El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

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l'espressione letteraria nelle seconde generazioni

raffaele taddeo

Nel novembre del 2005 in Francia, dapprima a Parigi e poi in molte altre città, scoppia, a partire dalle banlieues, una insurrezione, che coinvolge i giovani figli di immigrati e le forze di polizia. La rivolta, che costringe il governo francese a dichiarare lo “stato d’emergenza”, provoca danni notevoli, molta paura e tensione.
In 19 notti di scontri e incendi si contano 8720 macchine bruciate, 2599 giovani arrestati.
Le analisi sono fra le più diverse e disparate sia da parte di studiosi francesi, che da parte di studiosi di altri paesi.
I rivoltosi sono i “Beurs”, cioè i figli o i nipoti degli immigrati che non sono più magrebini, perché sono nati in Francia e hanno studiato nelle scuole dello Stato francese; ma non si sentono neppure autentici francesi, pur avendone spesso la nazionalità, perché sanno di non essere accettati come veri cittadini. Non basta una nazionalità per essere tali, per usufruire di tutti i diritti.
Alcuni hanno affermato che le condizioni di vita di questi giovani rappresentavano delle vere bombe ad orologeria, altri hanno invece sostenuto che il fenomeno della rivolta vada ascritto al più ampio problema della trasformazione del capitalismo, della fine del fordismo e dell’avvento del postfordismo, degli effetti della globalizzazione.
Romano Prodi in quella occasione ebbe modo di dire che anche in Italia potevano scoppiare fatti del genere. Qualche sociologo l’ha contraddetto. Toni Negri sulla Stampa del 12/11/2005 scriveva:

“Mah, Prodi per un verso esagera, e dubito che sappia davvero qualcosa delle periferie”.

L’affermazione dell'ex Presidente del Consiglio forse era dovuta al fatto che allora era a capo dell’opposizione e che quindi stimolava il Governo Berlusconi in carica a fare di più per il problema della immigrazione. Che in Italia possa avvenire a breve o a lungo termine qualcosa di simile a quanto avvenuto in Francia è un’analisi che va lasciata agli studiosi dei fenomeni sociali. Quella che è importante mettere a fuoco e che comunque i figli degli immigrati, nati nei paesi europei manifestano problemi che vanno conosciuti, intravisti e compresi.
Il fenomeno non è solo francese, perché anche in Inghilterra i figli degli immigrati hanno organizzato gli attentati del luglio 2005.
Fra gli attentatori tre erano figli di immigrati arrivati dal Pakistan. Nel rapporto ufficiale alla Camera dei comuni si legge:

“Khan was the oldest of the group. Born in Leeds on 20 October 1974, he was 30 at the time of the bombings. He appears to have been the group’s ringleader. Tanweer was born on 15 December 1982, Hussain on 16 September 1986, 22 and 18 respectively when they died. All three were second generation British citizens whose parents were of Pakistani origin. Their respective parents had come to West Yorkshire from Pakistan many years before, found work, settled and taken British citizenship…All 3 grew up in Beeston and the neighbouring district of Holbeck on the outskirts of Leeds.”

L’espressione della violenza in Francia, la scelta del terrorismo in Inghilterra costringono a porre estrema attenzione alle seconde generazioni. In Italia è nato un blog (www.secondegenerazioni.it) voluto e gestito da figli di immigrati in cui si esprimono da una parte i loro malumori, dall’altra si fanno avanti proposte politiche tendenti a venire incontro alla loro condizione di vita in Italia.
Ritengo che lo studio delle tematiche, dei personaggi della letteratura, prodotta dagli scrittori, a volte giovanissimi, figli di immigrati e nati in Italia possa essere una valida spia per comprendere il grado di accettazione della società in cui sono nati e i problemi che incontrano nel rapportarsi ad essa.
Forse potrebbero essere delle spie capaci di indurre ad impostare politiche sociali tali da evitare conflitti alla società che verrà.
Il meticciato culturale sarà visibile attraverso le loro opere e forse sarà anche possibile intuire la direzione letteraria che queste nuove generazioni sapranno imprimere.
Chi sono questi autori: Finora possiamo con certezza indicare come scrittori di seconda generazione cioè figli di immigrati e nati in Italia: Gabriella Kuruvilla, Randa Gazy, Igiaba Scego, Ghazvinizadeh Nader, Ghebreigziabiher Alessandro.
A questi può essere associato Jadelin Mabiala Gangbo che, nato in Congo è arrivato in Italia in tenerissima età per cui lo stesso autore si sente italiano piuttosto che congolese. Poi può essere considerata di seconda generazione sia Cristina Ali Farah, che nata in Italia nel 1973 da padre somalo e madre italiana, si è trasferita a Mogadiscio dal ’76 al ’91, che Valentina Acava Mmaka, che nata a Roma è cresciuta però in Sudafrica e in Kenia.
Sulla scena letteraria italiana non è comparso finora, da quello che conosco, nessun altro scrittore. Da notare la giovanissima età di tutte questi artisti e il fatto che la maggior parte sono donne. La più grande di età è Gabriella Kuruvilla che è nata nel 1969, mentre la più giovane è Randa Gazy, giovanissima poco più che vent'enne.

