El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

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il cavallino bianco

daniele comberiati

- È là che vive il vecchio, pa’? –
Simone ancora non sa distinguere i passaggi di tempo, i mesi che si avvolgono sugli anni, le abitudini che cambiano perché scompaiono le persone. Per lui l’esistenza è segnata dai mutamenti di stagione, dal numero di candeline sulla torta di compleanno – prima tre, poi quattro, l’altro ieri cinque – dalla ricorrenza apparentemente infinita dell’estate e del mare.
La spiaggia libera davanti alla biblioteca non è ancora affollata all’inizio di giugno. In acqua lo aiuto a infilarsi i braccioli, gli spiego come muovere le gambe e le braccia. Ora sta costruendo un castello di sabbia sul bagnasciuga con un altro ragazzino. Dal mare mi arrivano all’orecchio stralci dei loro discorsi: “Qui ci mettiamo il fossato”, “Ora faccio la torre”, “Poi mio papà ci aiuta a fare il vulcano”.
È solo allora che finalmente mi rilasso e trovo il coraggio di guardare al di là della strada, attraverso la biblioteca e il teatro, proprio dove prima abitava Davide, in uno di quei villini che a Simone piacevano tanto perché gli ricordavano i castelli di fate e fantasmi delle fiabe. Quando ci siamo venuti in inverno, però, non lo ha più riconosciuto e ha quasi avuto paura. Tutte quelle foglie secche che coprivano la strada, i rami spogli degli alberi, il rumore del vento.
- Dove sono nato io, giornate come queste non ce n’erano. E pure il vento, laggiù, era un vento caldo -.
Davide era un uomo di pochissime parole e molte vite. La prima volta che mi ha invitato a cena la moglie si è commossa: - Non parla mai della sua vita di prima, mai … -
Me lo continuava a ripetere con sollievo, ma anche con paura perché lei, di “quella vita di prima” non faceva parte e forse non aveva voglia di conoscere davvero un uomo che in fondo aveva appreso ad amare così, dimezzato, come se dal passato non avesse avuto nulla se non la nostalgia.
Il marito era assolutamente consapevole del fascino che emanavano la sua voce grave, le sue storie di datteri e deserto, i suoi occhi blu che fissavano l’interlocutore. E forse aveva anche capito, Davide, che spesso le persone erano a disagio di fronte a lui, perché provavano tristezza per le loro vite comuni o magari perché provavano vergogna per come l’Italia lo aveva accolto al suo ritorno. Così parlava pochissimo, non più di un paio di volte l’anno, e quelle volte, da quando era nato Simone, era stato sempre davanti a noi.
Anche il piccolo rimaneva ad ascoltarlo imbambolato e ogni volta che tornavamo a casa, in macchina, un fastidioso senso di inadeguatezza mi coglieva alle sue domande: - Tu ci sei stato a Tripoli, pa’? Anche noi siamo ebrei? Tu lo parli l’arabo? -
La prima volta che ci eravamo incontrati era stato lui a rivolgermi la parola. Era scivolato dietro alla mia sedia, in biblioteca, e aveva indicato la fotografia del libro che stavo leggendo.
- La Hara, il quartiere ebraico. Io sono nato lì. Questa foto però è più recente, degli anni Cinquanta direi –
Aveva ragione. La fotografia era del 1952, almeno così riportava la didascalia alla fine del libro. A colpirmi però non erano state la precisione o la conoscenza dell’argomento; era stata piuttosto la voce intensa ma più giovane degli anni che portava, magnetica, come se avesse parlato meno, molto meno di quanto avesse vissuto.
Un timbro reso ancora più suggestivo dalle leggende che gli amici del bar, o come li chiamava lui “quelli del ramino”, avevano ipotizzato in anni di partite mute e domande implicite.
- Era cantante giù a Tripoli. Pure con Claudio Villa ha suonato -.
- Ma che cantante e cantante! Era un gioielliere, teneva l’oreficeria nel centro esatto della città -.
- Gelataio vi dico, gelataio. L’ho capito da come conosce i gusti: il limone siciliano, il cioccolato…-
Il suo silenzio e il mistero sul suo passato avevano contribuito al conio dei diversi soprannomi che pretendevano, inutilmente, di coglierne l’essenza: l’arabo, l’ebreo, il tripolino, il giudìo, il libico fino al semplice nome proprio, Davide, che forse risultava più semplice e quei nomi li comprendeva tutti.
Di Tripoli, oltre alle tante storie di cui in privato ci faceva onore, gli era rimasto quell’accento strano, un parlare lento e strascicato che sapeva vagamente di napoletano. L’italiano coloniale, mi aveva detto qualcuno. Era stato lui stesso, però, a smentire categoricamente: - L’italiano coloniale, ma quale italiano coloniale! Non è mai esistito l’italiano coloniale! –
Forse era l’influsso del ladino, aveva affermato qualcun altro, ma anche qui non c’erano prove. La cadenza napoletana, invece, pare che l’avesse presa dopo, a Ostia, perché dove viveva lui si era stabilita una folta comunità proveniente da quelle zone. Il teatro, la biblioteca, la pizzeria Pulcinella: sul litorale romano aveva provato a ricostruire frammenti sparsi della sua Tripoli, senza riuscirci mai del tutto.
- Però almeno adesso ci stanno le palme – mi aveva confidato in uno degli ultimi incontri – e mi immagino pure di vederci i datteri, in mezzo alle foglie. Quando sono arrivato qui, invece, di palme non ce n’era manco mezza. Che tristezza ... -

