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La migrazione afgana in Iran risale alla fine del XIX secolo. Il fenomeno si è intensificato a partire dagli anni '70, a causa dei noti, tragici avvenimenti accaduti nel paese centrasiatico, che in breve tempo ha sperimentato l’invasione sovietica e il feroce regime dei Taleban.
L’Iran rappresenta da sempre un’attrattiva per gli Afghani in migrazione, specialmente per gli appartenenti al gruppo etnico degli Hazara, che condividono la stessa religione degli iraniani (islam sciita) e parlano una lingua pressoché identica al persiano (la dari). La lingua comune è stata un fattore cruciale nel facilitare la formazione di una generazione di ragazzi e ragazze afgani che possono giovarsi del sistema educativo iraniano. Queste facilitazioni formative si estendono anche alle donne, tanto che, sebbene la larga maggioranza delle afghane (costituenti un terzo della migrazione dal loro paese sull’altopiano) siano impegnate in attività domestiche quali il ricamo e il cucito, un buon numero di loro può dedicarsi ad attività culturali di vario tipo, inclusa la letteratura.
Questa nuova generazione di afgane istruite e maggiormente sicure di sé può perseguire la strada della letteratura, componendo perlopiù poesie in cui danno sfogo alle loro ansie, aspirazioni, timori e preoccupazione per la loro condizione di donne in diaspora.
La poesia nella società afgana. Le donne poetesse
La poesia, soprattutto orale, è sempre stata la maggiore forma di espressione culturale in Afghanistan, rappresentando altresì un modo per comunicare idee, inclusa la protesta socio-politica.
Da tempo immemore l’Afghanistan ha ospitato tenzoni poetiche dove gli artisti potevano competere in eloquenza e cultura improvvisando liriche, composte secondo i canoni estetici e letterari dettati dai maestri della letteratura persiana.
Data la struttura fortemente patriarcale della società afgana, non c’è da meravigliarsi che la produzione poetica femminile sia inferiore – quantitativamente – a quella dei loro colleghi, nonostante le donne abbiano cominciato a poetare almeno fin dal X secolo, quando la figlia del governatore di Balkh, Rabi’a, componeva liriche in arabo e in persiano. Divenne famosa, tanto che le sue poesie venivano recitate pubblicamente nei circoli letterari: fu in una di queste occasioni che Rabi’a declamò alcuni versi in cui confessava di amare uno schiavo di suo fratello. Questi, sentendo il nome della sua casata in relazione a quello di un servo, si infuriò a tal punto da ordinare che la sorella venisse condotta nell’hammam e le fossero tagliate le vene. Ma, prima di morire, Rabi’a scrisse col proprio sangue alcuni versi sulle pareti del bagno, sia in dedica al suo amato sia come atto d’accusa al fratello assassino.
Si potrebbe arguire che il destino di Rabi’a anticipi la piaga patita nei nostri giorni dalle donne afgane, costrette ancor oggi ad usare il sangue per esprimersi. E’ una realtà che solo poche afgane siano riuscite ad imporsi sulla scena letteraria, come testimoniato pure da una recente antologia dedicata alle poetesse d’Afghanistan, da Rabi’a ai giorni nostri, che elenca solo una sessantina di nomi di artiste. Inoltre, la bio-bibliografia di queste scrittrici indica che solo recentemente le loro opere sono state pubblicate, e che la maggioranza di loro ha dovuto lasciare la madrepatria a causa degli sconvolgimenti politici e sociali in cui l’Afghanistan è stato coinvolto a partire dagli anni ’70.
Donne afghane in Iran
Come già detto, l’Iran è uno dei paesi preferiti dai migrati afgani, dal momento che i due paesi condividono lingua, religione e secoli di storia comune. Tuttavia, l’atteggiamento ufficiale della Repubblica Islamica d’Iran verso gli afgani ha subito notevoli variazioni. Durante gli anni dell’invasione sovietica, l’Iran accoglieva gli afgani quali “fratelli musulmani che scappavano da un regime anti islamico”. Dopo la sconfitta dell’Armata Rossa, e dopo i tumulti a seguito dei quali si imposero i Taleban, le autorità iraniane hanno cominciato a divenire sospettose nei confronti degli afgani, considerati possibili strumenti di instabilità, manovrati da potenze straniere, e inevitabilmente destinati ad aumentare la frizione sociale, creando tensioni fra la popolazione autoctona.