Gli aspetti più significativi su cui indagare attraverso le loro opere possono essere:
a) l’immagine che questi scrittori hanno della terra dei loro genitori.
b) L’immagine che essi hanno del paese ove sono nati, cioè l’Italia.
c) Il grado di permeabilità nella la società italiana.
d) Il grado di “stranierità” ancora presente in loro

A questi elementi sarà necessariamente da aggiungere la caratteristica poetica di ciascuno di essi sia nella creazione di sensi letterari che nella organizzazione linguistica, come strumento veicolante della manifestazione della commistione e creolizzazione culturale che sta avvenendo o è avvenuta in loro.

Non mi soffermo per nulla si Nader Ghazvinizadeh, sia perchè la sua produzione è essenzialmente poetica, sia perchè fino a questo momento non è copiosa e non ci consente di fare riflessioni adeguate rispetto agli obiettivi che ci siamo proposti. E' solo da dire che la sua produzione culturale è totalmente inserita in una dimensione italiana e occidentale così che ad esempio è possibile trovare nelle sue poesia citazioni che sembrano veri e propri ricordi di scuola, come la seguente: "é l'estate di san Martino", che sembra un verso tratto da una nota poesia di Pascoli.

Gabriella Kuruvilla

Incominciamo l’analisi con Gabriella Kurunvilla che ha scritto il romanzo Media Chiara e noccioline con lo pseudonimo Viola Chandra, due racconti inseriti nel raccolta Pecore nere edito da Laterza nel 2005 e ultimamente di lei è stato pubblicato il volume: E’ la vita, bellezza
E' nata in Italia e cresciuta prima che l'ondata migratoria diventasse un fatto importante e significativo della recente storia d'Italia e dell'Europa e prima che gli stranieri incominciassero ad essere percepiti come problema. I personaggi delle sue narrazioni non risentono del fascino nostalgico della terra dei padri, anzi il rapporto fra la terra d’origine del padre della protagonista del romanzo e la protagonista stessa è molto problematico.

“Mio fratello non era ancora nato, io e mio padre eravamo assieme in un albergo di Bombay. In una stanza dall’architettura moderna, asettica, probabilmente di lusso. Di quegli alberghi che puoi essere a Bangkok o a Londra e non ti accorgi della differenza. Gli alberghi con il dono dell’ubiquità, come la cucina internazionale e la Coca-Cola. Sulla bocca di un’indigena messicana o sulle labbra truccate di una grassa americana le bolle scendono giù alla stessa maniera e gonfiano la pancia allo stesso modo. Poi l’India va a vendere fagioli al mercato e la yankee va a farsi la liposoluzione dall’estetista”.(1)

Una presentazione del genere che è la carta d’identità dell’India nel romanzo sopra citato la dice lunga su quale possa essere il legame fra il personaggio principale e l’India. Non c’è alcuna rappresentazione di spazio, di luoghi.

“I ricordi delle due vacanze in India si confondono. Pochi episodi tornano alla memoria e la fatica di ricordare è tanta. Tutto perché alla fine del mio ultimo viaggio in India mio padre mi ha detto (2)

Tutto dimenticato, tutto offuscato, spazio rimosso.

“per me e per troppi anni ha rappresentato uno spazio irraggiungibile, irreale e immaginario, quasi magico…uno spazio seppellito, da seppellire e, of corse, di merda, che mio padre ci aveva gettato sopra, mentre anch’io rischiavo di rimanerci sotto”.(3)

La protagonista, quindi, è subito in conflitto con questa terra. Lo è fin da bambina/ragazza. E’ in conflitto come lo è con suo padre, che è un indiano. Poi ci ritorna in India, come era intuibile. Ci torna con il suo fidanzato.

“E quella terra, con i suoi abitanti, mi è sembrata un’estensione spaventosa di mio padre. Del suo giudizio, e dei suoi occhi. Una terra, e degli abitanti, talmente ostili da escluderti, a loro volta da esiliarti. Mentre si prendono gioco dei tuoi desideri, e dei tuoi entusiasmi. Una terra che quando arrivi sudata in spiaggia, e hai solo voglia di stendere il telo sulla sabbia, spogliarti di tutti i tuoi vestiti, rimanere in costume e tuffarti in acqua, ti accorgi che, merda, hai appoggiato le tue cose proprio su uno stronzo e mentre nuoti ne hai schivato un altro”.(4)

Se nel romanzo il tema India e la descrizione del rapporto fra la protagonista e il territorio di nascita di suo padre è marginale, in rapporto alle righe che vi sono spese e in relazione ad altri argomenti, nei due racconti inseriti nel testo “Pecore nere”, Gabriella Kuruvilla, pone al centro delle due narrazioni l’India e gli effetti dell’essere di derivazione indiana.
Così che viene il sospetto che l’ostilità che la protagonista presenta nei confronti del paese orientale, sia un’ostilità della scrittrice stessa.
Tant’è che parti intere di paragrafi del romanzo dedicati all’India si ripresentano tali e quali nel primo racconto intitolato “India”.
Anche qui le descrizioni sono taglienti. La protagonista del racconto ritorna in India quando ha ormai 30 anni. L’impressione del paese:

“E’ mattina, usciamo. Le acque sporche, come maleodoranti e fetidi uccelli, corrono ai bordi delle strade…ho visto una bambina sporca, con i vestiti stracciati e i capelli arruffati, che camminava per la strada di una grande città, chiedendo l’elemosina e portando in giro un topolino legato a una corda guinzaglio. E ho visto i commercianti che le sputavano addosso… ho sentito un giovane marito dire della bambina che aveva appena avuto dalla moglie Putroppo? (5)

Siamo totalmente lontani da una visione mitica o semplicemente esaltante della terra d’origine dei genitori o di uno dei due.
In queste descrizione di che cos’è l’India, viene proposta un’immagine del paese orientale basata essenzialmente sul modo di comportarsi delle persone, del loro manifestarsi in totale dissociazione dal modo di essere della cultura comportamentale dell'Occidente.
La protagonista vuole attenuare il giudizio negativo cercando scusanti che giustifichino il suo rifiuto.

