Si trasferì allora in Africa, al Cairo dove combatté per anni per i diritti delle donne e svolse una attività politica piuttosto ostile alla Francia.

“come potete, scrittori francesi, prendere posizione in favore dell’elemento Oriente? ci si chiederà.
- Semplicemente perché testimoni in Oriente, dovremo vedere il bene dell’Occidente dal punto di vista dell’Oriente, perché la Francia ha ricevuto un mandato sulla Siria orientale, non per occidentalizzarla e convertirla al cristianesimo e imporle una cultura (?) latina, ma per guidarla verso la sua indipendenza, vale a dire a realizzarsi. Ora, la Siria è in Oriente, la sua cultura è araba, la sua religione è l’Islam.”
(V. de SAINT-POINT, La vérité sur la Syrie par un témoin, Les cahiers de France, 1929, pagg. 227, 235, 236)

Creò, allo scopo di riunire i paesi musulmani, una rivista, Phœnix, aperta ai nazionalisti arabi e simpatizzanti europei. Fondò tra l’altro il Cercle Idéiste, un ritrovo per dare all’Egitto una voce libera al servizio delle idee e la sezione egiziana della Ligue Intérnationale de l’Education Nouvelle, un’organizzazione che elaborava studi scientifici sulla psicologia dei bambini allo scopo di prepararli a realizzare nelle loro vite la supremazia dello spirito e il rispetto per gli altri. E si convertì all’islam.
Ma ecco un ennesimo cambio di rotta. Osteggiata dai francesi a causa del poco rispetto che aveva dimostrato loro, guardata con sospetto anche dai cairoti che faticavano a credere alla sincerità di quell’europea così libera, Valentine abbandonò l’impegno politico per riprendere lo studio. Fra i suoi ultimi amici René Guenon.
Trasformatasi in una maga dai poteri occulti, che conduceva studi sulla religione musulmana e si occupava di radioestesia e agopuntura, rimase al Cairo fino alla fine, il 28 marzo 1953. Quando fu sepolta nella città dei morti con il suo nome arabo Raouhya Nour el Dine.
Valentine (1875-1953) è lo specchio della crisi di una classe sociale, l’aristocrazia, e di un’epoca, la prima metà del ’900, con la sua fede nell’uomo fino alla delusione della prima Guerra Mondiale e alla rottura, il ripiegamento verso l’intimità per ripensare sé stessi e la società, il viaggio in Oriente, per concludere lì la propria vita. Ma nell’inquietudine della Saint-Point nel periodo parigino già si scorge un’insoddisfazione, un desiderio che troverà sfogo forse solo alla fine, nella pace conquistata negli ultimi anni, nell’esplorazione della propria anima. È passata, infatti, attraverso i movimenti artistici più importanti della sua epoca e attraverso l’impegno politico, ma non è mai stata seguace di una scuola o di un partito, ha sempre privilegiato il proprio pensiero e la propria curiosità, riuscendo a restare priva di pregiudizi e barriere.

“Non ho alcun paese e non amo alcuna terra,
Questo amore puerile la mia anima l'ha bandito;
La mia patria è l'azzurro dello spazio infinito.
Poiché essendo senza radici, al largo, per sempre, io erro.”
(V. DE SAINT-POINT, Poèmes d’orgueil, op. cit., "Congé", pag.159.)