Nonostante ciò, un gran numero di afgani emigrati, incluse le donne, hanno potuto beneficiare del sistema di istruzione iraniano, fiore all’occhiello della Repubblica Islamica.
Sebbene le afgane abbiano, comunque, delle innegabili difficoltà di accesso alle risorse educative iraniane, tuttavia è altresì certo che esse, così come molti loro compatrioti, non avrebbero avuto alcuna possibilità di istruirsi nella loro madrepatria. Inoltre, se consideriamo il fenomeno da una prospettiva di genere, è evidente che le afgane non solo hanno avuto più opportunità educative in Iran, ma hanno anche beneficiato della generale atmosfera, promossa dalle iraniane, di consapevolezza di genere e di avanzamento culturale, sociale ed economico. In Iran, le afgane possono vivere in una società islamica tradizionale dove le donne costituiscono il 62% della popolazione studentesca universitaria, e dove esse possono esercitare praticamente qualsiasi professione, dai gradi più alti dell’insegnamento alla direzione di associazione femministe ed educative, dalla carriera medica alla conduzione di organizzazioni non governative. Nonostante, infatti, le donne iraniane siano sempre in lotta per i loro diritti, il loro avanzamento e la posizione acquisiti all’interno della società sono tali da non poter passare inosservati da parte delle afgane, che sono state profondamente colpite dal successo delle sorelle d’Iran.
Le iraniane s’esprimono prevalentemente attraverso la letteratura – la loro affermazione in questo campo s’è trasformata nell’evento più significativo sulla scena letteraria delle società islamiche contemporanee – e, di conseguenza, non sorprende il fatto che pure le afgane si siano rivolte alla letteratura quale mezzo per dare voce ai propri sentimenti, esperienze, aspettative e paure per il futuro. Grazie all’aiuto dei circoli letterari fondati in Iran da migrati afgani (quali il Centro Culturale degli Scrittori Afgani a Mashhad ) e alle loro attività (che vanno dalla pubblicazione di riviste all’organizzazione di festival letterari), le afgane sono divenute un nuovo fenomeno socio-culturale che sfida lo stereotipo della “donna afgana passiva e segregata”.
A Tehran, nel settembre 2005, al Terzo Festival Letterario (Qand-e farsi) per scrittori rifugiati afgani, la maggioranza dei partecipanti e due terzi dei 28 finalisti erano costituiti da donne, nove delle quali hanno vinto uno dei tredici premi. (Olszeswka, 2005: www.badjens.com/afghan.lit.html).
Sono donna e afgana in Iran: il doppio esilio
Come facilmente intuibile, il fardello dell’esilio è uno dei temi più comuni nella scrittura delle rifugiate afgane, un tema condiviso con i loro colleghi maschi con cui esse sperimentano le perdite causate dalla guerra e il trauma della marginalizzazione etnica. Nonostante le loro condizioni di vita siano assai migliori in Iran che in Afghanistan, gli afgani soffrono dei limiti e delle restrizioni in quanto rifugiati e della sfiducia generale degli iraniani nei loro confronti. E’ innegabile che moltissimi iraniani abbiano forti pregiudizi verso gli afgani, da essi giudicati inaffidabili, bugiardi, inclini al furto e coinvolti nel traffico di droga. Tali pregiudizi sono comuni anche tra gli intellettuali iraniani: nel 1991, il poeta afgano Mohammad Kazem sentì il bisogno di pubblicare una poesia in un giornale in cui accusava gli iraniani d’essere indifferenti nei riguardi delle condizioni dei rifugiati afgani, (Olszewska, 2007, 211). Questa iniziativa sollevò delle reazioni controverse fra gli intellettuali iraniani, con il risultato di far aumentare sia il livello di consapevolezza nei riguardi della presenza afgana sia l’appoggio per gli autori afgani che, da allora, hanno cominciato ad essere invitati ai festival letterari, con conseguente maggiore facilità di accesso al mondo dell’editoria per pubblicare i loro lavori.
Nonostante questo, molti afgani in Iran sono ancora sottoposti a forme di razzismo, e la maggior parte degli scrittori afgani ne sono consapevoli. Essi scrivono delle pene sofferte in qualità di esiliati, pur costituendo ormai la seconda generazione di emigrati.