“Volevo che tutto un popolo mi accettasse, mettesse da parte le sue tradizioni, i suoi dogmi e le sue caste. Gettasse se stesso, per accogliermi: per com’ero, per come sono. Volevo che tutto un popolo mi accettasse: per risarcirmi del rifiuto di un solo uomo. Uno di loro, uguale a loro. Un popolo intero avrebbe dovuto fare quello che mio padre non aveva mai fatto. E invece un intero popolo faceva quello che mio padre aveva sempre fatto. E io odiavo quel popolo, così come amavo mio padre. E io amo quel popolo, così come odio mio padre. Ma non ci capiremo mai. Fino a quando pretenderò che loro, lui, si adeguino a me. Cancellando se stessi per una sola donna che si è sentita cancellata da un solo uomo. E non si assume la responsabilità dei suoi gesti. Chiudendo, lei per prima, gli occhi davanti a una cultura millenaria” (6)

E’ del tutto naturale in questo contesto che la terra che l’ha vista nascere, che l’ha adottata, sia un paese ben accetto, anzi si vuole assumere in toto la italianità fino a cercare di eliminare le tracce fisiche della sua non italianità.

“Da quella terra (l’India) ero stata esiliata, e stringendo con forza il foglio di via rimanevo ferma, eseguendo gli ordini, nell’altra patria, l’Italia. Cercando di farla mia del tutto, non più solo a metà. Nonostante le apparenze, che tentano di camuffare ogni sforzo, stirandomi i capelli, evitando di abbronzarmi. Una gran fatica, fisica ed economica: quintali di phon bruciati per il loro uso eccessivo, chili di creme a protezione totale spremute fino all’ultima goccia sul mio corpo”.(7)

Anche nel racconto Ruben il desiderio di essere fisicamente come l’italiano, l’occidentale è dominante tant’è che la paura di avere un figlio è data essenzialmente dal fatto che possa essere dello stesso suo colore e quindi un “diverso” rispetto al colore occidentale.

“In mezzo, io. Che appartenevo a una sola nazione, quella italiana, perché l’altra era stata abbandonata. Eravamo in Italia. Eravamo a Milano. Dell’India esistevano solo delle foto, suggestive come un vaso cinese. Un oggetto che definisce l’arredamento. Non l’identità personale…Ma non è del tutto vero che non ti immagino. Faccio finta di niente ma sotto sotto penso che tu sia nero: di pelle, di capelli e di occhi. Assolutamente nero. Come tuo nonno. I caratteri scuri vincono sempre. Dicono.”(8)

Non è un caso usi il termine nazione, anziché paese, etnia, territorio. Nazione vuol dire appartenere solidamente ad una comunità perché se ne condividono valori, cultura, modi di essere e di vita.
La protagonista sia del romanzo che dei racconti sembra descrivere una situazione familiare di rottura fra i genitori, padre indio e madre italiana. L’odio amore nei confronti del padre, o meglio il rifiuto che il padre mostra nei confronti della figlia, lontanissima dai suoi schemi culturali, è contraccambiata dalla figlia con un odio, amore nei confronti dell’India. L’accettazione dell’Italia e della sua cultura potrebbe portare all’ipotesi di un amore più consistente nei confronti della madre. Ma nel romanzo “Media chiara e noccioline”, anche il rapporto con la madre è compromesso. La scelta della cultura italiana è quindi del tutto indipendente dall’influenza dei genitori.
La protagonista dei racconti e del romanzo è del tutto inserita nella cultura italiana. Non si evidenziano difficoltà di rapporti con i compagni a scuola, che sembrano averla accettata e inserita completamente ( sarà stato il grado sociale dei genitori: avvocato/medico e psicologa), non si evidenziano problemi nel mondo lavorativo, come anche nelle amicizie. L’emarginazione, l’isolamento che spesso accompagna anche l’immigrato e anche il figlio, in questi testi è del tutto inesistente.
E tuttavia una sorta di compartecipazione ai destini degli immigrati esiste anche nei personaggi degli scritti di Gabriella Kuruvilla.

“…, ma cedo quando, in Italia, lo straniero-l’emarginato è l’altro. E’ l’escluso che cerca di integrarsi, e che viene trattato con disprezzo o compassione…E’ mancante: e mentre mi identifico vorrei colmare la sua mancanza, per renderlo tutto. Per liberarlo. Per permettergli di essere se stesso. E ogni volta che vedo un indiano o un africano, in Italia, spero che mi riconosca: che veda in me uno della sua famiglia, una figlia…E guardando gli extracomunitari più emarginati, mi commuovo, trattengo a stento le lacrime, perché ogni volta che vedo uno di loro, soprattutto se uomo e anziano, mi sembra strappato dalla sua terra.” (9)

Nell’ultimo testo pubblicato E’ la vita, bellezza, una raccolta di racconti, si lascia da parte ogni riferimento a legami con una terra d’origine propria o dei propri genitori.
Il tessuto narrativo è organizzato su altre basi, su altre dimensioni. Anche la stessa integrazione, o per meglio dire la stessa compenetrazione nella società italiana sembrano del tutto acquisite, ma emerge un dato molto significativo.