In tutta la biografia della Saint-Point oltre che nella sua opera, si possono trovare gli echi del difficile percorso (che necessariamente passava anche attraverso la difesa della propria libertà sessuale e sentimentale) verso la liberazione da imposizioni morali e ipocrisie che imbrigliavano la donna nella dipendenza da una figura maschile. Lo studio del ruolo della donna nell'ambito artistico e l'attenzione e la ricerca di un estetica del sentire femminile rappresentano infatti delle costanti presenti in tutta l’opera di Valentine, nonostante i cambiamenti spesso radicali avvenuti nella sua vita. La scrittrice chiarì queste sue posizioni attraverso i propri manifesti futuristi e, dal 1910, in una serie di conferenze, ma rimase sempre ai margini del femminismo, senza condividerne completamente le idee. Occorreva infatti, secondo la Saint-Point, lasciare la lotta per l’emancipazione femminile, il femminismo alla politica, per sostituirli nell’arte con la creazione di personaggi che rispecchiassero la donna moderna nelle sue percezioni e reazioni e non nelle recriminazioni.
Prima di pensare a dare maggiori diritti e doveri alle donne, occorreva secondo la scrittrice aiutarle a liberarsi dai concetti di femminilità che erano stati radicati in loro. Era prima di tutto necessario che la donna giungesse a trovarsi come essere perfettamente consapevole della propria reale natura, fatta di elementi maschili e femminili combinati secondo le leggi proprie all'animo e al fisico del proprio sesso. Finalmente liberata o comunque consapevole della propria prigionia, la donna poteva allora mettere se stessa al centro delle proprie percezioni per vivere pienamente la propria vita sentimentale e sessuale o addirittura scegliere di vivere sola. Scegliere la solitudine, il non donarsi mai completamente a un unico uomo che, proprio attraverso un legame soddisfacente, le avrebbe opposto un limite.
Che ruolo poteva assumere allora la nuova donna, la donna liberata, per affrontare con il proprio ritrovato istinto la crisi di valori dell’inizio del secolo? Poteva, secondo l’autrice, essere una madre o una amante, una creatrice o un’ispiratrice.
Una madre che cresca i suoi figli spingendoli a agire con lucidità e coraggio, senza fughe o debolezze. E non per il proprio egoistico desiderio di adorazione o compagnia, ma per donare loro la capacità di vivere intensamente. Donna prepotentemente creatrice che non si fermi di fronte a nulla per difendere la propria creatura e il suo totale diritto a crescerla come preferisce.

“Delle madri dolorose e orgogliose, senza osare chiarirlo, hanno dovuto fare questo sogno: non abbandonare al caso la loro opera incompleta... dopo aver creato il bambino, creare l’Uomo. L’albero non rigetta affatto il fiore, lo matura fino al frutto.”
(V. de SAINT-POINT, Un Inceste, Vanier-Messein, 1907, pag. 1.)

Oppure la nuova donna poteva ricoprire il ruolo di amante, di ispiratrice e, proprio attraverso la bellezza e la raggiunta emancipazione erotico-sentimentale, suscitare desiderio e quindi, secondo l’autrice, spinta a superarsi.
E la vita di Valentine fu un coraggioso esempio di queste teorie. Perrenot, Dumont, Canudo e Fouad Nared le furono compagni per tratti più o meno lunghi, più o meno intensi, di strada. A tutti loro diede e da tutti loro ricevette stimoli e forza, ma fu sempre pronta ad andarsene quando si avvicinava l’inaridimento.
…C’era una donna che cercava di comprendere e svelare. C’era Valentine de Saint-Point, la fille du soleil, Raouhya Nour el Dine. Qualcuno che, pur nella varietà delle proprie esperienze percorse un’unica strada: illuminare, capire. Il femminile sé stessa, una donna, la donna e la realtà attorno. E allora…teorica del futurismo con i suoi manifesti, ma poi troncò abbastanza in fretta con Martinetti…anima della belle époque parigina, ma poi morì dimenticata al Cairo…attenta al femminile ma non femminista…Varietà di esperienze, quindi, apparentemente eterogenee e contraddittorie. Ma in realtà tappe di una discesa nell’essenza del femminile, a qualunque costo. Passi di un’unica crescita interiore che possiamo seguire guidati da una donna curiosa e intelligente per illuminare angoli bui di coscienza.

“Non si arriva allo spoglio di sè e alla rinuncia senza sforzo e senza dolore, ma è un passaggio difficile che, in una vita o in un’altra, dobbiamo tutti superare. E non bisogna inorgoglirsi di aver molto penato.”
(V. de SAINT-POINT, dedica autografa in H. LE BRET, Essai sur Valentine de Saint-Point, Nizza, Editions de L’ALOES, 1923.)

Barbara Ballardin, laureata in lingue a Milano, attualmente è insegnante di francese. Appassionata di teatro ha scritto e rappresentato alcune piéces teatrali. Nel 2007 ha pubblicato una biografia di Valentine de Saint-Point.