Ad esempio, Fa’eqeh Javad (Kabul, 1975), che polemicamente (?) aggiunge al suo nome il soprannome “Mahajer” (“immigrato”, o”rifugiato”), esprime la nostalgia usando ripetutamente toponimi afgani:
La condizione di emigrante accentua la nostalgia di Fa’eqeh Javad e il suo amore per la terra natale, sentimenti che esprime in una lunga poesia, “…e penso all’amore con tutta la mia giovinezza” (..va man ba tamam-e javani be ‘eshq fekr mikonam), nella quale le città dell’Afghanistan giocano un ruolo centrale nell’animare una lunga lista di sentimenti ed oggetti che inducono la poetessa a pensare all’amore. Kabul, Qandahar, Herat, Mazar divengono, nell’immaginazione poetica, sorta di amanti che la scrittrice audacemente ospita sul suo materasso. (Mirshahi, 2000, 80-82).
Il tema dell’esilio senza fine e la costrizione a dovere perennemente migrare è fortemente sentito anche da Mahbubeh Ebrahimi (Qandahar, 1975), forse la poetessa afgana più famosa in Iran. In una delle sue poesia, “La frontiera” (Marz), ella indugia sul dolore provato quando, giunta al confine e prossima ad espatriare, si ritrova dilaniata tra la madrepatria e la nuova terra che l’attende:
Ebrahimi ritorna all’angoscia della migrazione nella poesia “L’aeroporto” (Forudgah). E’ in compagnia di qualcuno che sta partendo, una triste situazione che Ebrahimi trasforma nell’allegoria dell’intera diaspora afgana, che costringe lei e i suoi compatrioti a vivere una vita scandita solo da numeri e burocrazia. In un’umida serata priva di luna e stelle, qualcuno sta trascinando due vecchie bisacce e vent’anni di stanchezza, pronto a viaggiare sei ore, incurante addirittura della destinazione finale, animato dall’unica certezza dei numeri che contraddistinguono il suo volo e il sedile sull’aereo. (Mirshahi, 2006, ibid.). Qualcuno parte, ma è la stessa Ebrahimi che viene lasciata sola, abbandonata, a causa della forzata migrazione di un suo affetto.
E’ indubbio che siano proprio le donne afgane a pagare il prezzo più alto della tragedia afgana. Solitudine, povertà, dolore per la fame sofferta dai figli, e, soprattutto, il disperato bisogno di qualcuno cui appoggiarsi, sono i temi dominanti di questa produzione poetica.
Secondo l’omonima poesia di Mahbubeh Ebrahimi, il “Mattino” (Sobh), per una afgana, significa indossare il ciador e uscire in cerca di pane e latte, lavare panni sporchi, e quindi finire prigioniera in una stanzetta, oppressa dalle nuvole nere al suo interno. Tuttavia, la poetessa incita le donne alla resistenza, raccomandando la poesia come un mezzo per superare gli ostacoli e non venire travolte dall’infelicità: […] recita un sonetto (ghazal) e non morire sotto le mani e i piedi del dispiacere, oh canzone! (Mirshahi, 2006, ibid.). Si noti bene, la poesia di Ebrahimi, così come la produzione poetica della maggioranza delle autrici afgane, non sacrifica prosodia e metrica a favore del contenuto, anzi, le artiste sono ben attente a rispettare le convenzioni e le regole letterarie pur esprimendo l’urgenza del loro lamento e della loro protesta. Queste poetesse hanno una padronanza assoluta dei canoni millenari della poesia persiana, anche se, talvolta, compiono incursioni nella she’r-e now, la nuova poesia che meno si cura di immagini retoriche e rime, privilegiando piuttosto i contenuti.
La novità di questa produzione poetica afgana al femminile sta nei concetti espressi e nel nuovo, rivoluzionario modo in cui le afgane si pongono al centro della scena. E’ evidente che le circostanze sociali, storiche e politiche, nonché i contatti ravvicinati con il movimento delle donne d’Iran, abbiano stimolato la consapevolezza delle donne afgane per le istanze di genere, istanze, peraltro, che nella loro poesia sono ancora intrise di bisogni primari e basilari.
Ad esempio, Simin Hosseinzadeh, arrivata in Iran da Kabul nei primi anni ’90, scrive nel suo testo poetico “Dal retro della fortezza della jihad” (Posht-e sangar-e jihad):
Tuttavia, Hosseinzadeh è orgogliosa delle proprie origini e dell’eredità a lei lasciata dalle donne afgane:
Simin Hosseinzadeh quindi trova energia per la sua battaglia quotidiana dalla memoria di Nahid e Halali, due donne martirizzate durante la guerra civile in Afghanistan. Questa eredità di memoria la rende moralmente costretta a continuare a vivere, nonostante le difficoltà che deve fronteggiare ogni giorno, per non vanificare il sacrificio delle consorelle.