La sua Tripoli in realtà non esisteva più. Gli ebrei erano stati cacciati nel 1969, gli italiani nel 1970: lui aveva provato a resistere fino all’ultimo perché, diceva, - qui non ci sono musulmani ed ebrei, arabi e italiani. Qui c’è la mia terra, che è la stessa terra di mio padre, la stessa di mio nonno -. Dei libici non conservava rancore: - mai confondere un governo con un popolo -, ammoniva. - E poi - proseguiva - in carcere mi ci ha mandato Gheddafi, ma i libici, là dentro, si sono comportati benissimo con me -.
Tripoli aveva iniziato a scomparire sotto i suoi occhi dopo il pogrom del 1967. Nella Hara c’era aria di smobilitazione, alcuni si erano cominciati a informare su come tornare in Italia, qualcun altro aveva scelto di raggiungere Israele. L’ipotesi di un golpe si faceva sempre meno peregrina e l’atmosfera in città non era più quella di un tempo. Lui aveva deciso di rimanere, con la testardaggine ereditata dal nonno livornese, perché credeva che tutto, come sempre, si sarebbe rimesso a posto, ché la Libia, come amava ripetere, sembrava da secoli sull’orlo di un terremoto che, ne era certo, non sarebbe giunto mai.
La città però si restringeva: se ne andavano gli ebrei, si imbarcavano gli italiani, i greci si guardavano intorno con terrore, una nuova preoccupazione si percepiva persino nella base americana. Del multiculturalismo nel quale era cresciuto sembrava non rimanere traccia.
Una mattina Tripoli divenne per Davide ancora più piccola. A delimitarla, le mura del carcere fatto costruire dai fascisti, il “Cavallino bianco”. E un’accusa infamante: cospirazione. In prigione comprese due cose fondamentali. La prima: la storia è una nemesi infinita; la seconda: se esco da qui, me ne vado davvero.
Andarsene non fu facile, perché con Tripoli aveva un rapporto passionale, costruito sul vento del deserto, il sapore dolce dei datteri, le lingue che si intrecciavano in un lungo sospiro. E nei ricordi, la capitale libica assomigliava a una moglie giovane e bellissima abbandonata prima della guerra e mai più rivista, una donna il cui fascino risultava ingigantito dal ricordo e dall’assenza. Dei quarant’anni passati in Libia fra fascismo, leggi razziali, dopoguerra e giunta militare gli erano rimasti negli occhi i tanti popoli e le tante culture che ne avevano attraversato la quotidianità. Eppure non doveva essere stato semplice: lo zio era stato ucciso a Giado, nei dati conservati a Yad Vashem è uno dei pochi tripolini. Un altro parente, invece, fu trasportato nel campo di concentramento di Carpi, dove da Tripoli ne provenivano molti. La Libia gli aveva dato tanto, ma altrettanto gravi erano state le perdite.
L’arabo e il greco non li parlava, ma li capiva perfettamente. - Mi ha aiutato la mia lingua madre, il ladino. Noi sefarditi abbiamo un compito e una grande fortuna: preservare una lingua significa anche modificarla, renderla accogliente, aprirla agli influssi esterni senza snaturarla. Il ladino che sogno è la lingua madre mediterranea, come un’immensa matrioska -.
A Simone spiegava le differenze fra gli arabi, i cristiani, gli ebrei. - Vedi, Tripoli era una città sempre in festa: il venerdì i musulmani, il sabato noi, la domenica gli italiani. Il giovedì sera, a casa, mi viene quasi il magone a pensare che il giorno dopo sarà tutto uguale -. La moglie cercava di lenire la tristezza con le lasagne di mare, le più buone della zona.