Bibliografia
B. Ballardin, Valentine de Saint-Point, Milano, Edizioni Selene, 2007
V. de Saint-Point, Manifesto della Donna futurista, il Melangolo, 2006
V. de Saint-Point, Lussuria e crudeltà. Due manifesti futuristia cura di A. Castronuovo, Stampa Alternativa, 1991 (?)

3-Il caso Anna Politkovskaja: ricordi di Russia

di Anna Martinelli

Quelle che seguono sono libere osservazioni di una persona che non conosce approfonditamente il panorama politico e sociale della Russia, e non se ne occupa da un punto di vista professionale, ma che ama profondamente questo paese, a cui sta dedicando i suoi anni di studio proprio nel tentativo di riuscire a capirlo o, per lo meno, di intrattenere un dialogo con una realtà così diversa dalla nostra. Non vi saranno quindi dati informativi o rigorose osservazioni critiche (che abbondano sui giornali e sono perfettamente rintracciabili dal lettore), ma solo personalissime e transeunti impressioni da parte di chi il ‘fatidico’ 7 ottobre 2006 si trovava – per caso – proprio in Russia.

A due anni e mezzo dalla scomparsa della nota giornalista Anna Politkovskaja - tutti i suoi libri sono facilmente reperibili in Italia - il suo caso, purtroppo seguito da altri numerosi tragici eventi che hanno visto coinvolto altri esponenti della sua stessa professione, non si placa. Almeno, non si placa il desiderio di chi vorrebbe sapere cosa sia successo realmente e soprattutto chi sia il colpevole. Numerosi sono i colleghi del giornale “Novaja Gazeta” che hanno visto proprio nell’impegno a rivelare i tratti più scomodi e meno edulcorati della politica e della società russi, la motivazione del suo assassinio. Bellissima la pagina dedicata della Politkovskaja da parte del collettivo della redazione stessa, che sottolinea la bellezza di Anna, riflesso (pensiero molto romantico e molto russo!) della bellezza della sua anima, che ricorda come anche tra i redattori vi fosse chi spesso commentava «La vostra Anna Politkovskaja è un po’ troppo…». Già, troppo cosa? Troppo aderente alla realtà e alla verità, forse, commentano i colleghi, una realtà molto spesso terribile che si preferisce negare e ignorare, credere che sia il frutto di un’esagerazione, pensando che siano i giornalisti ad essere «troppo…» piuttosto che accettarla nella sua crudezza. E proprio la rivista “Novaja Gazeta” ha dato e sta dando un importante contributo nel tentativo di far luce sulla verità, come già ha fatto per gli altri due giornalisti e collaboratori uccisi Igor’ Domnikov e Jurij Šcekocichin.
In Italia, come nel resto del mondo occidentale, si è vissuta da vicino questa vicenda tragica che ha visto coinvolta una delle giornaliste più amate e seguite del fronte russo e, soprattutto, del fronte ceceno, vissuto dalla Politkovskaja fin dai primissimi anni della sua attività giornalistica. Fino all’ultimo istante di vita. Come riportano i giornali sono stati trovati nel suo appartamento gli appunti per l’articolo al quale stava lavorando, che trattava delle torture in Cecenia e doveva uscire nel numero successivo di “Novaja Gazeta”.
Nonostante questo sdegno ufficiale, però, resta dell’amaro in bocca.
Forse perché le quattro persone arrestate (tutti militari) poco tempo dopo la sua uccisione sono stati scarcerati, molto presto e con gran sollecito, mentre si sperava di aver già individuato i colpevoli così da confortarsi, almeno in minima parte, del senso di perdita, appagando il nostro senso di giustizia.
Non conosco i dati puntuali dell’inchiesta; certo, c’è da sperare con tutto il cuore che il processo non si sia svolto come i tanti, drammatici, che proprio Anna Politkovskaja ci ha descritto nel suo libro La Russia di Putin (edito in Inghilterra nel 2004 col titolo Putin’s Russia, ma tradotto in italiano direttamente dal più ampio originale russo). Fa soffrire infatti, veramente soffrire, leggere le pagine in cui la giornalista in tono asciutto, ma densissimo di dettagli (interviste e più spesso, veri e propri atti processuali, protocolli di polizia e simili) mostra la manipolazione dei processi, quelli rarissimi, che pesano sui rappresentanti dell’apparato militare. Particolarmente raccapricciante e doloroso è a mio avviso il caso Jurij Budanov, ex colonnello dei carristi, che non cessa a tutt’oggi di destare scalpore. Vivissimo traspare infatti il senso di impotenza tra i pochi (come l’avvocato russo chiamato a processo già avanzato a difendere la famiglia cecena della Kungaeva, la ragazza vittima del colonnello) che desideravano far luce sulla verità pura e semplice, senza pregiudizi. Un processo conclusosi però nel modo più imprevedibile, come dice l’autrice «[…] accadde il miracolo che nessuno si sarebbe mai aspettato […] Bukreev [il giudice] ha osato emettere un verdetto di condanna, comminando, per di più, una pena detentiva tutt’altro che simbolica» sullo sfondo di un sistema che la giornalista però non smette di condannare «E ha dimostrato con ciò, per l’ennesima volta, che ora come un tempo in Russia non esiste un sistema giudiziario. Quel che abbiamo è un sistema che ottempera alle esigenze della politica, al quale si oppongono solo singoli eroi». Per fortuna questi eroi esistono, e la Russia, in questo senso, ne sa produrre di eccezionali.