Un’altra autrice, Zahara Hosseinzadeh, applica la metafora della poesia per esprimere la sua condizione di donna in lotta contro la difficoltà quotidiane, legandola alla metafora del cucito, dal momento che tanto la poesia quanto il cucito sono “occupazioni da donne”. Nella sua “Il leopardo fra le parentesi (Palang tu-ye parentez), Zahra Hosseinzadeh racconta di una ragazza brava a cucire che si riempie la vita di filosofia e poesia, ma, al contempo, si sente come un leopardo fra le parentesi, che siano aperte o chiuse. Per molto tempo, a causa sia di altre persone sia di carenze personali (“devi riconoscere che tutti noi siamo peggiorati”), non è stata capace di scrivere altro che un frammento (qet’eh). E non c’è altro che possa fare, se non essere paziente (“impara il libro della pazienza dagli uccelli”) mentre cuce abiti nuovi per il fidanzamento (www.kabotarechahi.persianblog.ir/).
Nonostante la delusione per l’indifferenza della gente (gli iraniani?), Zahra Hosseinzadeh non vuole arrendersi, ma piuttosto cambia strategia, scegliendo occupazioni tradizionali quali il cucito e il ricamo (le più comuni attività fra gli afgani rifugiati in Iran) come mezzo per mantenersi e, al contempo, seguire una carriera letteraria. Anche se “fra parentesi”, è pur sempre un leopardo, una creatura energetica e capace di dar battaglia.
Questa nuova coscienza di genere rende le donne afgane più baldanzose, al punto da spingerle ad usare immagini e linguaggi in un modo che non ha precedenti nella storia della letteratura afgana al femminile. Ad esempio, Mariam Torkemani scrive:
Questi audaci versi hanno molteplici significati: da un lato, Torkemani proclama il diritto d’ogni donna di essere felice anche se sterile, contrariamente al luogo comune, diffuso nelle società islamiche e/o tradizionali, che “il paradiso sia ai piedi di una madre”. Pare cogliere una ribellione contro la religione (islamica), nelle parole di Torkemani, ma in realtà il suo biasimo non è rivolto contro la religione di per sé, ma piuttosto contro le tradizioni e le superstizioni che spesso inficiano la religione.
D’altro canto, Torkemani afferma di provenire da una cultura che riconosce il diritto alla libertà delle donne, per cui non c’è bisogno di chiedere aiuti esterni (ovvero occidentali) per restituire alle afgane diritti e libertà.
Questi concetti sono espressi con un linguaggio forte, quasi violento. La poetessa non dà alla luce un bambino, ma lo “sputa” (tof kardan). Un atto che compare anche in un’altra poesia di Mariam Torkemani, così come lo sputare per disprezzo contro qualcosa/qualcuno è un’immagine che ricorre in altre poesie di donne afgane. Ad esempio, la faccia di Maral Taheri diventa uno sputo quando cammina per la strada con un ragazzo sconosciuto, in profondo spregio verso la gente che la considera"ancor meno apprezzabile del fazzoletto rosso di [mia] madre". Al contempo, Taheri sfida la società che considera inconcepibile il fatto che una ragazza cammini liberamente per la strada con un amico dell’altro sesso (Mohammadi, 2006, ibid.)
In alcune occasioni la critica pervade la poetica di queste autrici, al punto tale da trasformare il componimento in un manifesto di protesta contro la condizione della donna. Scrive Zahra Hosseinzadeh nella sua “Era proprio la mia altra metà” (Derast nimeh-ye man bud):
La poesia menziona alcune delle piaghe che affliggono le afgane. A causa dell’estrema povertà, spesso le ragazzine sono venduta dalle stesse famiglie e vengono private del diritto all’istruzione (il tasso di alfabetizzazione fra le donne afgane è solo del 21%). Diventano madri giovanissime (il tasso demografico nel paese è di 6.75 figli per donna), e il marito ha il diritto di ripudiarle a piacere, senza garantire loro alcuna forma di mantenimento.