Spesso la solitudine dei personaggi dei vari racconti deriva da una estraneità avvertita e sentita, che è riferibile al colore della pelle, all’essere in qualche modo diverso dagli altri.

Igiaba Scego

Igiaba Scego ha scritto: La nomade che amava Alfred Hitchcock, Rhoda, due racconti presenti nella raccolta Pecore nere, un racconto scritto per la rivista el-ghibli dal titolo la strana notte di vito renica, leghista meridionale; ultimamente ha coordinato con Ingy Mubiayi il libro Quando nasci è una roulette, la sua ultima pubblicazione è: Oltre Babilonia

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“Gli egiziani la chiamavano e l’adoravano per i suoi incensi pregiati” (10) “Infatti scoprii che la Somalia era un paese meraviglioso dove l’uomo poteva vivere felice in simbiosi con la natura. Adoravo ( e adoro) la mia bella Roma, ma Mogadiscio mi ha dato l’opportunità di recuperare le mie radici e di ampliare il mio orizzonte culturale”(11)

Questo attacco tratto dall’introduzione al testo La nomade che amava Alfred Hitchcock, dice in maniera esaustiva come la scrittrice di origine somala recuperi il territorio d’origine dei suoi genitori in maniera positiva, fin quasi a mitizzarlo.
Anche nel testo dismatrie la Somalia diventa una terra sognata, per cui si organizza l’intera vita, persino la struttura abitativa, fatta non da mobili che racchiudano vestiti od oggetti, ma da valigie ripiene e pronte per essere utilizzate in qualsiasi momento si possa partire. “.
Il sottolineava un qualche tempo non definito nel futuro quando saremo tornati trionfalmente nel seno di mamma Africa.”(12)
L’appellativo “mamma” sta ad indicare chiaramente il grado di affettività e di dipendenza da quel territorio, non solo ma un ritorno è visto come un trionfo, una vittoria di inestimabile valore.
Le protagoniste del racconto non sono dei rifugiati, degli espatriati, ma dei “dismatriati”, come si definiscono, cioè allontanati con forza da una madre alla quale si ha bisogno di tornare:

“Nel cuore però portavamo il tormento degli esuli. In cuor nostro sapevamo che non saremmo più tornati nella nostra Somalia, perché di fatto non esisteva più la nostra Somalia…La Somalia, quella sognata, quella vagheggiata, quella desiderata, sopravviveva solo nei nostri sogni ad occhi aperti, nelle chiacchiere notturne delle donne, nell’odore del cibo delle feste, nei profumi esotici dei capelli. Anche io e Mulki, che la Somalia l’avevamo appena sfiorata, vivevamo di quel dolore”. (13)

Il territorio dei genitori di questa scrittrice, sul piano letterario, è visto come qualcosa di importante, portatore di una cultura da recuperare, terra vagheggiata, sognata.
Il romanzo Rhoda si presenta con una complessità maggiore perché si stabilisce una dialettica, che assume la dimensione di uno scontro non sanato fra due sorelle Rhoda, appunto e Aisha. La prima ad un certo momento si oppone alla cultura del paese ospitante e in qualche modo ne fuoriesce, la seconda è invece colei che l’accetta.
La prima ha quasi una venerazione per il paese d’origine, pur consapevole della precarietà in cui versa, e viene scelto come terra di rifugio ai fini di una rigenerazione della propria persona, della propria struttura etica.
Rhoda, la protagonista, del romanzo non ha accettato di buon grado il suo improvviso e forzato trasferimento in Italia, deciso al di sopra della sua stessa volontà, così che rimane nostalgicamente legata alla sua Somalia e a tutte le cose che possano richiamarla.

“Una volta in Italia leggere il nostro libro sacro era tutto quello che mi rimaneva della mia vecchia terra. Mi aggrappavo ad essa con tutte le mie forze. Con tutto l’ardore di cui ero capace. Ripetevo come un automa le mie sure preferite e pregavo Dio di farmi ritornare nella mia Mogadiscio. Presto…prestissimo”(14)

Ma anche la sorella che invece ha accettato Roma, e l’Italia ha bisogno di risentire, rivivere modi e abitudini della terra d’origine.

“Decise di occupare il suo tempo dando un’occhiata alle bancarelle della via…il suo divertimento stava nel guardare, nell’illusione di poter ottenere qualcosa. Certo questo poteva farlo in un negozio, ma la bancarella aveva per lei un sapore antico, lontano. Le bancarelle le ricordavano in qualche modo la Somalia…Accompagnava sempre zia Dahabo a fare la spesa. Le piacevano soprattutto i banchi di spezie. Il rosso acceso del peperoncino, l'ocra del cumino, il giallognolo del curry...”(15)

L'attaccamento a Mogadiscio è viscerale, uterino, sarebbe da dire perché l'espressione usata dalla protagonista nei confronti della capitale somala ha come riferimento proprio l'apparato femminile:

“L'odore di Mogadiscio è uguale a quello della vagina. La mia e di tutte le donne. Un odore puro, lascivo, sensuale, virginale, modesto, fantasmagorico, penetrante, unico.”