Il 7 ottobre 2006 mi trovavo appunto a San Pietroburgo (o Peter, come più simpaticamente la chiamano i suoi abitanti) quando è avvenuto l’omicidio. È quindi uno sguardo ‘periferico’, se si vuole, quello che qui riporto perché il centro nevralgico è stato ovviamente Mosca dove si è verificato il dramma (e ‘la periferia’ è qualcosa di assolutamente reale per un paese vasto come la ‘grande madre Russia’).
Il primo effetto suscitato in me, italiana, abituata al bombardamento costante di notizie e meglio se più drammatiche, è stata l’assenza di risonanza pubblica. Ad eccezione della presa di posizione e della partecipazione dei colleghi di “Novaja gazeta”, al telegiornale appariva il presidente Putin, principale protagonista della televisione russa, ma questa notizia non era al centro di alcun commento. Idem sul giornale. Certo, sono stati pubblicati diversi articoli (non in prima pagina) ricchi di dettagli tecnici, ma generalmente in toni assolutamente neutrali, senza alcun particolare commento. Stessa assenza riscontrata ad esempio anche all’università, dove i nostri professori non ne hanno fatto menzione. Tanto è vero che per capire cosa fosse successo sono dovuta andare in internet, sui siti italiani, e da lì apprendere notizie più dettagliate. D’altronde, il presidente è stato criticato proprio per aver parlato pubblicamente dell’assassinio solo il 10 ottobre, tre giorni dopo quindi, e non in un comunicato ufficiale bensì in una conversazione al telefono con il presidente Bush. La sensazione di quel periodo a Pietroburgo è stata quella che il popolo russo non fosse troppo scioccato e che accettasse, con quella immensa pazienza che gli è propria, l’ennesimo avvenimento di terrore.
In generale, sembra che i russi credano davvero nel loro Stato e nel loro governo ed abbiano trovato nella personalità di Putin un leader forte del quale fidarsi. Non ritengo che la popolazione veda in questo omicidio la facile estromissione di un personaggio scomodo e inviso al potere, come certamente la Politkovskaja era. La mia personale opinione, e sottolineo personale, è che la giornalista, per quanto stimata, non sia stata particolarmente amata nella sua patria. O meglio, che venga in qualche modo collocata nel ‘mondo occidentale’, in un contesto che se pur vicino, viene sentito irrimediabilmente altro. Anna Politkovskaja nata a New York, figlia di diplomatici, in contatto continuo con il mondo occidentale e soprattutto anglosassone, non credo sia mai stata sentita pienamente russa, almeno non dalla maggioranza della popolazione. I suoi duri attacchi agli apparati militari, a quel settore cioè che, secondo lei, governa ancora la società russa, più volte devono essere stati percepiti come un attacco diretto al paese, che invece nei suoi militari e nei suoi ragazzi mandati ogni anno a morire, ci crede fermamente. L’ex militare, spesso mutilato in più parti del corpo, che chiede l’elemosina in metropolitana, non manca mai di ricevere qualcosa. Ancora oggi camminando per la strada o andando in autobus, si vedono giovani e giovanissimi in divisa, delle più diverse fogge e colori dato che i reparti non mancano: marina, esercito, e mille altre sottodivisioni; e a noi, o meglio a me, fa impressione vedere la maggior parte della gioventù russa inguainata in una divisa.
Sembra che la popolazione sia più vicina all’opinione del generale Gennadij Trošev, che pronuncia dure parole nei confronti della giornalista, della quale ricorda che faceva fermare continuamente le fila dei suoi soldati quando si trovava come corrispondente nelle zone di guerra cecene «per dissolversi nei quartieri cittadini» (sostanzialmente quindi per fare il suo lavoro), mettendo a repentaglio la vita di quei militari che costituiscono «le forze di difesa», ma a questo, aggiunge il generale, «lei non pensava».
Ad uno sguardo occidentale stupisce vedere come il passato sovietico non sia interpretato come un regime oppressivo, ma molto più materialmente e banalmente, come un sistema che ‘funzionava’ in quando garantiva il minimo necessario a tutti. Un solo esempio: una volta una signora anziana ha cominciato a lamentarsi con me del fatto che all’epoca sovietica si poteva acquistare le medicine così come i beni di prima necessità senza alcun problema, mentre adesso con la sua pensione (ed i pensionati sono sicuramente la categoria più disagiata in Russia) non riescono ad arrivare alla fine del mese. Cosa confermata dai numerosissimi anziani che si vedono lavorare ovunque: nei negozi, nei musei, nelle bancarelle, e simili.
La cosa interessante è che la colpa, secondo la signora, era di Michajl Gorbacev e del crollo dell’Unione Sovietica. E questa non è affatto un’opinione insolita in Russia. Sarà così più facile comprendere come l’attuale presidente, ex KGB, oggi FSB, non sia macchiato da un passato per lo meno discutibile, ma accettato dalla maggioranza dei russi come erede di una realtà che non viene rinnegata. Certo, questa è l’opinione della maggioranza. Esiste infatti una minoranza, costituita per lo più da intellettuali che non sono d’accordo; a tal proposito, in Italia ho avuto occasione di parlare con un artista moscovita che alla mia domanda sulle ultime elezioni in Russia, mi ha risposto che sicuramente la maggioranza della popolazione crede davvero in questo governo, mentre gli altri, come lui…non votano, e non lo fanno perché un’alternativa, di fatto, non esiste. Vorrei concludere queste brevi osservazioni con le parole di un’altra grande Anna russa, la poetessa Achmatova: /p>