In altre parole, le donne afgane sono considerate come oggetti, o bottino di guerra. In questo grigio panorama le ragazze non hanno futuro, possono solo perpetuare il tristo destino delle loro madri. Inoltre, le afgane sono disilluse dalle promesse dei loro uomini - peraltro non mantenute- di cambiare la situazione, e l’Afghanistan rimane un paese violento e pericoloso proprio perché i suoi uomini non rinunciano a vendette e rappresaglie:
Coraggiosamente, Mahbubeh Ebrahimi denuncia le cause maggiori che tengono alta la tensione in Afghanistan, ovvero l’abuso di armi e l’economia basata sul traffico di droga, aggravate dal fatto che tali attività sono compiute dagli stessi afgani. Le donne hanno paura di ritornare a casa, perché l’ Afghanistan è uno dei paesi al mondo maggiormente infestato da mine anti uomo in cui i bambini possono incappare, rimanendo uccisi o menomati orribilmente, solo toccando una bambola, lasciata per terra, che è in realtà solo uno di questi spaventosi ordigni camuffati.
Per ironia della sorte, questa poesia è stata pubblicata nell’ultima collezione di Ebrahimi, poco prima che la stessa e il marito decidessero di ritornare in patria.
Ma le afgane non si limitano a una critica sterile, se pur vibrante, esse hanno le idee chiare sui loro desideri, soprattutto in materia di affetti e sentimenti. Come scrive Maral Taheri:
Le donne afgane sono anche affamate d’amore, un bisogno di cui parlano usando varie tecniche, plasmando le convenzioni poetiche persiane, scagliando grida di protesta, oppure usando immagini innovative.¬ Spesso, le poetesse combinano varie di queste modalità, ed esprimono i loro tumultuosi sentimenti usando le consuete (e, a volte, abusate) immagini della letteratura persiana classica per chiedere il cambiamento, esprimendosi, al contempo, con un linguaggio franco e perfino aggressivo. Ecco come Ziagol Soltani (Herat, 1957) esprime la sua condizione:
Il flauto (Neylabak)In questo testo Soltani usa alcune delle più comuni figure della poesia persiana, quali la falena che si brucia le ali sulla fiamma, o il flauto e lo specchio, modulandole per esprimere il lamento di una donna segregata che vuole essere liberata dal suo confine invernale per assaggiare il verde della primavera.
Un critico iraniano sostiene che le donne afgane scrivono d’amore sotto la doppia influenza delle poetesse iraniane, specialmente quella di Forugh Farrokhzad (1935-1967), la poetessa iraniana più amata (Mohammadi, 2007: www.jadidonline.com/story/12022007/akmf/forough). Nonostante questa affermazione sia imbevuta di un certo chauvinismo iraniano, è indubbio che la scrittura di Farrokhzad abbia influenzata gran parte della poesia persiana scritta nelle ultime decadi. Il suo parlare semplice e franco a proposito di soggetti considerati tabù dalle società tradizionali ha ispirato le ultime generazioni di poetesse in Medio Oriente a in Asia Centrale, per cui è logico aspettarsi di trovare la sua influenza nelle afgane cresciute ed educate in Iran. Alcune delle immagini qui incontrate, quali quella espressa da Javadi (gli amanti ospitati sul suo materasso), da Ebrahimi che è “prigioniera in una stanzetta”, e da Taheri che cammina baldanzosamente per strada con il suo ragazzo, evocano l’immaginario e le provocazioni per cui Farrokhzad è giustamente famosa.
L’uso predominante della prima persona singolare nella produzione poetica qui in esame e la chiara indicazione che l’ “io” narrante è sempre un soggetto femminile, debbono un tributo proprio a Farrokhzad, la prima iraniana che “parla come una donna e come un individuo” (Hilmann, 1990, 148).
Le poetesse afgane, quindi, hanno imparato la lezione di Farrokhzad, come si evince da questi versi:
Questa lirica di Fa’eqeh Javad ci ricorda altresì altre audaci vergini vaganti, ovvero le co-protagoniste di Donne senza uomini, il celebrato romanzo di Shahrnush Parsipur, che probabilmente le afgane d’Iran ben conoscono.
Tuttavia, l’idea dell’esilio intrecciata a quella dell’amore porta l’indelebile marchio delle poetesse afgane, la cui anima è afflitta dal peso di una distanza insormontabile. Come nella lirica seguente:
In questo poema, Shakirieh ‘Erfani lega inestricabilmente l’amore con il dislocamento, in quanto i sentimenti d’amore sono ormai irreparabilmente colpiti dalla perdita e dalla privazione.
Queste donne afgane sembrano o troppo lontane dal loro amato, o destinate a sperimentare solo relazioni destinate a disilluderle, che si concludono con un abbandono:
In questi versi, Zahra Hosseinzadeh si identifica con una città devastata, perché le donne d’Afghanistan condividono lo stesso destino del loro paese, entrambi traditi e sfruttati da uomini crudeli.