Rhoda ha vissuto la sua vita a Mogadiscio in casa dello zio Daud e in Italia presso un'altra zia, sorella di di Daud. Nel romanzo non si parla dei genitori. La madre è morta. Del padre non si dice nulla. E' una assenza che pesa anche se probabilmente nella cultura somala la struttura parentale assume comunque la funzione genitoriale.
Non si sviluppa nella protagonista di questo romanzo una sorta di dialettica con i genitori e quindi essi non possono giocare un ruolo più o meno positivo nella funzione di riscoperta della terra d'origine. Bani, sua zia, non riesce ad assumere questa funzione, sogna di andare in Inghilterra, più che di tornare alla sua terra.
Quando Rhoda si ribellerà, sintomo della suo disagio nei confronti del paese ospitante, non lo farà contrapponendosi a Barni, ma piuttosto ad Aisha, che invece man mano sta assumendo posizioni di accettazione del territorio ospitante, della cultura dei nativi.
Questo attaccamento alla terra d'origine, al sogno della perpetuazione delle origine che anche zia Barni aveva riposto in lei, si tramuta in un odio nei confronti del paese ospitante, della struttura urbanistica della città che la ospita. In questo si accomuna al sentimento della zia:

“Invece con la zia c'era una sorta di solidarietà tra delusi. Entrambe odiavamo quella terra in cui il fato ci aveva costretto. Non ci piaceva niente. Niente”.(16)

La zia ha un atteggiamento del tutto negativo nei confronti di Roma e degli italiani.
Né si sforza di comprendere e capire gli italiani:

“Perchè lei si doveva sforzare di capire delle persone che pensavano che i 'negri' dovevano essere trattati come schiavi o peggio come carne da macello? Barni non ci stava a capirli, anzi lei voleva solo ignorarli. Era già dura dover camminare nelle loro strade, respirare la loro aria sporca, mangiare il loro cibo avariato. Era duro vivere da gaal [ndr: è il modo con cui si indicano gli europei] ogni giorno. Lei avrebbe voluto camminare per le strade sabbiose di Mogadiscio, bere latte dei cammelli e sentire il dolce rumore del mare, del suo mare lontano. Invece era costretta a vivere da gaal ogni giorno della sua povera vita. Era stufa marcia!” (17)

La comunanza dei sentimenti che Rhoda prova per Roma e l'Italia come quelli della zia Barni fa sì che si possa pensare quasi ad una funzione edipica mancata e proprio per questo all'impossibilità di Rhoda di ritrovare la sua autonomia, la sua identità strutturata. Anzi sempre più Rhoda scoprirà di mancare di struttura della persona, portata alla dipendenza fisica e morale da altri.
Rhoda comprende che il suo odio per Roma ha radici più profonde che sono legate alla storia della sua migrazione, ma ciò non è sufficiente per esorcizzare i suoi sentimenti e renderli più riflessivi.

“Roma l'avevo odiata dal primo momento. Ai miei occhi era arida, senza cuore, vecchia. Non era come me la immaginavo. C'era qualcosa in lei che mi risultava incomprensibile. Non sopportavo la falsa cordialità dei suoi abitanti, non sopportavo il traffico, non sopportavo la disorganizzazione. La odiavo! La odiavo! La odiavo!”(18)“Quello che odiavo – lo capisco meglio ora – era la possibilità di non poter scegliere se vivere o morire nella mia patria. Lo zio Daud aveva scelto per me, mi aveva impacchettato e mi aveva spedito a Roma dalla zia. Non mi aveva chiesto cosa ne pensavo o se mi stesse bene. Aveva dato per scontato la mia adesione. Questo più di ogni altra cosa mi rendeva furiosa. Siccome non mi potevo arrabbiare con lo zio me la presi con Roma. La Città Eterna era diventata così il mio capro espiatorio”.(19)

Nella dialettica che si esprime in tutto il romanzo fra la posizione di Rhoda e quella di Aisha nei confronti del paese ospitante, certamente va visto anche il ruolo che gioca l'età delle protagoniste al momento della migrazione, perchè un conto è migrare in piccola età, un conto è migrare da adolescente, quando l'attaccamento alla propria terra si è radicata. Un conto è migrare per propria scelta, un conto è migrare per decisione di altri, o per costrizioni superiori.
Questi aspetti della migrazione che fanno parte delle storie personali sono poi anche elementi che condizionano il rapporto che si ha con il paese ospitante.
Come più volte è stato visto la posizione di Aisha è totalmente diversa. Sa opporsi alla zia, sa opporsi alla sorella, avverte che c'è la necessità di sforzarsi per comprendere la posizione degli indigeni. E' sintomatico che acquisti gli stessi sentimenti e comportamenti dei giovani e dei ragazzi che frequenta a scuola.
Illuminante è la pagina che segue che rivela il differente atteggiamento di Rhoda rispetto ad Aisha:

“Aveva ricevuto una telefonata. Si vedeva che aveva pianto molto e il volto le si era anche gonfiato per lo sforzo. , disse allarmata Faduma, il suo cuore di mamma non sopportava le lacrime dei giovani. . , disse meravigliata sua zia. , chiese Faduma senza far trasparire la sua curiosità morbosa. ”.(20)

Il modo di essere di Aisha è del tutto simile a quello di tanti giovani italiani che si commuovono per qualcosa che è accaduto a uno di loro anche se lontano dalla propria sfera di affetti. La commozione di Aisha risulterà strana a Rhoda perchè vedrà in quel comportamento il processo assimilativo di Aisha nella cultura e nei comportamenti del paese ospitante.