- A Tripoli non le mangiavi … - provavo a canzonarlo.
- Queste qui no, ma c’era una napoletana amica dei miei genitori: faceva una pasta al forno…-
Ogni volta, prima di lasciarci partire, guardava Simone negli occhi dicendogli sempre le stesse parole: - Esiste un solo Dio, ma mille sono i nomi per chiamarlo -.
Era un discorso troppo grande per un bambino che non era mai andato in chiesa e che raramente aveva visto un crocifisso, pensavo io. Eppure qualcosa Simone doveva pur recepire, se trasformava la vita di Davide in domande nel viaggio di ritorno e nei giorni successivi: - Che cos’è una moschea? Tu e mamma mangiate kosher? Cos’è il cus-cus? -
Mi sono chiesto spesso che cosa ritenessero del suo passato libico le persone che quotidianamente frequentava a Ostia. Davide in effetti nascondeva perfettamente le sue malinconie: a vederlo passeggiare sul lungomare tenendo sottobraccio la moglie nessuno avrebbe potuto pensare che quel vecchietto curvo fosse nato e cresciuto sulla sponda meridionale del Mediterraneo, erede di una diaspora storica nella quale aveva compiuto il proprio apprendistato Elias Canetti, uno dei più grandi scrittori del Novecento.
La scelta di Ostia non l’ho mai capita fino in fondo. Era stato il primo approdo dopo l’esodo, la prima terra sicura, ma per Davide avrei pensato al caos di Napoli o al mercato di Palermo, forse la più araba fra le città italiane. O al limite al fascino della città eterna, il cui ponentino gli sarebbe stato certamente più lieve del caldo ghibli tripolino, o infine, per non discostarsi dal Tirreno, alla stupenda giudecca di Gaeta, una sorta di metropoli in miniatura. Anche Trieste sarebbe stata una scelta sensata: in fondo, come Tripoli, era un crocevia di culture, lingue e religioni, una città in cui la storia ti travolgeva se non decidevi di prenderla di petto. E con la bora forse sarebbe stato più facile spazzare via i ricordi tristi.
L’unico spazio che aveva concesso al proprio passato, a parte le nostre chiacchierate, era la casa in cui viveva: un villino anni Venti non dissimile da alcune abitazioni tripoline, che certo qualche reminescenza doveva procurargliela. Per il resto, nulla che ne svelasse i pensieri.
Forse Ostia, mi ero ritrovato a pensare una sera, rappresentava una sorta di Itaca: un ormeggio protetto, una donna che lo amava, un lavoro non impegnativo. Diversamente da Ulisse, però, il mare di Roma non aveva per lui nulla di familiare: rappresentava piuttosto un’Itaca ideale, un luogo dove si sarebbe potuto sentire a casa, se solo quei maledetti ricordi, un pomeriggio in biblioteca, non avessero deciso di riemergere. Ma senza rimpianti, sia chiaro: la vita colorata di Tripoli, l’eccitazione della gioventù e la paura per la guerra, ma soprattutto la tristezza per i cari uccisi e per una città, la sua città, che infine lo aveva respinto, non lo avevano inacidito. Credo che implicitamente ci fosse riconoscente perché la nostra curiosità gli aveva consentito di ritornare con la mente a Tripoli e alla Libia senza sentirsi in preda alla nostalgia
. A quanto ne so, non frequentava la comunità ebraica, né aveva mantenuto amicizie tripoline. Non erano pochi, infatti, quelli che si erano stabiliti a Roma e dintorni. Al ritorno in Italia – un ritorno indecente, per come era stato accolto – non aveva fatto polemiche. La sua scelta era stata chiara: rimanere in disparte, eclissarsi. In altre parole, non pensarci più.