Anche l’amore materno è frustrato, in quanto i bimbi afgani sono stati inviati a combattere una guerra eterna che non ha nome (la guerra contro i Sovietici, contro i Taleban, la guerra civile…):
L’amore di Shakirieh ‘Erfani per il figlio scomparso nutre la speranza disperata, rafforzata dalla ostinata convinzione che il figlio non stia deliberatamente lontano da lei, perché lei lo ha nutrito nel suo ventre. Le donne afgane amano appassionatamente e per sempre, come la leggendaria Leila, ma si aspettano un ritorno dal loro sacrificio. Spesso, però, esse sono abbandonate dai loro uomini, o intenzionalmente, o perché questi sono costretti a farlo a causa delle circostanze drammatiche in cui versa l’Afghanistan.
Conclusione
L’esperienza di diaspora in Iran ha inevitabilmente cambiato l’identità politica e culturale delle donne afgane. Se, da una parte, l’esilio ha riformulato la relazione delle rifugiate con la madrepatria cui – nonostante le difficoltà – esse guardano con struggente nostalgia, dall’altra il movimento delle donne d’Iran ha significativamente influenzato la percezione delle questioni di genere da parte delle emigrate.
Nella scrittura della poetesse afgane questi cambiamenti sono espressi in una tensione dialettica tra ciò che le donne hanno perduto e l’ansiosa ricerca di ridefinire la loro cultura, nonché se stesse.
Sebbene le afgane condividano lingua e tradizione letterarie con gli ospitanti iraniani, questi ultimi non sembrano essere l’obiettivo finale della loro produzione letteraria. Piuttosto, le afgane stanno lanciando messaggi all’interno della loro comunità, con la speranza che questi possano rimbalzare in Afghanistan, dove molte tradizioni “culturali” devono essere ridisegnate.
Solitamente l’esilio è un’esperienza umiliante e traumatica, ma le scrittrici afgane si muovono in uno spazio liminale trasformandolo in una dimensione creativa e liberatoria che consente loro di scrivere liberamente, costruendo nuovi parametri di auto espressione.
Questo non significa che le afgane abbiano trovato il paradiso in Iran. Come già detto, in Iran le afgane hanno maggiori opportunità educative di quanto potrebbero avere in Afghanistan, anche se queste opportunità non sono sempre accessibili ai rifugiati. Nonostante molti iraniani guardino con un certo disprezzo gli afgani, molti intellettuali e artisti dell’altipiano sono ben consapevoli del problema che i rifugiati debbono fronteggiare, tanto che si registrano numerosi film di autori iraniani dedicati a queste problematiche. In particolare, Mehrad Talebnia Farid ha rappresentato, nel suo Bambini aìfgani (Bachcheha-ye afgan, 2002) la triste storia di una giovane maestrina iraniana che organizza una classe privata, ma economicamente affrontabile, per i piccoli rifugiati afgani. Per farlo usa una stanza in affitto, che alla fine la maestra dovrà chiudere perché non è in grado di pagarne la pigione. Nella scena finale, l’insegnante esorta gli alunni, soprattutto le bambine, a non rinunciare all’istruzione, a sforzarsi di continuare a studiare, perché questa è l’unica via in cui essi possono ottenere progresso e libertà.
Le ragazze afgane che non si sono arrese e continuano nonostante le difficoltà, riescono ad avere i loro lavori pubblicati da riviste on line o in antologie. Ora questi testi possono scavalcare il confine, uscire dalla diaspora, cominciare a disegnare una nuova mappa di immagini letterarie, ma anche di una nuova politica di coscienza di genere. Al momento, anche se le afgane potessero tornare a casa, la possibilità di una serena vita familiare e sociale, per non parlare di quella culturale e letteraria, è alquanto remota. Nel frattempo, rimanendo in Iran, possono gettare, all’interno della loro comunità, le fondamenta per un dialogo che deve oltrepassare il confine per ricostruire il nuovo Afghanistan.
1 Mirshahi, 2000.
2Su questo argomento v. Hoodfar 2004 e Rostam-Povey 2007.
3Markaz-e farhangi-ye nevisandegan-e Afghanistan. Mashhhad ospita una delle maggiori comunità afgane in Iran.
4 V. Tober 2007
5Citato anche in Olszewska, 2007: 218-219).
6 Vecchia moneta usata sia in Afghanistan che in Iran.
7Ovvero Faizeh e Munis, nel capitolo 6.
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