E' la rottura con Rhoda, è la distanza dalla zia, dal mondo che vuole continuare nostalgicamente a vivere nei propri ricordi.

Negli altri testi di Igiaba Scego, il riferimento alla terra d’origine dei genitori è assente, sono messi a fuoco altri elementi, così avviene nel testo Salsicce o la strana notte di vito renica, leghista meridionale.
La difesa dell’identità, anzi della pluridentità è alla base di questi racconti, ma ciò sta ad indicare un atteggiamento di resistenza alla tentazione e alla pressione di assimilazione e di omologazione che la società ospitante sta svolgendo nei suoi confronti e nei confronti, comunque, degli stranieri.
I personaggi di Igiaba Scego non accettano una integrazione sembrano molto critici nei confronti dell’atteggiamento politico che l’Italia ha nei confronti degli stranieri.

Ghebreigziabiher Alessandro

Scrittore nato a Napoli da madre italiana e padre eritreo, è impegnato in produzione di eventi teatrali ed ha pubblicato Tramonto e in questi ultimi anni Mondo giovane, un libro concepito per la scuola rivolto ad adolescenti e giovani.
Sempre per il mondo giovanile ha pubblicato Il Poeta, il Santo e il Navigatore.
Lo scrittore di origine eritrea scrive per italiani e non si pone l’obiettivo, specialmente nel testo Mondo giovane, di proporre tematiche relative al problema della stranierità.
Certamente non emerge nessuna nostalgia per il territorio d’origine del padre. Il rapporto con la terra del genitore è del tutto inesistente. Sembra che l’Eritrea non abbia alcun fascino, né richiamo per i personaggi che man mano emergono dagli scritti di Ghebreigziabiher Alessandro.
Anche il rapporto con la cultura degli italiani sembra del tutto positiva.
Non si notano particolari differenze, anzi nessuna differenza nella cultura fra i personaggi dei testi di Alessandro e quella degli italiani.
Ma nel romanzo Il Poeta, il Santo e il Navigatore, si evidenziano alcune particolarità significative.
Si tratta di una narrazione – il sottotitolo è il primo romanzo scritto da un extraterrestre – i cui personaggi principali sono tutti di colore, definiti dalla polizia italiana extracomunitari.
Sono tre personaggi che, pur essendo di origine straniera sono stati scelti da un computer, quindi da uno strumento oggettivo, come i rappresentanti più significativi dell’italianità, perché espressione di quello spirito del popolo che viene denominato popolo di poeti, santi e navigatori. Il colore della loro pelle, però ha impedito che potessero essere riconosciuti dagli italiani nel loro valore e nelle loro qualità e quindi hanno subito vicissitudini che non ne hanno permesso la espressione completa della loro italianità.
I personaggi pur integrati, pur ripieni della cultura italiana che accettano e che sentono propria sono comunque segnati dal proprio colore.
Anche gli insegnanti usano un linguaggio che presuppongono nel colore della pelle una diversità.
Il tono del romanzo propone quindi una velata critica per come vengono visti le persone di colore e lasciano presupporre contrasti con gli italiani d'origine i cui sviluppi non sono prevedibili.

Randa Ghazy

Nata in Italia è figlia di egiziani, trasferitosi parecchi decenni or sono nel Nord dell'Italia.
Ha al suo attivo, pur giovanissima, tre libri, Sognando Palestina-Prova a sanguinare-Oggi forse non ammazzo nessuno, che hanno avuto un discreto successo. La casa editrice che pubblica i suoi testi è la Fabbri editori.
Il primo testo ambientato in Palestina e con personaggi palestinesi non può certo darci una indicazione relativa alle problematiche che ci siamo proposti di indagare per il semplice fatto che l'attaccamento alla terra d'origine è la ragione prima della lotta dei palestinesi, né è possibile indagare sul grado di inserimento della scrittrice di origine egiziana in quella italiana a partire dai personaggi perchè l'ambiente, la tematica è totalmente lontana da quella italiana.
Più significativi al riguardo possono essere gli altri due romanzi.
Prova a sanguinare è l'incontro scontro su un treno di quattro ragazzi di origini etniche diverse. La ricerca che fa ciascuno riguarda la propria vita, la propria relazione con gli altri. Ne emerge uno spaccato del mondo giovanile, ma specialmente di quel mondo di giovani generazioni i cui genitori appartengono a culture diverse.
Hayat ragazza araba (è singolare il fatto che nella presentazione dei personaggi all'inizio del romanzo, la narratrice abbia attribuito ad Hayat il carattere di arabo senza specificarne la nazione ) ad un certo punto riflette su se stessa:

“Mi ritrovo sempre al centro, in ogni cosa, mi sento eternamente apolide. Eppure nello stesso tempo ho patria dappertutto. O dove scelgo di averla – mentre di solito una patria non la si sceglie, ma la acquisisci e ti entra nel sangue -” (21)

più avanti

“I miei genitori sono tunisini: Hanno nel sangue la passione araba e nei tratti del volto le loro origini semite, gesticolano molto, una grande animosità quando litigano...Per cui io dovrei automaticamente far parte di tale famiglia. Ecco, dovrei, ma in realtà, anche se quest'appartenenza la sento, non è totale”.(22)