Distolgo lo sguardo un momento, quanto basta per accorgermi che Simone è rimasto solo. La sagoma del suo compagno di giochi, in lontananza, raggiunge la famiglia sotto l’ombrellone. Le ombre hanno già iniziato ad allungarsi.
Simone è tutto a preso a costruire un ponte troppo esile per poter davvero reggere e non fa attenzione al papà che è uscito dall’acqua e si è disteso proprio dietro a lui. La sabbia si sfalda sotto la sua mano una, due volte, così lascia perdere e si accinge a rifinire i merletti di una torre.
Quando finalmente si addormentava, di solito già nella via di casa, mi domandavo che cosa avrebbe ricordato, un giorno, di quell’anziano bizzarro che ogni tanto ci invitava a cena. Forse qualche aneddoto sparso qua e là – quella volta che aveva montato il cammello o quando aveva trovato in spiaggia una barca abbandonata – o più probabilmente l’atmosfera della casa, distante appena un isolato dal mare eppure completamente immersa in un contesto cittadino che i grandi alberi che ne accarezzavano i muri contribuivano ad accentuare.
Non gli ho ancora detto nulla, anzi poco fa ho glissato alla sua domanda. Come spiegare certe cose ad un bambino di cinque anni?
La vita tranquilla del lungomare di Ostia mi è d’aiuto: nel paradosso di una capitale/paese, paradosso che le deriva dalla stessa Roma, le morti possono essere al tempo stesso tragiche e inavvertite. Rispetto al piccolo borgo, è completamente assente il rituale del funerale pubblico, sorta di catarsi collettiva. Della metropoli manca però l’anonimato dei decessi, perché ogni morte si trasforma in un sussurro che pur non giungendo mai al chiacchiericcio paesano, ne ricalca il senso di vuoto e diviene impossibile da controllare.
Perché allora l’ho portato al mare proprio qui? Con la moglie di Davide non ho ancora parlato, a parte una breve telefonata per le condoglianze, e all’andata ho evitato di proposito di passare al bar dove era solito sedersi con gli amici. La sua vecchia quotidianità mi avrebbe messo malinconia.
Credo che Simone non si sia accorto di niente. Immerso nell’acqua del mare e nei suoi giochi non ha pensato all’improvvisa interruzione di un’abitudine che era solo mia e che probabilmente non aveva mai del tutto percepito.
- Mi aiuti a fare il vulcano? –
Prendiamo della carta di giornale, allarghiamo il foro della montagna. Lentamente il fumo comincia a uscire dalla parte superiore. Rimaniamo a guardarlo in silenzio.
- È tardi, vedi che se n’è andato anche il tuo amico? Vestiamoci, così andiamo a mangiare qualcosa. Non ti è venuta fame? –
Mentre lo aiuto a sfilarsi il costume umido, mi viene in mente un particolare al quale non avevo mai pensato prima. Mi ero domandato, all’inizio della nostra frequentazione, perché Davide avesse scelto me – anzi noi, perché il piacere di parlare anche a Simone era evidente – per raccontare la sua vita di Tripoli. I miei studi potevano averlo incuriosito, certo, e probabilmente gli avevano dato l’impressione di avere di fronte un interlocutore attento e parzialmente informato. Eppure mi risultava difficile credere che in tutti quegli anni, seppur passati per la maggior parte del tempo nel villino a Ostia, non avesse avuto l’occasione di incontrare altre persone ugualmente interessate. In fondo frequentava con una certa regolarità la grande biblioteca davanti alla spiaggia e lì di studiosi o semplici curiosi ne avrebbe trovati a piacere. Evidentemente la sua era stata una scelta precisa: pur con dispiacere, e il mio orgoglio già se ne doleva, nell’economia della sua decisione la mia persona aveva avuto un ruolo non decisivo se non addirittura minimo.
Proprio ora ritorno con la memoria a quel caffè bevuto in fretta dietro alla biblioteca. – A Tripoli non ci posso più tornare – mi aveva confidato con una mestizia che non gli avrei visto più – mi hanno negato un’altra volta il visto. Sono ebreo, italiano, e lì ci sta ancora Gheddafi. Speravo di morire dopo di lui, per rivedere la mia casa –
Alcuni mesi dopo mi parlò della sua malattia. – Me la hanno diagnosticata solo poche settimane fa -. Già, poche settimane prima. Proprio quando ci eravamo incontrati in biblioteca.
La ricostruzione si fa semplice: l’impossibilità di ritornare in Libia, un male incurabile che presto avrebbe preso il sopravvento sul suo corpo. Credo che a quel punto abbia sentito il bisogno, se non il dovere, di parlare. Non c’era più tempo per rimandare, era necessario trasmettere la sua memoria. Noi siamo capitati davanti a lui nel momento giusto, ecco tutto. Anche se mi ero illuso – o meglio: mi aveva fatto credere – di essere il prescelto, la persona adatta, forse l’unica persona alla quale avrebbe potuto raccontare la sua storia.
Penso che la cosa più bella che ci abbia lasciato sia stata la memoria reale di una possibilità di convivenza: le sue parole erano reperti archeologici che aprivano porte su mondi impensabili eppure inconfutabili. Regni dalle date certe e dai confini ricostruibili, anche se difficili da immaginare, qui e ora. Camminando per le strade di ricordi della sua Hara, mi divertivo ad esplorare la capitale libica: salutavo un vecchio arabo, un orefice ebreo, sentivo la lingua inglese fondersi con quella greca. E l’arabo tripolino mi diveniva improvvisamente idioma familiare. Il risveglio era brusco; dell’antica ospitalità araba, di un tempo non lontano in cui le diversità coabitavano senza odio non è rimasta traccia. L’oblio è il peccato più grande. Ora che gli ultimi superstiti stanno morendo, chi ne rinfrancherà la memoria?
A me basterà pensare: a Davide è successo, è lui che me l’ha raccontato, dalla sua bocca l’ho udito. Ma ad altri? Fra qualche anno chi ci crederà più? Come potremo perpetuare un ricordo non nostro?