«[…] sul nostro orologio suonò l’ora del coraggio, / e il coraggio non ci abbandonerà. / Non ci spaventa cadere sotto il piombo, / non ci duole restare senza tetto, / ma noi ti salveremo, favella russa, / alta parola russa. / Ti recheremo pura e libera / e ti daremo ai nipoti, ti salveremo dai ceppi per sempre!».

Biografia: Sara Martinelli si è laureata in Teoria e pratica della traduzione letteraria presso l’Università degli Studi di Firenze nel 2007 con una tesi dal titolo Come tradurre “Il pellegrino”. Jakov Gordin legge Iosif Brodskij. Attualmente frequenta il primo anno di Dottorato di ricerca in Letteratura comparata e traduzione del testo letterario presso l’Università di Siena all’interno del quale porta avanti un progetto relativo al rapporto e al dialogo poetico tra Iosif Brodskij e Konstantinos Kavafis. Ha soggiornato due volte San Pietroburgo con due borse di studio, la prima nell’aprile-giugno 2004 e la seconda nel settembre-dicembre 2006.

In questo numero ospitiamo: per la sezione racconti e poesie: Rosana Crispim da Costa, Marta Elvira Patiño, Aurora Filiberto Hernàndez, Melita Richter, Ana Cândida de Carvalho Carneiro; per la sezione stanza degli ospiti: Tiziana Altea, Clementina Coppini, Massimiliano Govoni; per la sezione parole dal mondo: Arundhathi Subramaniam, Paulette Ramsay, Imtiaz Dharker, Meena Alexander; generazione che sale: Ontora Rahman e Cindy Faccendo; gli interventi sono di Sara Chiodaroli e Gloria Comesasca.

Buona lettura.

Pap Khouma

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Anno 5, Numero 23
March 2009

 

 

 

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