Alcune considerazioni sono immediatamente da fare e cioè che per il popolo arabo non c'è un particolarissimo legame con il territorio di appartenenza. E' più importante il legame alla comunità araba e per questo fatto qualsiasi paese del mondo arabo è sentito come proprio territorio. E’ per questa ragione che il legame e l’affetto del popolo arabo (del popolo, non dei governanti) per i palestinesi è così profondo.
In fondo le stesse considerazioni possono essere fatte per il popolo ebraico, che alla fin fine sente Israele un territorio più proprio di quello del paese in cui è nato ed in cui sono nati i suoi antenati anche da diverse generazioni.
Così che un amico di Ruth l’ebrea del gruppo di giovani che sono nel treno

“a quattordici anni lui e suo padre sono andati a trovare la madre, e lui si è innamorato di Israele…Tornò in Italia e raccolsero le loro cose: quando Jon me lo disse, fu un colpo durissimo.”(23)
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L’attaccamento al proprio territorio non è solo della ragazza araba o ebrea, ma anche del ragazzo americano che in un suo desiderio di comunicare così parla dentro di sé:

“ti parlerò del mio paese bellissimo e delle sue contraddizioni che a volte lo rendono così grottesco ma non è un popolo cattivo sai,..”(24)

C’è uno spostamento dal territorio alla gente che vi abita, ma questo sta a dimostrare come l’appartenenza ad un popolo, ad una etnia è strettamente legata ad un territorio, forse ad eccezione del popolo rom.
In tutto il romanzo Randa Ghazy gioca sul fatto della duplice appartenenza e quindi sull’impossibilità di una chiara definizione identitaria, ciò è comune a tutti i ragazzi del gruppo salvo che a quello di origine indiana d’America. L’integrazione con la cultura del paese in cui si è nati ma che non è della propria famiglia non riesce ad essere totale. Esiste sempre un certo distacco.

“L’uomo è anche ciò che fa, è il percorso che segue nella vita e lo porta a maturare quella consapevolezza che ci dà la dignità di esseri umani. E fare questo percorso nella società occidentale significa, da un certo punto di vista, diventare un po’ occidentali…Così mi ritrovo a cercare disperatamente di capire a chi e a che cosa appartengo…Io non sono del tutto araba, lo so perché mi ritrovo spesso di fronte a divergenze incolmabili con gli arabi e i miei stessi genitori, nemmeno sono del tutto occidentale, per ovvie ragioni”(25)
.

All’americano che però ha origini italiane questa condizione di dubbio sulla propria identità è inesistente

“ebbene io sono un american man, american fino al midollo, queste cose non le cambierò mai, lo capisca Elisabetta, lo capisca mio padre e Costantina e tutti gli altri, anche se mi piace la pasta e il Colosseo and so on, ciò non vuol dire, non vorrà mai dire che io rinuncerò a porre in primo piano la mia america, con tutti i valori connessi, perché qualcosa di me, rimarrà in quel quartierino di san Francisco dove son nato e cresciuto” (26)
.

Vi è in queste parole un senso di orgoglio e di autosufficienza, privo di quei dubbi che invece sono visibili proprio nel personaggio arabo.
Certamente questi dubbi portano a far restare l’io in bilico, in una situazione di equilibrio instabile. Non è assodata una pluriidentità, così come è spesso presente in persone che provengono da culture diverse da quelle ove poi si stabiliscono. Anche Igiaba Scego nel racconto salsicce si concentra sulla duplice identità, ma scopre la sua personalità sicura nell’aver acquisito i caratteri dell’una e dell’altra cultura.
Il precario equilibrio che in questo romanzo si avverte appena diventa centrale nell’ultimo romanzo di Randa Ghazy. Intanto l’attaccamento alla terra dei genitori della protagonista del romanzo è sentita in maniera forte:

“Be’, Yusuf, io sono il tipo di ragazza che bla bla, e adoro Alessandria, il lungomare, la biblioteca, la gente, i mercati, Khan El Khalili, le piramidi, e perché no, anche Sharm El Sheikh, anche se è peggio di Rimini (27)…Che noi non abbiamo particolari legami con Milano. Siamo solo di passaggio. Noi siamo gli apolidi, quelli che non sono a casa da nessuna parte. Quelli un po’ in mezzo”(28)
.

L’essere nati in Italia non ha creato un affetto tenace con il territorio, che viene sentito repulsivo, in-accogliente.
Ciò che maggiormente emerge dal romanzo Oggi forse non ammazzo nessuno è il fatto che il carattere di equilibrio instabile fra una cultura e un’altra, perché l’accettazione di una parte di essa ti fa sembrare una traditrice e ne senti quasi un senso di colpa, diventa più forte e radicato. Alcuni passaggi sono significativi. Jasmine, la protagonista, continua a combattere e a trovarsi spaesata fra la vita in una cultura occidentale e il richiamo di un’altra cultura, che, nonostante la sua nascita in Italia, ha sempre più prepotentemente.

“Non esiste. Tutta la mia vita è una cosa pazza. Non so chi sono, dove andrò…non so perché sono così diversa”. (29)

Poco più avanti nel testo, dopo aver criticato a fondo in una pagina la cultura dell’Egitto conclude:

"E pensa se non vivessi in quel paese, ma fosse il paese dei tuoi genitori e il paese che ti dà anche lui in qualche modo, una cittadinanza. Benvenuti in Egitto”(30)
.