Prendo la borsa con la mano destra, mentre la sinistra tiene quella minuscola di Simone. Lentamente ci avviamo verso la macchina.
- Allora, non ti è venuta fame? –
Non risponde subito, è pensieroso anche lui. Probabilmente si è accorto del mio umore.
- Papà? -
- Dimmi tesoro –
- Mi ci porti al cavalluccio? –
Appoggio la borsa sulla sabbia, mi piego per prenderlo dalle cosce e alzarlo. Il movimento mi costa fatica, è cresciuto parecchio e poi lo sento divincolarsi, opporre resistenza.
- No papà, non a cavalluccio. Al cavalluccio, la pizzeria… -
Già, la pizzeria vicino al mare. Davide ogni tanto ironizzava sul nome: - Il “Cavallino bianco”, come il carcere in cui sono finito a Tripoli, pensa un po’… -
Mentre rimuoviamo la sabbia dai piedi, l’occhio mi cade ancora sulla sua casa. Simone mi domanda qualcosa in tono lamentoso, è il suo modo per dire che ha fame.
- Ci andiamo a piedi, tesoro. Il “Cavallino bianco” è proprio qui dietro -.
Poi ci mettiamo in cammino, e finalmente diamo la schiena ai ricordi.

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Anno 5, Numero 22
December 2008

 

 

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