La critica è stemperata perché viene tutte le incomprensioni del modo di vivere in Egitto vengono stemperate da quest’ultima frase, che sembra quasi una accettazione, comunque sia, della sua cultura.
In alcuni momenti la protagonista non sembra di essere nata in Italia e aver vissuto con ragazzi italiani perché incomincia ad accettare il punto di vista di chi è da poco in Italia.
Così che a proposito del velo così si esprime:

“perché la minigonna sì e il velo no? Perché combattere affinché le donne abbiano il diritto di non portare il burga, di non mettersi il velo, e perché non combattere affinché le donne abbiano il diritto, se vogliono, di indossarlo, il velo?”(31)

L’ambivalenza, l’indecisione, il dubbioso giudizio su una cultura e l’altra stanno ad indicare un conflitto interno che per una persona nata in Italia è una regressione e non una accettazione della duplice identità. Parlando di Mahfuz la protagonista del romanzo dice:

"E la sua fede e fiducia nella civiltà occidentale non sono mai state scalfite. Mi chiedo come. Io che ci sto maledettamente dentro, in questa civiltà, scorgo la sua codardia e mi vergogno della sua inerzia, allo stesso modo con cui soffro per la decadenza e il triste torpore in cui sprofonda sempre più la civiltà araba, per non parlare di quella musulmana.”(32)

Il rischio è il rifiuto della cultura ove si è nati e cresciuti e un ritorno ad una cultura dei genitori della che rischia di essere una estremizzazione e l’avvio verso un fondamentalismo.

“E l’unica soluzione, alla fine, rimane tornare indietro. Quando ti rendi conto che non raggiungerai mai la meta, ti volti e torni indietro. Ma quando ti giri di nuovo guardarla, non c’è più, perché in realtà non c’è mai stata” (33)
.

Le ragioni di questo svilimento è possibile trovarle qualche riga prima.

"Quante volte mi sono sentita fottutamente diversa? Quante volte ho avvertito il disagio nelle persone, o il disagio in me, l’incapacità e l’impossibilità di renderli pienamente partecipi di quello che sono? Quante volte mi sono detta ‘pensa se un giorno mi svegliassi e mi ritrovassi in una bella famiglia italiana, uguale a tutti quelli che mi stanno intorno. O, nel caso opposto, in una bella famiglia egiziana, in Egitto. Ma almeno uguale agli altri? …Sono sempre lì tesa verso l’integrazione perfetta, l’assimilazione più totale. Senza rendermi conto che forse alla fine è un miraggio lontano. Tu ti sforzi e fai di tutto per avvicinarti, ma più ti avvicini più perdi qualcosa di te, e anche se sembra più vicino, non ci arrivi mai" (34)

A partire da questi ancora pochi e semplici dati è possibile fare alcune considerazioni:
1) Qualunque sia il grado di integrazione, nella persona nata da genitore di altra etnia, specie se di altro colore, avviene sempre un senso di disagio e di estraneità, che può essere vissuto in maniera più o meno intensa.
2) Quando a questo disagio si accompagna anche un romantico attaccamento al territorio dei genitori, il disagio per il paese ospitante diventa più accentuato e rischia quasi sempre di produrre una regressione culturale, nel senso che si ritorna alla cultura del paese d'origine, a volte riaccettandola criticamente e interrompendo quel processo dialettico, che è proprio di ogni migrante, mediante il quale si tende a porre in continuo confronto la cultura lasciata e quella che si incontra.
3) Non è scopo di questo piccolo saggio fare analisi sociologiche, ma certamente impostare il rapporto con gli stranieri e i figli degli stranieri secondo uno schema di darwinismo sociale comporta dei rischi notevolissimi.

(1)Viola Chandra, Media chiara e noccioline, DeriveApprodi 2001, pag.76
(2)Ibidem, pag 77
(3) " pag.77
(4) " pag. 78
(5)A.A.V.V., Pecore nere, Laterza 2005, pag. 71
(6)Viola Chandra, Media chiara e noccioline, DeriveApprodi 2001, pag. 79
(7)Ibidem, pag. 78
(8)A.A.V.V., Pecore nere, Laterza 2005, pag. 84
(9)Viola Chandra, Media chiara e noccioline, DeriveApprodi 2001, pag. 82
(10)Igiaba Scego, La nomade che amava Alfred Hichcock, Sinnos 2003, pag.8
(11)Ibidem, pag. 9
(12)A.A.V.V., Pecore nere, Laterza 2005, pag. 10
(13)Ibidem, pag. 11
(14)Igiaba Scego, Rhoda, Sinnos 2004, pag. 72
(15)Ibidem, pag. 79
(16)Ibidem, pag. 74
(17)Ibidem, pag. 149
(18)Ibidem, pag. 72
(19)Ibidem, pag. 76
(20)Ibidem, pag. 66
(21)Randa Ghazy, Prova a sanguinare, Fabbri 2005, pag. 27
(22)Ibidem, pag. 29
(23)Ibidem, pag. 260
(24)Ibidem, pag. 160
(25)Ibidem, pag. 30
(26)Ibidem, pag. 44
(27)Randa Ghazy, Oggi forse non ammazzo nessuno, Fabbri 2007, pag. 78
(28)Ibidem, pag 79
(29)Ibidem, pag. 82
(30)Ibidem, pag 120
(31)Ibidem, pag 137
(32)Ibidem, pag. 161
(33)Ibidem, pag 177
(34)Ibidem, pag. 177

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Anno 5, Numero 22
December 2008

 

 

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